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Tristi analogie

Negli ultimi giorni le vicende di Flavio Delbono, sindaco di Bologna, hanno guadagnato le prime pagine nazionali. I bolognesi ne avrebbero fatto volentieri a meno, visto che è l’ennesimo scandaletto pubblico italiano, con figura femminile mestamente annessa.

Delbono è indagato da un mese per peculato e abuso d’ufficio assieme alla sua ex fidanzata e segretaria Cinzia Cracchi, e da qualche giorno anche per truffa aggravata. In questione sono alcuni viaggi che l’attuale sindaco avrebbe fatto, assieme alla sua ex compagna, ai tempi in cui lui era vicepresidente della Regione Emilia-Romagna e lei sua segretaria. Viaggi che dovevano essere di lavoro, ma vi fu aggiunta una non chiarita coda di vacanze. Poi c’è di mezzo pure un bancomat che lui diede alla ex fidanzata e altro su cui non mi dilungo.

Come nasce il caso? Dalla Cracchi che, mesi dopo la fine della relazione, durata sette anni, pensa bene di spifferare ad Alfredo Cazzola, avversario politico di Delbono, le presunte stranezze amministrative dell’ex fidanzato. Il quale Cazzola decide di usare politicamente le confessioni della signora, prima in campagna elettorale per le amministrative, ora in campagna per le regionali.

Detto questo, finché la magistratura non avrà fatto chiarezza, vale la presunzione di innocenza. Ma comunque vada a finire, è una storiaccia che fa già tanta tristezza così com’è, per almeno due motivi.

In primo luogo, perché rispecchia lo stato di endemica subalternità delle donne italiane: innanzi tutto economica, quindi sociale e poi, giù giù nel privato, anche affettiva e relazionale.

In secondo luogo per alcune sorprendenti somiglianze fra come Delbono sta gestendo la comunicazione sulla vicenda e alcune uscite del più recente Berlusconi. Il Berlusconi deteriore, intendo, quello che accusa i colpi e li para in malo modo. Lo aveva notato anche Michele Smargiassi domenica 17 gennaio:

«Il brutto regalo di Natale del gip, proprio perché inatteso, ha rischiato di trascinare il sindaco e i suoi sostenitori verso reazioni di tipo berlusconiano. Scartata appena in tempo la tentazione di attaccare i magistrati (il «perché proprio ora?» che circolava nello staff del sindaco nei giorni di fine anno e alludeva all’imminenza della campagna elettorale), sfiorata quella di invocare il consenso contro il controllo («Su questa vicenda si sono già espressi i cittadini eleggendo Delbono», dichiarò il segretario Pd De Maria), la scelta era stata alla fine di ripiegare su una ostentazione di tranquillità: «il sindaco non ha niente da dire e non parlerà neanche nei prossimi giorni», era diventata la litania dei portavoce» (Michele Smargiassi, Repubblica Bologna, 17 gennaio 2010).

Invece Delbono è uscito dal silenzio. Ma le cautele che una settimana fa Smargiassi metteva nell’accostamento («appena in tempo», «tentazione», «sfiorata») rischiano di cadere («rischiano»: un’altra cautela, mia stavolta, che dipende da come andrà a finire) di fronte all’ennesima somiglianza. Sabato 23 gennaio infatti il sindaco ha dichiarato:

«Non mi dimetto nemmeno se mi rinviano a giudizio».

Bologna. La gioia (?) di Delbono

A Bologna Flavio Delbono, candidato sindaco del Pd, ha vinto al ballottaggio con il 60.7% dei consensi. Il suo rivale Alfredo Cazzola, sostenuto dal Pdl, si è fermato al 39.2%.

A Bologna il Pd è andato meglio che a Firenze (dove Renzi ha vinto con il 59,9%), meglio che a Ferrara (dove Tagliani ha vinto con il 56,82%) e Bari (dove Emiliano ha vinto con il 59,8%).

Buona anche l’affluenza alle urne: il 62,2% a Bologna, di poco superata da Ferrara, con il 62,45%, ma sopra Firenze, ferma al 58,92%, e Bari, al 60,02%.

C’è da stare allegri insomma, specie se si considera la disfatta del Pd sul fronte europeo. Non a caso Repubblica ha intitolato «La gioia di Delbono» le prime parole che il sindaco neoeletto ha rivolto ai cittadini.

Ma a guardare il video gela la schiena: parole lette su un foglio, sguardo basso, faccia scura e mai sorridente. Roba che fa rimpiangere la ben nota freddezza di Cofferati.

Vale la pena ricordare che gli studi sulla comunicazione non verbale mostrano che, nel caso di contraddizioni fra ciò che una persona dice e ciò che manifesta con la faccia e il corpo, gli interlocutori credono molto più alla faccia e al corpo che alle parole. Pare addirittura che i segnali non verbali abbiano in questo senso una efficacia 5 volte superiore a quella del linguaggio verbale.

