Sanremo 2016: perché il Festival è rassicurante. Anche se non ne puoi più

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Si è conclusa due giorni fa la 66esima edizione del Festival di Sanremo, record di ascolti che ha superato le edizioni degli ultimi undici anni, non solo quella dell’anno scorso che, sempre con Carlo Conti, aveva già fatto boom. Agli italiani e alle italiane Sanremo continua a piacere, insomma. No di più, piace oggi più di ieri. No, ancora di più: in Italia, oggi, di Sanremo abbiamo proprio bisogno. Oggi più di ieri. Un gran bisogno. Disperato. Tutti e tutte: quelli che lo guardano e quelli che non. Quelli che piuttosto che Sanremo, qualunque altra cosa. Quelli che ma non si rendono conto che è roba vecchia? E persino quelli che, per enormità di problemi personali, per miseria, per disoccupazione, a tutto possono pensare tranne che a Sanremo. Perché magari non hanno più una casa, figuriamoci un televisore.

Cominciamo da chi, più fortunato/a, ha guardato Sanremo almeno un po’: per distrarsi, per condividerlo con la famiglia o gli amici, per avere un sottofondo mentre faceva altro, per curiosità sporadica su questo o quel cantante o ospite, per poterne poi parlare male, o semplicemente perché, facendo zapping, prima o poi ci capiti e qualche minuto resti. Tutte queste persone sono molte, moltissime, e questo non l’ha mostrato solo il discutibilissimo campione Auditel, ma lo mostra il chiacchiericcio di questi giorni non solo sui media, che ovviamente creano e rinforzano il fenomeno, ma negli uffici, sugli autobus, nei bar, sulle scale dei condomini, alle fermate degli autobus. E lo dice il buon senso del solito “nel bene o nel male, purché se ne parli”, che è esattamente ciò che tiene Sanremo sulla cresta dell’onda da ben 66 anni. Nel bene o nel male, appunto. Non ti piace ma ne parli? Ti fa schifo e lo dici? Rassegnati: ci sei dentro fino al collo, sei con Sanremo anche tu.

E ci sei dentro perché Sanremo è qualcosa che c’è da sempre, te lo ricordi da quando eri piccolo/a, ne parlavano la tua mamma e il tuo papà, ne parlavano gli zii, i nonni, i parenti e gli amici. Magari ne parlavano male come te, e ci erano dentro pure loro. O invece ne parlavano benissimo e si divertivano tantissimo, ed è esattamente per questo che tu ora lo critichi e snobbi. Ma continui a parlarne. Ci sei dentro, rassegnati.

Detto questo, c’è un’aggravante degli ultimi anni, questi in cui i politici che ci governano, e i media che li seguono, ci ripetono tutti i giorni che stiamo uscendo dai problemi e dalla crisi, che ci siamo quasi, ancora un po’ di pazienza, un po’ di sforzi e ce la facciamo. Ci crediamo? Non ci crediamo? Boh. Un giorno sì e uno no. A volte pensiamo sia vero, ma poi ricordiamo quell’amica di cinquantacinque anni, che ha perso il lavoro otto anni fa e ora per vivere fa la badante. E allora dubitiamo. O pensiamo a quel trentenne che, bravissimo, plurilaureato e preparatissimo, tira avanti con stipendi da fame da sei anni, cambiando ruolo in continuazione: ieri “a progetto”, oggi “a tutele crescenti”, che al momento di “cresciuto” non hanno proprio niente, perché se vogliono lo cacciano domani. E dubitiamo, eccome dubitiamo. O ci viene in mente che i quattro soldi che abbiamo risparmiato stanno perdendo valore, no, peggio, corrono rischi serissimi e non sappiamo dove metterli. E allora dubitiamo, eccome dubitiamo.

Ma proprio mentre stavamo dubitando, ecco che ci appare un frammento di Sanremo: in tv, alla radio, per strada, in ascensore, sotto forma di canzone, immagine, pettegolezzo, sopracciglio alzato. E ci sentiamo sollevati, rassicurati. Sanremo c’è da sempre, è sempre stato lì, e per fortuna c’è ancora, il che vuol dire che, se possiamo ancora parlare di Sanremo, bene o male non importa, forse non tutto è perduto, forse l’Italia se la caverà ancora, come ha sempre fatto.

