Il mio post del 20 aprile Perché l’Italia non si mobilita per Ai Weiwei? e l’articolo di Sara Giannini da cui avevo preso spunto hanno indotto l’Associazione Pulitzer a organizzare il primo appello italiano per ottenere informazioni sui motivi dell’arresto di Ai Weiwei e sulle sue condizioni condizioni psicofisiche, e per chiedere la sua liberazione.
L’appello è rivolto innanzi tutto al Presidente della Repubblica italiana. Puoi leggerlo e, se sei d’accordo, firmarlo QUI.
Oggi pomeriggio il mio pezzo e l’appello dell’Associazione Pulitzer sono stati ripresi anche da Nazione Indiana, grazie a Orsola Puecher.
Sono curiosa di vedere che ne sarà di questo appello. Sui media e nella rete italiana. Ma soprattutto nel mondo là fuori.
Ugo ha esposto meglio di me le ragioni per cui l’appello è inopportuno, senza che nessuno rispondesse ai nostri argomenti.
Noto un risvolto dell’appello: si chiede al Presidente della Repubblica italiano di fare un passo a difesa dei diritti umani in Cina, lo stesso Presidente che, d’accordo col suo Governo, sta difendendo i diritti umani dei libici bombardandoli.
E’ questa, lo so, una rappresentazione semplificata della nostra guerra con la Libia. Però rifletteteci un momento, prima di firmare. Magari dopo avere riletto l’ultimo post di Ugo.
Curiosa anche la logica dell’appello: prima chiede informazioni su come stiano le cose, poi chiede la liberazione. Dando per scontato che le informazioni, una volta fornite, non potranno che dimostrare la giustezza della liberazione.
Meno male che Hu Jintao avrà di meglio da fare che chiedere conto, al Presidente della Repubblica italiana, delle leggi ad personam votate dal Parlamento italiano e promulgate (anche se obtorto collo) dal Presidente della Repubblica, delle migliaia di innocenti ‘sequestrati’ nelle carceri italiane per mesi e mesi in attesa di giudizio.
Per non dire, ripeto, della guerra di aggressione alla Libia, che il destinatario continuerà ad approvare e incoraggiare, fra un appello e l’altro. 😦
Ma che c’entrano “le migliaia di innocenti ‘sequestrati’ nelle carceri italiane per mesi e mesi in attesa di giudizio” e le leggi ad personam?
Hu Jintao avrà sicuramente di meglio da fare.
Infatti non stiamo cercando di trovare un intrattenimento per lui.
Questa petizione nasce dalla giusta osservazione del fatto che in Italia non si parlasse di questo problema. Già tutti troppo presi ed interessati a discutere del proprio orticello o delle feste di Arcore.
Ai Weiwei è una mente eclettica e geniale, un artista senza confini, rappresenta probabilmente un anelito di libertà che, nel substrato culturale della Cina di oggi, è fortemente diffuso.
Se parliamo di razzismo o del razzismo che è ancora forte in alcune parti del mondo, non stiamo sostenendo una discussione culturale importante per i valori che sono diffusi nella nostra società?
O se una donna viene lapidata in Iran è solo un problema iraniano?
L’ Associazione Pulitzer si occupa di sostenere il diritto di ciascuno a manifestare il proprio pensiero, in Italia.
Siamo già oggi, con questo piccolo sforzo, riusciti a rilanciare il dibattito in rete, su decine di testate e blog.
E non ci fermeremo. Perchè Ai Weiwei siamo noi, prigionieri di un monopolio dell’ informazione e della nostra incapacità di guardare oltre la punta del naso.
@Ben
Indipendentemente dalle critiche – che restano- l’appello non può far male. Al massimo risulterà inutile. L’avrei firmato più volentieri senza il terzo punto, ché le liberazioni si chiedono ai rapitori. Però qualche angelo mi ha spiegato che la retorica dell’appello richiede di irritare per sucitare maggiori reazioni.
Quindi firmo, non fosse che per sentirmi autorizzato (e coinvolto) a dare eventualmente un giudizio negativo se la China dimostrerà di essere più corretta di noi. Mi sembra che in fondo sia un buon compromesso.
Gentile Antonio Rossano,
perché non risponde alle obiezioni, invece di divagare (razzismo, lapidazioni) e di aggiungere ragioni palesemente inconsistenti?
Quali:
– “Questa petizione nasce dalla giusta osservazione del fatto che in Italia non si parlasse di questo problema”.
