Da qualche mese è on air la nuova campagna di Unilever per Cif Crema, il noto detersivo per bagno, cucina e annessi.
Nuova? Di nuovo c’è solo l’animazione 3D, che inserisce il prodotto in una rivisitazione di vecchie favole in cui le donne hanno, a turno, il ruolo di Cenerentola, di bellissima fanciulla perseguitata dalla strega e analoghi. In ogni caso, la protagonista finisce regina della casa, accompagnata dal claim «Sempre un finale da favola».
La campagna è internazionale, ma in Italia è più fastidiosa che altrove, data la maggiore disparità di genere che affligge il nostro paese e la più diffusa sensibilità su questi temi che caratterizza gli ultimi anni.
In particolare, lo spot «Il Pentolone e la Corona» – on air dal 19 giugno e segnalatomi da Francesca – è una vera e propria beffa: per qualche secondo i cavalieri che cercano di pulire il pentolone sembrano alludere a un ribaltamento di ruoli abbastanza inedito per la categoria merceologica dei detersivi per la casa, ma alla fine come sempre… pulisce meglio una donna e vince.
All’indomani della presentazione della bozza di manovra del governo, mi colpisce il forte contrasto fra la reazione di Di Pietro e quella di Bersani. Mi colpisce, attenzione, non stupisce.
Bersani assume subito il solito ruolo distruttivo:«È una farsa drammatica», «Una presa in giro colossale per l’Italia».
Non solo distruttivo, ma controfattuale, cioè basato sul se avessimo fatto… ora non saremmo: «Non avremmo dovuto essere a questo punto», «L’Unione europea ci ha chiesto il pareggio di bilancio, che non sarebbe sinonimo di 45 miliardi di manovra, se ci fosse più crescita e se le riforme in cui cincischiamo a parole le avessero fatte per bene sul serio tre anni fa».
D’accordo sul passato, ma ora che si fa? Infatti Carlo Bertini de La Stampa gli chiede: «Presenterete una contromanovra?». E lui prima allude alle solite belle cose che il Pd avrebbe preparato ma si guarda dallo svelarci: «Noi abbiamo le nostre proposte, sul fisco, pubblica amministrazione, giustizia civile, se vogliono discutiamo quelle». Poi dice diretto che non presenterà nessuna contromanovra:
«perché non ci fanno vedere i conti veri [che brutta immagine di esclusione e impotenza] e sono pure curioso di capire come finisce il dibattito tra rigoristi e non [pensa di starsene zitto a guardare?]. Hanno preso la spending review di Padoa Schioppa [alzi la mano chi sa cos’è] e l’hanno buttata dalla finestra, ora parlano di nuovo di spending review. Ma è da persone serie? [di nuovo critiche e lamentele]» (La Stampa, Manovra, Bersani: Ci fanno un regalino da 40 miliardi, 29 giugno 2011).
Opposta la reazione di Di Pietro, grintoso e propositivo: «Esprimeremo il nostro parere solo dopo aver letto il testo. Noi esamineremo voce per voce la manovra di Tremonti e alla fine diremo un sì o un no. Se poi il ministro Tremonti voterà i nostri emendamenti ne saremo ben felici».
E in qualche ora si è precipitato ad annunciare che darà a Tremonti una contromanovra. Non solo: ieri sera sul canale YouTube dell’Idv era già apparso uno spot che la presenta. Come sempre, lo slideshow dell’Idv è dilettantesco: con le scritte mal definite, gli sfondi invasivi, le animazioni standard di PowerPoint e la canzone «Pensa» di Fabrizio Moro in sottofondo (avranno chiesto i diritti? Moro è loro amico?). Sembra fatto da un ragazzino delle medie.
Però è concreto, semplice, e ti dà l’idea di gente che non sta con le mani in mano.
Non entro nel merito della proposta di Di Pietro, ma mi chiedo: perché il leader del Pd che, grazie al calo di consensi del Pdl e di Berlusconi, aspira a diventare il primo d’Italia (lo è stato per qualche giorno, ora pare in calo), non può assumere un atteggiamento come quello che ha Di Pietro in questi giorni?
Non è così difficile, su, Bersani. Mutatis mutandis, eh, mi raccomando: non è che ora devi dire anche tu «Che ci azzecca».
