Oggi su Repubblica Bologna è uscito questo mio editoriale:
«Prof, cosa pensa dell’università a “Domenica in?”», mi chiedono gli studenti in questi giorni. Magari non hanno visto la puntata di domenica scorsa (non rientrano nel target), ma gliel’hanno raccontata i nonni. E ci sono rimasti male, nonni e nipoti. Così me la sono fatta mandare e l’ho analizzata: in effetti c’era di che turbarsi.
Non avrei mai voluto tornare sulle cosiddette «veline della Romagna», le quattro ragazze in tutina da superwoman e guanti di gomma con cui, nel luglio scorso, il Polo romagnolo ha pubblicizzato le sedi di Ravenna, Cesena, Forlì e Rimini, entrando in conflitto con il rettore e sollevando polemiche dentro e fuori dall’ateneo. Uno scivolone che speravo fosse dimenticato: non si deve mai usare il corpo (femminile, ma neppure maschile) per pubblicizzare l’università, ma bisogna puntare sull’eccellenza della didattica e della ricerca, e sugli sbocchi professionali.
La mente e non il corpo, insomma: un errore talmente grossolano che l’unica soluzione era dimenticarlo in fretta e guardare avanti.
Invece l’ateneo ci è caduto di nuovo, mandando due suoi rappresentanti nell’“Arena” di Massimo Giletti, una sezione di “Domenica in” di cui basterebbe il nome a capire che bisogna starne lontani. A favore della campagna c’era Giannantonio Mingozzi, vicesindaco di Ravenna e membro del cda universitario; contraria era Paola Monari, prorettore agli studenti. Nulla da dire sui loro interventi: certo volevano il bene dell’ateneo, ognuno con le sue ragioni, e hanno fatto il loro meglio.
Ma il contenitore televisivo se li è ingoiati in un boccone. Tralascio i dettagli della fossa in cui sono scesi. Basta dire che tutti, tranne loro, hanno vinto: dall’agenzia che ha ideato la campagna, per la quale vige il «si parli bene o male, purché si parli», alla studentessa che ha posato in foto perché «vuole fare la modella» e spera nella notorietà televisiva, finanche al conduttore che si è proposto come «assistente» universitario.
Tutti hanno vinto qualcosa, tranne l’ateneo e, più in generale, l’università italiana, che la rissa ha dipinto – per amor di polemica e audience – come poco qualificata, minata da conflitti interni, sessista e pronta a strumentalizzare il corpo delle donne.
Ma non sono tornata a parlare di «veline» per mettere il dito nella piaga. Ci sono tornata perché, se un errore simile è stato non solo fatto ma ribadito, vuol dire che ciò che per me è ovvio per altri non lo è. L’ovvietà è questa: chi trascura la comunicazione trascura la propria identità, che senza una comunicazione efficace rimane nascosta o fraintesa. Inoltre, se sei bravo ma non sai dirlo a nessuno, chi capirà che lo sei?
Per due ragioni, allora, la comunicazione dell’ateneo bolognese va curata nei minimi dettagli: perché è complessa, e dunque facile da sbagliare; e perché in ateneo ci sono molte eccellenze – a dispetto di “Domenica in” – e bisogna farle conoscere.
Ma curare la comunicazione non vuol dire affidarla a questa o quell’agenzia, magari abituata alla pubblicità commerciale ma incompetente su temi universitari. Né si possono mandare allo sbaraglio persone che, per quanto preparate nel loro campo, poco o nulla sanno di media e tv. Occorre invece affidare la comunicazione a persone che, dall’interno dell’ateneo, non solo ne condividano storia, valori e obiettivi, ma abbiano le competenze per comunicarli in modo intelligente e mirato, e siano dotati dell’autorità sufficiente perché nulla sfugga alle loro decisioni.
Inclusa quella di non mandare nessuno in tv, se non è il caso.
Repubblica Bologna 23 ottobre 2009.
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