In Italia non si parla neanche del problema degli indennizzi alle 171.000 vittime del crollo della diga di Baqiao. A quando una petizione rivolta a Napolitano che lo inviti a chiedere informazioni al riguardo a Hu Jintao tramite l’ambasciatore cinese a Roma, e intanto comunque ingiunga al governo cinese di versare immediatamente il dovuto alle famiglie delle vittime? (Non prenda sul serio questo suggerimento, per carità.)
– “Ai Weiwei è una mente eclettica e geniale”.
E allora?
Naturalmente, ci sono casi in cui uno Stato può legittimamente decidere di interferire negli affari interni di un altro Stato, in accordo coi principi del diritto internazionale. Non vi rientra la legittima applicazione delle norme di procedura penale legalmente vigenti, in Italia o in Cina. O in Iran.
Tranne per chi creda, per sentito dire, quel che gli piace credere.
Capisco bene che gli Stati usino queste interferenze per difendere interessi economici abbastanza vitali. Come gli USA in Irak. Francia, Inghilterra e Italia in Libia. E l’insieme dei paesi occidentali, esasperati dalla concorrenza economica cinese, con queste periodiche campagne. Capisco anche che ci sia l’esigenza di nobilitarle, queste guerre e queste campagne.
Credo davvero, Rossano, che questa non sia la sua intenzione, né l’intenzione di quelli che firmano.
Ma non contano solo le intenzioni, contano anche gli effetti. Certamente non facili da valutare, quindi da valutare con cautela, realismo e solide conoscenze delle situazioni in gioco (la Cina, nel caso, con la sua economia, la sua cultura, il suo ordinamento politico e legale.)
Perché degli effetti, al di là delle intenzioni, siamo responsabili. Anche solo firmando.
@Ben
La tua analisi è corretta, lo sai. Cina e Iran, tra gli altri, hanno molti motivi per sentirsi irritati nei loro affari interni. Continuamente additati per il mancato rispetto dei diritti umani, sempre nell’occhio del ciclone, sicuramente sotto quello dei media internazionali che ne dicono di tutti i colori, sovente con due pesi e due misure.
Ma se fossi il consigliere di Hu Jintao o di Ahmadinejad, una critica all’orecchio gliela farei. Direi loro che se uno sbaglio stanno commettendo è quello di voltare le spalle, magari con ragione, quando dovrebbero invece aumentare le occasioni e gli attori che favoriscano un maggior dialogo con noi e quindi una conoscenza reciproca capace di risolvere una questione Ai Weiwei con un semplice ufficio stampa che cortesemente, magari con qualche cineseria, ci spiega con un sorriso che l’artista è in carcere per tasse non pagate magari, che sì, ci dispiace che un personaggio così noto sia in custodia cautelare ma la legge recita così, forse in questo caso specifico le procedure risaltano in contrasto alla notorietà del personaggio ma che poiché (come del resto avverrebbe nella nostra amica Italia per l’articolo 275ccp) c’era pericolo di fuga l’artista è stato fermato all’aeroporto sulla via di Hong Kong. Le sue condizioni di salute sono buone e un medico si sta già occupando delle sue patologie, sappiamo che è diabetico e iperteso infatti…
Questo è un problema davvero imputabile ad una certa miopia con cui questi Stati dimostrano di non conoscere bene il modo in cui funzionano i nostri media occhiuti, abituati a voler conoscere (e far conoscere) di un imputato anche la marca dei suoi preservativi o l’opinione che ne ha il vicino di casa di 20 anni prima. Quindi se l’appello in questione potrà anche solo affastellarsi sulle pile degli altri e prima o poi svegliare qualcuno sull’opportunità di migliorare la comunicazione internazionale, che è mediatica non solo istituzionale, ben venga.
Ti sembra che questo argomento possa persuaderci a sentirci responsabili degli effetti della nostra firma? 🙂
@Ugo
Il tuo è un buon motivo.
Il mio dubbio di fondo si basa su di una convinzione (non solo mia!): credo che il sistema politico cinese, con l’ordinamento legale associato, abbia contribuito e contribuisca all’incredibile crescita economica degli ultimi 30 anni. Una crescita che ovviamente ha allargato e allarga i diritti dei cittadini più di quanto non avrebbe potuto o potrebbe fare qualsiasi riforma politica ‘filo-occidentale’. (Cosa che l’opinione pubblica occidentale ha difficoltà a capire.)
Credo che la dirigenza politica cinese, insieme con l’ampia classe dirigente, economica e amministrativa, che gestisce la crescita, abbia il problema di controllare l’evoluzione del sistema politico, anche in direzione ‘filo-occidentale’, senza mettere a repentaglio crescita e ordine sociale. Come tu stesso hai sostenuto.