Da un mese le citta italiane sono invase dal 6×3 della Nuova Lancia Ypsilon 5 porte. A sinistra il testimonial Vincent Cassel, sguardo verso l’alto, bocca semiaperta, maniche rimboccate (come il Pd!), una mano nell’altra come se non sapesse dove metterle: sembra stupito, o forse imbarazzato. A destra una Ypsilon bianca, come ora va di moda, e la headline «Il lusso è un diritto» (grazie a Paolo Iabichino per la foto, clic per ingrandire):
Nello spot lo stesso Cassel si sdoppia, chiedendosi cos’è il lusso. Il Cassel cattivo dice: «Feste, gioelli, ville, vivere negli eccessi, ancora di più»; l’altro, il buono, si domanda: «Cos’è il successo? È ciò che possiedi? L’ostentazione è morta. Allora cos’è il lusso? il piacere che ti dà una cosa? o il fatto di possederla?»; e il cattivo: «È puntare al massimo, è volere sempre di più, non essere soddisfatti. Mai. È avidità»; il buono: «Tu non sai di cosa parli. A volte il vero lusso sta nelle cose più semplici»; il cattivo: «Sei solo un sognatore»; infine il buono: «A cosa serve il lusso se non riesci a godertelo: il lusso è un diritto». E appare la Nuova Ypsilon.
La campagna è dell’agenzia Armando Testa (nessuna parentela con Annamaria Testa, diciamolo una volta per tutte) e ha già fatto discutere, in rete e fuori. Basterebbe questo a dire che ha avuto successo: è il celebre «parlino bene o male, purché parlino», che ormai tutti – pubblicitari e consumatori che hanno imparato la lezione – usano per giustificare anche il peggio della pubblicità: campagne sciocche, volgari, o semplicemente senza senso (tanto, starà ai consumatori scervellarsi per trovarglielo).
A me non piace. Trovo fuori luogo una campagna che grida «Il lusso è un diritto» mentre la crisi economica colpisce i paesi in cui si vende la Ypsilon («Luxury is a right» è la versione inglese).
La trovo insultante per chi non arriva a fine mese. Ma prende in giro anche le poveracce (il target della Ypsilon è soprattutto femminile) che, non potendo accedere al lusso vero, credono di trovarlo in un’utilitaria con l’aria chic.
Eppure, nessuno si ribella contro questi cartelloni, nessuna li strappa indignata né gli lancia pomodori contro, nessuno li prende a simbolo di una società da combattere. Anzi, molti commenti in rete dicono: «Cosa c’è da scandalizzarsi? Vincent Cassel è un figo e la campagna mi fa riflettere (sic!) sul concetto di lusso. Ha ragione lui: il lusso sta nelle piccole cose».
Il che dimostra un fatto fondamentale: crisi o non crisi, non siamo ancora abbastanza poveri.
Dove sbagliano i consulenti di comunicazione del Pd?
Prendono una metafora, magari bella, ricca, viva ma purtroppo, invece di farla volare in alto, valorizzandone tutte le possibili implicazioni… metaforiche appunto, la schiacciano sul significato letterale.
E dopo aver letto cosa ne dice Annamaria Testa, la domanda sorge spontanea: quelli del Pd, l’abbiamo capito, si rimboccano le maniche letteralmente… ma metaforicamente, lo stanno facendo?
In questo momento servirebbe che lo facessero per trovare un accordo con Vendola e Di Pietro, per esempio.
«… ha come scopo prioritario il sostegno all’istruzione, a tutti i livelli, nei Paesi del Sud del mondo, in particolare ai bambini e alle giovani donne del Continente africano che non hanno accesso alla scuola e alla formazione professionale, le armi più importanti per combattere la povertà.
Per questo motivo il Gruppo Lete ha deciso di sostenere la Fondazione Rita Levi Montalcini Onlus, finanziando due progetti di alfabetizzazione in Senegal e Burkina Faso.
Progetto n° 90/09 (Senegal): Il progetto a favore di settanta giovani donne e bambine adolescenti del Senegal permetterà di frequentare un corso serale triennale di alfabetizzazione che si terrà presso la scuola materna municipale di Natangué, costruita dalla Associazione Fondare l’Avvenire dell’Infanzia (FAI) nel quartiere Zone Sonatel, Mbour.