D’altra parte, pensa se Sanremo non ci fosse. Sanremo ha una potentissima, importantissima funzione rassicurante. Una funzione fon-da-men-tà-le. Perché pensa se d’improvviso venisse a mancare. Sarebbe una notizia enorme, devastante per la potenziale destabilizzazione che potrebbe portare. Paura, angoscia, disperazione.

E arriviamo ai più sfortunati, quelli che – dicevo all’inizio – per enormità di problemi, per miseria, per disoccupazione, non hanno nemmeno una casa, figuriamoci un televisore. Figuriamoci se questi sfortunatissimi hanno la forza o il tempo di dedicare anche un solo secondo dei loro pensieri a qualcosa come Sanremo. Ebbene, anche per loro l’esistenza imperturbabile e imperterrita di Sanremo è rassicurante. Qualcosa che anche loro colgono a frammenti, nei dormitori, alla mensa della Caritas, sui marciapiedi. Bagliori di immagini, note di canzoni, stralci di chiacchiere che vengono da altri e da altrove, ma che pur ci sono. Magari servono ad aumentare la rabbia che ogni giorno provano per la miseria in cui sono caduti. Ma pensa se Sanremo d’improvviso sparisse. Quella loro rabbia si trasformerebbe all’istante nella disperazione più nera e fonda, perché se persino Sanremo se n’è andato, allora non c’è più speranza per nessuno, men che meno per me. Meglio rabbia che disperazione fonda, dunque. E allora ben venga Sanremo, finché c’è. E speriamo che continui a esserci. Lunga vita a Sanremo.

PS: questo articolo è uscito oggi anche sul Fatto Quotidiano.

3 risposte a “Sanremo 2016: perché il Festival è rassicurante. Anche se non ne puoi più

  1. Per me il Festival di Sanremo è come la McDonald’s, Tiki Taka, i Meeting di Rimini, Bruno Vespa, le poesie di Sandro Bondi, X-Factor, YouPorn, il Familly Day, Chi l’ha visto, la Leopolda. So che tutte queste cose coinvolgono milioni di fan, addicted, habitués, una rilevante percentuale degli italiani.

    Il mio non è un disinteresse a priori. Per sapere esattamente (e non solo per sentito dire) di che cosa si trattasse, questi posti ed eventi li ho seguiti a più riprese (alcuni solo per pochi minuti, lo ammetto) con grande curiosità. Per capirne l’essenza mediatica, sociale e culturale (in sostanza: politica), non ci volevano ore e ore – o addirittura parecchi anni. Il mio allenamento audiovisivo e mentale mi consente di capire senza tanti giri e rigiri se una cosa mi riguarda, coinvolge, incuriosisce – oppure no.

    Navigando, ascoltando e sfogliando da cittadino piuttosto agile e scafato, non ho problemi ad afferrare cosa bolle nel pentolone di chi desidera che anch’io diventi un assiduo consumatore di quelle feci. Inoltre, la mia capacità di discernimento tra gioco e non-gioco è ahimé dannatamente supportata da una mezza vita che ho dedicato alla pubblicità. So di che cosa sto parlando.

    Se, invece di occuparmi di fasfud, creazionismo, curve sud, cattobuonismo, gossip, Anni Santi, sciuscià in abito da sera, gargarismi melodici e pornografia, preferisco andare a spasso col mio cane, ascoltare Miles Davis o Jordi Savall o leggermi qualche pagina di Spinoza, della Szymborska o di Michel Onfray, sarò senza dubbio diventato un inguaribile snob.

    Ma non credo che Carlo Conti, Monica Maggioni, gli Stadio e 10 milioni 748mila telespettatori, siano particolarmente scossi da queste mie righe. Me ne farò una ragione. Una sola che, spero, mi basterà.

  2. Ho sempre trovato strano il fatto che, pur essendo Sanremo l’unico evento rimasto di stampo nazional-popolare e pre-invasione format, a Scienze della Comunicazione non lo considera nessuno. Vere ma generalizzabili ad altre trasmissioni TV le considerazioni di Cosenza, tranchant quelle di Neuburg. Che poi i trattati di Spinoza non sono costume e società, il paragone è impietoso.

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