Come possono procedere? Dubito che tu, Giovanna, Antonio Rossano, Napolitano o io, siamo attrezzati per fare proposte al riguardo.
Meno attrezzati, forse, di Hu Jintao e dei suoi colleghi, che hanno al loro attivo successi senza pari nella storia.
Meno attrezzati, soprattutto, delle élites economiche e amministrative cinesi, delle centinaia di migliaia di loro giovani manager e scienziati formati in quelle che sono ormai fra le migliori Università del mondo (vedi classifiche internazionali).
Meno anche delle masse cinesi coinvolte nello sviluppo, con una democrazia sostanziale dal basso che da noi non c’è più, se mai c’è stata: i distretti industriali creati e gestiti da miriadi di collettivi comunitari; un movimento operaio che si fa valere energicamente, con lotte durissime ed efficaci, su salari e condizioni di lavoro. (Fra le fonti: Giovanni Arrighi, Adam Smith a Pechino. Genealogie del ventunesimo secolo, Feltrinelli, Milano, 2008. Vedi anche http://www.storicamente.org/05_studi_ricerche/giovanni_arrighi.htm#par2).
Non sono in grado di valutare la vicenda di Ai Weiwei, e prima di lui di Lu Xiaobo, in questo quadro. Tutto qui.
Nel dubbio, da confessa ignoranza e mancanza di strumenti adeguati, mi astengo.
@Ben
Ma io ho altri scopi, Ben. Primo, a forza di firmare appelli le persone si stancheranno e cominceranno a riflettere sempre di più e sulla sostanza della loro firma e sull’efficacia del loro operare. La formula dell’appello affosserà se stessa ma non si sarà sacrificata invano poiché quegli stessi sostenitori dei diritti umani saranno stati costretti a escogitare altre soluzioni e così facendo avranno acquisito maggior esperienza e giudizio su quegli Stati che vanno criticando. Maggior esperienza, maggior cautela, maggior rispetto, meno svarioni.
Vestendo invece per un momento il changshan, vedo solo effetti positivi da un miglior dialogo e comprensione dei media occidentali, bada bene, senza per questo dover correggere la barra del mio timone. Infatti se è attraverso il diritto umano e l’incomunicabilità che l’Occiddente arma le proprie intenzioni bellicose con la benedizione dei propri elettori, cosa c’è di meglio che contrastarlo alla radice aumentando la presenza mediatica dei miei interventi, dei miei referenti, dei miei corrispondenti che con affettato savoir faire rassicureranno gli occidentali smarriti tra le righe dei propri media, fungendo da antidoto al veleno. In fondo per sedare i pregiudizi altrui devi giocare d’immagine. Basta ricordare a chi mal ti conosce che oltre a tigri si è anche panda.
@Ugo e @Ben: nonostante la brevità dei vs nick, gli argomenti non vi mancano.
E ne sono contento. Davvero.
Perchè in questo modo stiamo dando un senso reale a quell’ appello: era proprio la mancanza del dibattito, l’ elemento, l’ innesco che ha scaturito la necessità di trovare un percorso per parlare e far parlare di Ai Weiwei.
@Ben: è vero in Italia non si parla di molte cose (“degli indennizzi alle 171.000 vittime del crollo della diga di Baqiao”), anzi se ne parla di una sola. Da troppo tempo.
Quella che sembrerebbe essere una gabbia mediatica dalla quale nulla può sfuggire. Il monopolio dell’ informazione che ci priva di fatto della nostra capacità e possibilità di esprimerci.
Come la gabbia di silenzio in cui è stato chiuso Ai Weiwei. Perchè parlare di Ai Weiwei significa parlare di libertà di manifestazione del pensiero. Significa parlare di noi.
Evitando, almeno per una volta, di essere autoreferenziali o rimanendo rigidamente costretti nel recinto delle forme e degli argomenti del linguaggio mediatico tradizionale.
Ancora Sig. Ben, rispettando in presunzione l’ onestà intellettuale di chiunque, fino a prova contraria, perchè mi estrae e virgoletta un pezzo di frase privandola del continuo che le conferisce il suo significato?
La frase che Lei ha estratto è : “Ai Weiwei è una mente eclettica e geniale”, ma la frase che io ho scritto è: “Ai Weiwei è una mente eclettica e geniale, un artista senza confini, rappresenta probabilmente un anelito di libertà che, nel substrato culturale della Cina di oggi, è fortemente diffuso”
Parlavo non della mente geniale, evidentemente, ma del bisogno di libertà che quella mente potrebbe materializzare nella opinione pubblica cinese, priva di fatto di una qualche forma di democrazia.