Progetto n° 111/10 (Burkina Faso): Il progetto, per l’alfabetizzazione delle donne in Burkina Faso, prevede di accompagnare il processo di trasformazione di un’associazione femminile, composta da 60 donne (ASVT Dollebou), in una piccola impresa per la produzione, la commercializzazione e la vendita del burro di karité e di altri prodotti alimentari, con azioni di formazione attraverso corsi di alfabetizzazione di base per le componenti femminili.»
L’iniziativa è seria, la Fondazione altrettanto, l’idea di intervenire in Africa con progetti di formazione punta a rendere autonome le popolazioni, per affrancarle – in prospettiva – dagli aiuti stranieri.
Tutto bene, dunque? No, perché lo spot che promuove Un mese per la vita non spiega niente di tutto questo e neanche vi allude: si vede la mano di una donna di una certa età – come fosse quella di Rita Levi Montalcini – sovrapposta alla mano di una donna nera, mentre la aiuta a scrivere su una lavagna, con grafia infantile, la parola «futuro» e una voce femminile off – sempre di una certa età, come fosse Rita – dice: «Per molte donne africane, la parola più difficile da scrivere è “futuro”».
Insomma lo spotrappresentail contrario di ciò che la Fondazione fa: la mano bianca accompagna quella nera nell’atto di scrittura, ma non la rende autonoma, anzi, la segue in una sorta di maternage, in cui nessuno insegna niente a nessuno (non è così che si insegna a scrivere) e la grafia infantile allude a uno stato di minorità della donna nera rispetto a quella bianca.
Come ormai tutti sanno, in questi giorni il Pd romano sta pubblicizzando la Festa Democratica con questi manifesti (clic per ingrandire):
Il problema, naturalmente, sono le gambe della ragazza, non la cravatta svolazzante: che senso ha pubblicizzare il Pd con un’immagine che ricorda Marilyn sulla presa d’aria della metro in Quando la moglie è in vacanza e/o Kelly LeBrock che la cita nel film del 1984 La signora in rosso?
Nessun senso, solo mancanza di idee, sopperita da una foto intitolata «Female Legs» e pagata pochi euro sul sito Istockphoto.com, che dimostra che nemmeno la pur banale citazione è farina del sacco di coloro che hanno fatto il manifesto.
Piattezza e scarsa cultura della comunicazione: come sempre nella politica italiana, locale e nazionale.
Eppure, poiché la scarsa cultura della comunicazione non riguarda solo la politica, ma l’Italia intera, nel giro di due ore mi arrivano una trentina di segnalazioni personali, esce una dichiarazione di «sconcerto» del comitato «Se non ora quando», le donne democratiche romane prendono le distanze dal manifesto, l’associazione Corrente Rosa scrive una lettera indignata a Rosy Bindi, le proteste sui blog e su Facebook gonfiano, premono, gareggiano fra loro a chi la spara più grossa, più veloce o più fine, a seconda dei gusti, o si rimandano l’un l’altra, dichiarandosi solidarietà reciproca, a seconda dell’indole (competitiva o meno).
Puntuali come sempre, da quando in Italia s’è risvegliato il femminismo (come lo chiamiamo: post-femminismo? neo-femminismo?), arrivano pure coloro che s’indignano contro le/gli indignate/i, con argomentazioni del tipo:
«le gambe della ragazza non sono affatto volgari, con quelle deliziose ballerine fucsia»;
«c’è pure il manifesto con l’uomo, dunque la campagna è paritaria» (a cui è stato risposto: «se fosse parità vera, il vento avrebbe dovuto aprirgli la patta dei pantaloni»);
«tutte scuse per prendersela col Pd, povero piccolo Pd»;
«ci sono campagne ben più volgari e offensive»;
«cosa stiamo a parlare di queste sciocchezze, ci sono problemi ben peggiori (si chiama «benaltrismo»);
«le solite babbione femministe: frustrate, moraliste e bacchettone», e via dicendo.
E io? Mi annoio, ecco cosa faccio. Il Pd gira a vuoto come la sua comunicazione, la politica e l’Italia girano a vuoto: l’abbiamo discusso più volte in questo spazio, analizzando casi ben più interessanti di questo. Non sarebbe ora di parlar d’altro?
