Ho scritto un libro intero (SpotPolitik) per dimostrare che la comunicazione politica non va ridotta a semplici (ammesso che lo siano) questioni di grafica, estetica fotografica e affissioni più o meno ben (più spesso mal) riuscite. Eppure…
Un esempio di questi giorni. Se un partito inserisce nelle sue liste candidati e candidate “parenti di” (figli di, mogli di, cognati di ecc.), e lo fa in questo momento storico in Italia, be’, sta comunicando qualcosa di molto preciso ai suoi elettori: non siamo cambiati e non abbiamo intenzione di farlo. Alla faccia delle dichiarazioni e delle promesse. Alla faccia vostra.
Leggi in proposito l’articolo di Marina Terragni oggi sul suo blog. Leggilo per intero. Stralcio qui solo il pezzo che riguarda il Pd, le donne e l’annosa questione delle cosiddette “quote rosa”. Sui casi singoli menzionati da Marina non mi pronuncio, perché – a parte i più noti a livello nazionale – non li conosco.
«Che un partito che si dichiara progressista come il Pd non metta un fortissimo impegno in questa direzione è cosa grave: il Comitato dei Garanti – Francesca Brezzi, Luigi Berlinguer, Francesco Forgione, Mario Chiti – che sta vagliando le candidature dovrebbe occuparsene con il necessario rigore, portando alla luce i mugugni della base e dando una prova di trasparenza che aumenterebbe i consensi. Cose di questo genere capitano solo nei paesi arretrati, e li mantengono tali.
Del resto l’ottimo Codice Etico del Pd, che fa riferimento spesso alla questione “parenti e affini”, dice espressamente che “ogni componente di governo, a tutti i livelli, del Partito Democratico si impegna a: non conferire né favorire il conferimento di incarichi a propri familiari” e che gli eletti o gli aventi incarichi nel partito “rifiutano una gestione oligarchica o clientelare del potere, logiche di scambio o pressioni indebite”.
Quanto alle donne: è pur vero, qualcuno dice, che quando si applicano quote “rosa” – mi scuso per dirlo in modo così orribile – come nel caso di questa tornata elettorale, è facile che entri una percentuale di mogli e figlie “segnaposto”. Capita anche nei cda costretti ad aumentare la partecipazione femminile. Sono gli uomini a decidere, e si sentono più tranquilli a candidare “donne di”, scelte per ragioni dinastiche: gli pare così di non sprecare una posizione e di poterla più efficacemente controllare. Perché le donne in gamba, si sa, hanno il difetto di ragionare con la propria testa.»