Ed è per questo che Ai Weiwei è stato arrestato. Ci saranno o si troveranno buone motivazioni tecniche, o forse anche no, per giustificarne l’ arresto, ma resta il fatto che nel mese precedente all’ arresto di Ai Weiwei in Cina sono state fermate ed arrestate, come lui, diverse decine di intellettuali e rappresentanti di una cultura diversificata dal regime.
Probabilmente anche per loro ci saranno buone giustificazioni tecniche.
Nessuno vuole, può, o ha la presunzione di interferire negli affari interni della CIna. Scherziamo?
L’ appello è un simulacro.
Ciò non toglie che, come stiamo facendo, chiederemo a tutti e con tutte le nostre energie, di sottoscriverlo. Perchè l’ obiettivo sia portato a termine, al suo massimo possibile livello.
E la sua astensione Le fa torto, fa torto ovvero alla sua lungamente narrata visione, perchè l’ astensione di fatto non esiste. E’ sempre una scelta.
L’ appello o si sottoscrive oppure no. Non esiste una posizione intermedia.
@Ugo: E’ vero. La gente a furia di appelli potrebbe stancarsi.
Come a furia di parlare di certe cose di cui oggi si parla in continuazione in Italia, ne è talmente stanca da non dare più alcun valore a quei messaggi. Deprivando in tal modo gli strumenti dell’ informazione del loro ruolo fondamentale in una democrazia, quello delle sentinelle.
Ma tutto può decadere per il troppo uso o inappropriato uso.
Quando ci siamo posti il problema, con Giovanna, su quale fosse lo strumento per portare ad una maggiore attenzione del pubblico la questione di Weiwei, alla fine si è scelto l’ appello perchè appariva uno strumento mediaticamente più “partecipativo”. La condivisione dell’ appello, l’ uscita dai “walled gardens” dei social media per andare su di un sito esterno a lasciare il proprio consenso, è un gesto di partecipazione attiva.
Attenzione, non è un “Mi piace” su facebook.
Ci sono dei gesti che vengono compiuti come quello di leggere l’ appello, recarsi sul sito dove è postata la petizione, scrivere i propri dati e premere il tasto invio. Sono gesti semplici e rapidi ma, al contrario dei tastini magici dei social media, rappresentano una intenzione ragionata.
Ed un altro effetto positivo è che abbiamo chiesto a decine di blogs e testate di sostenere l’ appello, ottenendo, anche in questo caso,l ‘effetto che ci eravamo prefissati: portare la gente a parlare, a discuterne.
Anche chi senza proprio riuscire a comprendere, mi scrive: “ma con tanti problemi che abbiamo noi in Italia, dobbiamo pensare proprioa quel cinese lì?”
Anche quello è importante, perchè ci consente di dargli una risposta e, fosse anche solo per un minuto, restituirgli una visione diversa dei mille altri problemi.
Gentile Rossano,
continuo a pensare che essere “una mente eclettica e geniale” non sia né necessario, né sufficiente, né rilevante, per rappresentare “un anelitò di libertà… fortemente diffuso”.
Mi consente di tralasciare “nel substrato culturale della Cina di oggi”? “Substrato culturale” a chi?!? 🙂
“Mi astengo” significava “mi astengo dal sottoscrivere”, quindi NON sottoscrivo. Non era abbastanza chiaro? 🙂
Gentile Ben, lei continua a troncare la frase ed a stravolgerne il suo significato.
La cultura , in termini sociologici, è l’ insieme dei valori e delle tradizoni di una società.
Il substrato culturale è da intendersi , nel contesto della frase, come uno strato inferiore, al di sotto della cultura ufficiale di quel paese.
Una sottocultura. Le sottoculture sono spesso in contraddizione e/o in opposizione e con valori e tendenze molto dissimili da quelli della cultura dominante.
Spero di esser stato chiaro, adesso.
Ben volentieri aderisco a questo appello che deve attirare l’attenzione della nostra opinione pubblica e della nostra brutta politica distratte dalle squallide vicende di B. su un regime dispotico e brutale, come quello cinese!
Ma guarda un po’, Ai Weiwei è vivo e vegeto, non è stato né torturato né picchiato, è in buona salute, abiti civili e non galeotti. Nessuna manetta, dice la moglie, che va letto come nessun segno di manette. Nessun taglio della lunga barba, quindi non v’è stata tortura psicologica per svilire l’artista o accanimento nel degradarlo all’uniforme corporale del detenuto.
Si sono preoccupati della sua salute e poiché è diabetico e soffre di ipertensione gli hanno misurato la pressione ogni giorno oltre a somministrargli le medicine per la terapia delle sue patologie. Meglio che in tante carceri italiane, aggiungo. Non dovrei dirlo ma confesso di essere un po’ geloso.