Perciò non avrei mai scritto un post sulla minigonna al vento, se non fosse che finalmente mi segnalano ben tre guizzi di originalità da parte del Pd:
il movimento LGBT romano di area Pd difende il manifesto sostenendo che non abbiamo capito nulla: quelle sono le gambe di un uomo, non di una donna, ed è in questo senso che «cambia il vento». 😮
la segreteria del Pd di Roma ha inviato una lettera aperta al comitato «Se non ora quando», in cui propone «una discussione pubblica alla festa» (il dibattito, il dibattito!) affinché possano «confrontarsi in modo libero diversi punti di vista, senza rappresentazioni caricaturali frutto di pregiudizi che banalizzano una discussione seria, dove nessuno pensi che un giudizio critico corrisponda a un moralismo bacchettone e un giudizio positivo ad un’assenza di posizione etica» (fonte: Mainfatti). 😮
pare che alcuni del Pd stiano azzardando un’altra interpretazione del manifesto: «il vento sta cambiando» perché la ragazza cerca di coprire, non di scoprire, le gambe (fonte: Mainfatti). 😮
Mi scrive Mario, ex studente in Scienze della comunicazione, che preferisce restare anonimo «per evitare di rimanere per sempre marchiato, negli archivi di Google, come uno che va ai colloqui per fare polemica: è già abbastanza difficile trovare lavoro anche senza avere una cattiva fama su internet».
Reduce dall’ennesimo colloquio al limite del truffaldino, Mario ha pensato di dare ai lettori di questo blog che si accingono a entrare nel mondo del lavoro qualche indicazione per difendersi dalle più comuni «tecniche di, diciamo così, “comunicazione persuasiva” adottate dal “selezionatore” (le virgolette sono tutte d’obbligo)», dice.
Ecco i suoi suggerimenti:
«Vorrei condividere con chi attualmente è in cerca di lavoro alcune osservazioni, legate a una recente esperienza: un colloquio a cui ero stato convocato direttamente da una persona che aveva trovato il mio curriculum su un sito (non particolarmente serio, direi, visto che avevo mandato il mio cv per una posizione specifica, e sono stato invece contattato per tutt’altro).
Avendo trovato un forum che parlava di quest’azienda, sono andato al colloquio già consapevole della sua discutibile fama, ma volevo capirne di più. Il fatto che si trattasse di un business più o meno piramidale, in realtà, era coerente col fatto che il selezionatore mi avesse chiamato da un numero cellulare (e non da un interno aziendale) e mi avesse dato appuntamento nella hall di un albergo.
Alcune considerazioni sulle tecniche comunicative adottate dal selezionatore:
Tentava di farmi parlare il più possibile, per cercare di carpire informazioni, aspettative, desideri e frustrazioni, e per individuare meglio criticità e punti su cui insistere.
Cercava di vendermi il settore come “quello del futuro” (buttando un occhio agli appunti per essere sicuro di non dimenticare qualche leva persuasiva a suo giudizio fondamentale), e l’azienda come “quella del futuro” (ridicolizzando pagine e pagine di commenti critici disponibili in rete).
Cercava di portarmi su un territorio a lui favorevole, tentando di indurre me a esplicitare le osservazioni e le argomentazioni a sostegno della sua posizione.
L’elemento essenziale, comunque, era il fatto che, in una conversazione di oltre mezz’ora, e malgrado le mie domande, il “selezionatore” ha evitato in ogni modo di chiarire quale lavoro avrei svolto concretamente: “dipende dalla persona… l’azienda vuole capire quale proposta farle…”, e così via.
Non entro nel merito di ulterori dettagli, ma ritengo che, anche in un periodo di crisi come questa, abbiamo almeno il diritto di capire chi sia il nostro potenziale datore di lavoro, e cosa voglia da noi.»
Riassumendo: è chiaro che il “selezionatore” incontrato da Mario era maldestro e sciocco. Ma la tecnica di parlar poco dell’azienda e, al contrario, far parlar molto il/la candidato/a è piuttosto diffusa. Perciò, durante un colloquio di lavoro, prova a invertire le tecniche qui elencate, ma fallo con mooolta più intelligenza e accortezza del furbastro incontrato da Mario.
Scoprire le proprie carte il minimo indispensabileper farsi apprezzare, e indurre gli altri a scoprire il più possibile le loro, è un buon modo per mettersi subito in posizione di vantaggio. Sapendolo fare, però. 🙂