Niente male come inizio per tutti i patosensibili che paventavano “confessioni” medioevali e Torquemada con gli occhi a mandorla, certi di rivedere al più il santino dell’artista solamente in un futuro gala della conventicola di Oslo.
Non vale l’obiezione che per merito degli appelli internazionali si sarebbero ammorbidite le posizioni cinese o evitate le eventuali violazioni fisiche della persona (che sarebbero state difficilmente occultabili agli occhi e alle orecchie della moglie di Ai Weiwei, dimostrando che il sistema penale cinese ha trattato l’artista con i guanti bianchi fin dal principio della custodia cautelare). Primo perché gli appelli sono partiti ben dopo l’arresto. Secondo perché ciò non ha minimamente accorciato i tempi tecnici delle procedure cinesi, compresa la visita concessa alla moglie dell’artista.
Avremo modo di studiare anche le carte dell’accusa. Si ricorda che anche negli Stati Uniti per il reato di evasione fiscale si va in galera, è prevista la custodia cautelare, e la grande differenza è la presenza eventuale della cauzione (bail), che in Cina, come in buona parte del sistema europeo, non è contemplata. Oppure potremmo difendere o invocare il dispositivo discriminatorio del bail come viene appunto proposto dall’avvocato amico di Weiwei, Liu Xiaoyuan in un ragionamento all’italiana: se sono le tasse il problema, perché detenerlo e non pagare?
http://www.washingtonpost.com/world/detained-china-artist-ai-weiwei-allowed-to-see-wife/2011/05/16/AFDGzk4G_story.html?wprss=rss_homepage
Ugo, il punto principale non è che Ai Weiwei sia stato trattato bene. E’ se la sua detenzione sia accettabile, nel caso non improbabile che sia dovuta principalmente a motivi politici.
La mia tesi è che è difficile stabilire questo dall’esterno, senza essere profondamente informati delle complessità dell’attuale società cinese, del suo sistema economico, politico e giuridico. E comunque i cinesi, che sono ormai sotto molti aspetti una società più avanzata e civile della nostra, sono ben in grado di pensarci da soli.
Gli occidentali interessati, se avessero qualche suggerimento costruttivo, potrebbero trasmetterlo rispettosamente ai loro corrispondenti cinesi, nella speranza di fare cosa utile. Possibilmente astenendosi da presuntuosi pregiudizi ideologici, che invece ispirano alcuni di questi appelli.
Questo resterebbe vero anche se Ai fosse stato trattato meno bene.
@Ugo
Non è un’obiezione a quello che hai scritto, anche se purtroppo lo sembra. E’ un’aggiunta.
Sono d’accordo con Ben.
Aggiungo: io avrei fatto un appello pro diritti umani contro gli USA per la scarcerazione di Bradley Manning invece che per il caso di Ai Weiwei di cui si sa poco o niente.
Manning è in carcere di massima sicurezza da quasi un anno per essere sospettato di avere passato i famigerati cables ad Assange. E’ quindi detenuto indubbiamente per motivi politici (a differenza di Ai Wei Wei). Fino a pochi giorni fa era detenuto in regime di massima sicurezza: 23 ore al giorno in una cella senza finestra, senza oggetti personali, senza lenzuola (le sue condizioni erano riferite pubblicamente e quotidianamente dai suoi famigliari e riportate sui giornali, a differenza di Ai Wei Wei)
Abbiamo fonti a bizzeffe su ogni aspetto della sua incarcerazione e della sua detenzione. Abbiamo letto le chat che lo inchiodano.
L’upload dei cables di Wikileaks è stato una delle prove di coraggio e uno degli atti rivoluzionari più notevoli degli ultimi anni. I cables sono stati la prova che quello che sospettavamo da sempre era vero. Avrebbero dovuto sollevare un casino e invece non è successo niente. E Manning è in prigione e nessuno se lo fila.
Da colonizzati quali siamo penso che la nostra conoscenza della società USA ci permetterebbe di fare un appello più consapevole e informato.
(Pare comunque che le sue condizioni siano comunque già migliorate. Si dice infatti che abbiano smesso di torturarlo:
http://www.guardian.co.uk/world/2011/may/04/bradley-manning-jail-conditions-improve)
Certo, la svolta sarebbe che l’appello partisse dai cinesi, in mancanza di meglio sarebbe comunque un atto di vitalità se arrivasse da intellettuali italiani. Naturalmente non accadrà.
Sarà che quando manca il mistero si spengono gli entusiasmi?
Scusate per il commento leggermente OT: ho solo voluto aggiungere uno spunto di riflessione sui pregiudizi ideologici accennati da Ben.
Per la verità, Giapponesi, Manning è un militare che ha violato gravemente le regole militari, con conseguenze pesanti per l’esercito in cui si era liberamente arruolato. Tutta la mia simpatia a lui. Ma è comprensibile che sia punito duramente. Anche qui, se lo sia o non lo sia secondo le leggi americane, non possiamo credere che ci siano abbastanza americani capaci di occuparsene e interessati a farlo? 🙂
Occuparsi dei fatti del mondo va benissimo. Ma senza presunzioni eccessive. In cui si cade più facilmente quando si è lontani e inevitabilmente poco informati.
Ma certo che Manning era un militare che ha violato le regole.
Forse mi sfugge una cosa, si protesta contro le regole, contro la loro applicazione o contro le eccezioni all’interno di quel sistema?
Anche un attivista per la libertà del Tibet viola le regole della Cina. Volontariamente. Se però viene incarcerato, apriti cielo.
Sono dissidenti politici, gli uni e gli altri.
Dal mio punto di vista occuparsi dei fatti del mondo vuol dire protestare contro ciò che si ritiene ingiusto. Istituzionalizzato o meno.
Ben, sono d’accordo con te che sarebbe meglio che ognuno si occupasse dei casi propri, prima di giudicare le vicende altrui osservandole sotto la lente distorta della propria personale cultura.
Tuttavia credo che sia lecito considerare i casi americani un po’ più nostri che quelli cinesi, dal momento che siamo culturalmente colonizzati.
LIBERTÀ PER TUTTI, PACE PER TUTTI….VOGLIAMO UN MONDO GIUSTO E LIBERTO!!!
@Giapponesi
Secondo me protestare perché una regola viene violata o perché ci sembra ingiusta è abbastanza diverso. Nel secondo caso, bisognerebbe dare anche qualche indicazione su che altra regola si vorrebbe mettere.
Riguardo a Manning, io personalmente non sono in grado di dire se qualche regola sia stata violata, e se e come qualche regola dell’esercito e dello Stato americano andrebbe modificata.
Analogamente, sulla gestione cinese dei dissidenti tibetani, o di altri dissidenti delle molte altre nazionalità che compongono la Cina, ho ben poco da dire. (Come anche sulla gestione spagnola dei dissidenti baschi.)
Hai ragione, è più facile per noi capire le cose americane rispetto a quelle cinesi.
Ma sei sicura che siamo ‘culturalmente colonizzati’ dai nord-americani? Non è più ragionevole dire che c’è una lunga vicenda di influenze culturali reciproche fra Europa, Italia inclusa, e USA?
Urge l’aggiornamento della situazione, una riflessiona a margine e un’affettuosa tiratina d’orecchie per i tanti appassionati difensori dei diritti umani.
La magistratura cinese ha reso note nello specifico le accuse che hanno portato alla custodia cautelare dell’artista. Come ci ricorda PeaceReporter (col sempre attento Gabriele Battaglia), citando l’agenzia ufficiale governativa Xinhua news, l’accusa è di ingente evasione fiscale e occultamento e distruzione delle scritture contabili da parte di una delle imprese di proprietà della famiglia Weiwei, la Beijing Fake Cultural Development Ltd.
http://it.peacereporter.net/articolo/28653/Cina%2C+il+governo+chiarisce%3A+%27Weiwei+arrestato+per+evasione+fiscale%27
Nel frattempo non trovano pace i sit-in e le manifestazioni di protesta, soprattutto nella (com)unità (intern)azionale dell’arte. Uno fra i tanti: http://www.huffingtonpost.com/john-seed/san-diego-sits-in-for-ai-_b_865031.html#s281525&title=Alexandra_Marx_Barbara
Restano ancora da constatare un paio di futuri risvolti: I) Quando Weiwei sarà rilasciato II) Quale sarà l’esito della sentenza al termine del processo in termini di sazioni pecuniarie e/o detentive.
L’appello per la sua liberazione è stato presentato, in sintonia con i tanti appelli internazionali, le firme raccolte. Nei primi sviluppi della vicenda si poteva ancora pensare che l’artista fosse stato incarcerato per mettere a tacere la sua influenza mediatica e il suo ruolo di frontman nella fantasmatica rivoluzione dei gelsomini in Cina. Certo, la logica era traballante e faceva acqua da tutte le parti, ma se firma anche Umberto Eco allora vuol dire che se ci si sbaglia per Weiwei ci si azzeca per altri cento e quindi illazione e insinuazione non sono mal spese, perché anche sparando alla cieca qualcosa si colpisce comunque.
Si potrebbe forse dire che quei troppi giornali che fin dal principio hanno accostato alla generica accusa di crimini economici (confermata perfino dal portavoce del Ministero degli esteri cinese) anche due chicche come la bigamia e la diffusione di materiale pornografico online (che non c’entrano nulla ma sono combustibili con un alto numero di ottani che rovinano le fasce elastiche dell’intelletto) non hanno facilitato agli Occidentali una corretta messa in moto portandoli invece a battere in testa con l’aria tirata a manetta.
Vorrei invitare i vari Rossano e co. (e quindi più in generale tutti coloro che in buona fede hanno sottoscritto, seppur con sfumature diverse, l’appello) a fare una semplice cosa: esplicitare una condizione che se soddisfatta falsificherebbe la loro ipotesi iniziale sull’arresto di Weiwei associata alla libertà d’espressione. Chiunque non sia in grado di trovare in se stesso questa condizione è vittima del pregiudizio e niente o nessuno potrà fargli cambiare opinione, che ne sia cosciente o meno.
Ho aspettato un bel mese a braccia incrociata nell’attesa che qualcuno commentasse la notizia del 22 Giugno 2011 (Repubblica l’ha fatto il 23, in una spalletta del corrispondente a pagina 16 sezione Mondo).
Ovvero, come volevasi dimostrare, Ai WeiWei è stato rilasciato su cauzione, gettando alle ortiche le ipotesi repressive dei tanti che purtroppo non hanno un buon rapporto con lo scetticismo e la logica e firmano petizioni autoreferenziali. Dove sono tutte quelle voci convinte? Non odo suono alcuno. E personalmente mi rattristo perché qualsiasi miglioramento nasce dalla presa di coscienza dei propri errori. Altrimenti alla prossima Sakineh saremo ancora lì a combattere i fantasmi dei propri pregiudizi. Giusto?
Ugo, il nostro appello voleva essere un modo di far uscire la discussione sulla «libertà d’espressione» – che spesso si tiene sui media e sull’internet nazionale in modo molto asfittico e legato solo all’antiberlusconismo – in un contesto internazionale più ampio.
O almeno, la mia intenzione era questa. Ci si è riusciti molto, molto limitatamente. E a un livello che è spesso stato frainteso come “il solito appello bla bla bla”.
Detta in altri termini: volevo usare il genere scittorio “appello su Repubblica” per capire se si potesse farne altro. Tipo discutere anche altrove, come in parte si è discusso su questo blog, di rapporti internazionali, rapporti con la Cina eccetera. Non ci siamo riusciti, se non – ripeto – in modo limitatissimissimo.
Amen. Anche in questo caso ho imparato qualcosa. Ciao!
@Giovanna
Mi rispondi proprio tu che sei l’unica che ha posto fin dal principio cautele e obiettivi? Ovvero colei che aveva meno da imparare da “questa” cosa? In effetti una brava padrona di casa si assume la responsabilità dei suoi commensali 🙂
Chiaramente il tuo partecipare era inerente ai tuoi studi sulle cavie, ma la sostanza dell’appello è suonato loro proprio come “il solito appello blabla”.
Per quel che mi concerne ho imparato che le invettive fanno molto clamore ma le smentite no; che la libertà d’espressione occidentale spesso conduce alla univocità d’impressione; che gli appelli rinfocolano i pregiudizi e facilitano i successivi.
Utile? Molto, ma solo a patto di introdurre l’elemento sanzione. Avrei voluto sentire qualche altro squittio, oltre al mio.
@Ugo
Caro Ugo gli allarmismi è vero non sono mai cosa buona, ma se si è parlato di repressione cinese per quanto riguarda l’improvviso arresto di Ai Weiwei non lo si è fatto per il puro gusto di “fare appelli”. Le smentite, è vero, fanno sempre poco clamore, ma forse parlare in questi termini non è del tutto corretto.
Una smentita implica che un fatto non è mai accaduto, e per questo si rettifica. La reclusione c’è stata, e le ragioni non sono mai state davvero chiare. La liberazione è la negazione dell’arresto? Non direi.
Credo ci voglia una diversa argomentazione.
Sara è molto più brava di me nell’esporre dei ragionevoli dubbi, che sicuramente lei non condividerà: http://www.roarmagazine.it/fenomeni-da-baraccone-20/politica/360-ai-weiwei-libero-note-a-margine.html
(scusa Giovanna non lo faccio con fini pubblicitari, ma per il semplice motivo che Sara conosce meglio di me l’argomento e esplicita bene le ragioni della sua diffidenza nei confronti del rilascio di Ai Weiwei)
@Roberta
Eppure non è così difficile capire la natura ideologica di una tesi. Soprattutto in estate, stagione che concede utili alibi da colpi di sole e pause riflessive per frivoli test sotto l’ombrellone: si consiglia di partire dal seguente di matrice austriaca, un po’ datato ma sempre validissimo. Dicebamus externa die…
“[…] Vorrei invitare i vari Rossano e co. (e quindi più in generale tutti coloro che in buona fede hanno sottoscritto, seppur con sfumature diverse, l’appello) a fare una semplice cosa: esplicitare una condizione che se soddisfatta falsificherebbe la loro ipotesi iniziale sull’arresto di Weiwei associata alla libertà d’espressione. Chiunque non sia in grado di trovare in se stesso questa condizione è vittima del pregiudizio e niente o nessuno potrà fargli cambiare opinione, che ne sia cosciente o meno.”
Caro Ugo,
quello che personalmente mi interessava era introdurre l’argomento in Italia. Molto meno mobilitare coscienze o l’apparato di stato italiano. Da questo presupposto aver finalmente letto la notizia dell’arresto di Ai Weiwei sui maggiori quotidiani nazionali e aver innescato un dibattito (soprattutto su questo blog) mi sembrano dei buoni risultati. Ho commentato e espresso i miei dubbi circa la liberazione di Ai Weiwei su Roar Magazine. (segui il link di Roberta). La pigrizia e la censura provinciale dell’informazione italiana sono sempre strabilianti: la scarcerazione sembra infatti collegata alla visita europea di Wen Jiabao, primo ministro cinese. Evento storico giustamente segnalato e analizzato dalle testate giornalistiche di tutta la EU ad esclusione di casa nostra. (Recita l’economist: “The meetings mark the start of permanent consultations, a relationship Germany has with just a handful of countries and that China has had until now with none”.) Ancora una volta a me sembra che il nodo centrale della questione non sia lo schieramento e il blablabla ideologico quanto la formazione di un orizzonte culturale ampio, composito e stratificato. E si spera, come conseguenza, il sorgere di uno spirito critico collettivo, di un sentire sociale e non di parrocchietta.
Grazie.
Butto altra carne al fuoco. A mio avviso il lato più spinoso e ingarbugliato dell’intera faccenda riguarda piuttosto il suo risvolto commerciali. Sembra che a partire dall’arresto di aprile il “brand Ai Weiwei” stia continuando a dominare il mercato dell’arte contemporanea globale. (Le informazioni che circolano riguardano in particolar modo il gallery weekend di Berlino a fine aprile, la fiera di Hong Kong e gli stock delle case d’asta internazionali. Purtroppo al momento non dispongo di documenti che posso linkare…). Il fattore detenzione ha evidentemente giocato un ruolo di punto nel far lievitare il valore simbolico delle sua arte. (faccio riferimento al “capitale simbolico” teorizzato da Pierre Bourdieu)
Anche grazie ad Ai Weiwei il nuovo e potente mercato dell’arte contemporanea cinese continua le sue peripezie. Negli ultimi anni ha scavalcato Francia, UK e USA (top 3 del mercato da decenni) conquistando nel 2011 la prima posizione. E c’è già chi grida alla “chinese bubble”. (http://www.theatlantic.com/business/archive/2011/04/the-art-of-bubbles-how-sothebys-predicts-the-world-economy/236852/)
Come noto, Ai Weiwei non potrà lasciare Pechino nè tantomeno comunicare con i media domestici e internazionali per (almeno) un anno. Voci di corridoio (alias emails provenienti dall’entourage dell’artista) comunicano che Ai Weiwei è già tornato a lavoro carico di nuove idee ed energie. L’arresto diverrà senza dubbio substrato concettuale e contenutistico delle sue prossime opere, così come il veto comunicativo (che ridicolizza l’accusa di crimini fiscali) un mezzo prezioso per la ricerca di nuove strategie di marketing e comunicazione attraverso reti fisiche e virtuali.
Non liquiderei con troppa facilità il movimento pro Ai Weiwei. Si tratta di una mobilitazione dalle sfumature interessanti e da seguire obbligatoriamente per capire il futuro dell’arte, della comunicazione e del loro impatto sul mercato.
Per concludere mi autocito: “Lungi dal condannare la passione civica dell’arte, viene da chiedersi chi sarà ad approfittare dell’operazione, se Ai Weiwei e la lotta per i diritti umani in Cina, o piuttosto il turn over dei mercati dell’arte contemporanea. O ancora il gigante del lusso Louis Vuitton, che ha coperto le vetrine del suo flagstore parigino con il viso di Ai Weiwei…”