Spero sia stata l’emozione. O l’amarezza degli ultimi giorni di campagna elettorale – come lo stesso Delbono dice – con il gossip e le allusioni pesanti sulla sua vita personale.

Ma così non si parla ai cittadini che ti hanno appena eletto. Così non si festeggia.

Quando la politica cerca lo slogan

Ieri su Repubblica Bologna è uscito questo mio pezzo, col titolo «Quando la politica e il candidato vanno a caccia dello slogan»:

Facciamo un gioco: mettiamo assieme tutti gli slogan politici che sono sparsi per Bologna e vediamo l’effetto che fa. Be’ non proprio tutti: con dodici candidati sindaco (dimentico qualcuno?), più le elezioni europee faremmo notte. Mi limito ai sindaci che si vedono di più.

Cominciamo da destra. «Onestà, competenza e amore per Bologna» dice Guazzaloca; Cazzola invece si autoproclama «Il sindaco del fare» e sbandiera «L’energia delle nuove idee». Uhm. Mi viene in mente che lo slogan della «Tua Bologna», che sosteneva Guazzaloca nel 2004, era «La parola ai fatti». Forse Cazzola gli ha soffiato i fatti? Non proprio. Il punto è che ormai tutti i politici si rappresentano come uomini del fare: chi mai vorrebbe un parolaio? E allora Guazzaloca ha cercato altrove, restando però sul generico: quale candidato negherebbe di essere onesto, competente e amare Bologna? «Riaccendiamo Bologna» dice infine Morselli, presupponendo che sia spenta. Resta da capire dove stanno il buio e la luce, naturalmente.

Vediamo a sinistra. Qui, per catturare l’attenzione, si è cercato il gioco di parole. «C’è Delbono a Bologna» punta sul cognome del candidato per tirare fuori tutto il bene possibile dagli stereotipi bolognesi: il buon senso (sulla faccia di Delbono e su una nonna con la nipotina); le buone relazioni (con due ragazzi che si baciano); il buon vivere (con una sfoglina sorridente); la buona sanità (con tre operatrici sanitarie e tre neonati). Poi c’è «la Bologna che vince» della Ducati: non si parla più di bontà ma non importa, abbiamo capito. Anche gli slogan di Delbono potrebbero funzionare per qualunque candidato; ma il gioco sul cognome è possibile solo con lui, ed è questa la forza della campagna.

Pasquino non ha potuto puntare sul cognome, ma ha ugualmente cercato il doppio senso, proponendo un sindaco «che fa bene a Bologna», dove la città è sia luogo che beneficiaria. Monteventi, dal canto suo, vuole una Bologna libera da molte cose: dall’inquinamento, dall’ignoranza, dalla precarietà, dalle ingiustizie e da altro che ora mi sfugge. Giuseppina Tedde, infine, sottolinea la diversità del suo essere donna e chiama «Altra città» la sua lista civica, ripetendo il concetto nei manifesti: «La diversità è Altra città».

Ma perché questa carrellata? Per simulare su carta quello che la gente prova per strada: se va bene indifferenza, se va male nausea e rifiuto. Parole parole parole, diceva la canzone. Insomma, quest’anno i politici locali (come quelli nazionali) sembrano ammalati di sloganite. Anche a sinistra, che di solito non lo facevano. Credo sia colpa di Obama. Anch’io voglio comunicare come lui, devono aver pensato. Al che, ognuno si è industriato come ha potuto, a seconda dello staff e dei soldi che aveva.

Il problema è che gli slogan non bastano. Neppure se sono arguti. Per cominciare, ci vogliono contenuti e programmi chiari, semplici e ben calibrati sulla realtà. Poi bisogna saperli comunicare, certo, ma non basta moltiplicare slogan e affissioni: occorre coinvolgere i cittadini nella costruzione dei programmi, farli discutere, partecipare. E per ottenere questo bisogna sapersi muovere in una grande varietà di mezzi e modi: dalle apparizioni tv ai discorsi in piazza, da Internet (sito, blog, facebook) alle visite nei quartieri.

È questo il senso profondo della lezione di Obama: la buona politica oggi funziona così, multimediale e multimodale. Multitutto. E confrontare i nostri candidati con Obama non è mischiare la lana con la seta: anche i bolognesi – ci scommetto – sceglieranno il sindaco che con più perizia, passione e coerenza sarà andato in quella direzione.

La colomba di Casini

Ieri su Repubblica Bologna è uscito un altro mio pezzo col titolo «Quella colomba della pace che significa tutto e niente». La mia analisi si riferisce, nella seconda parte, alla realtà bolognese.

Ti va di estenderla alla tua città?

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Una colomba stilizzata su sfondo bianco, un ramoscello verde nel becco e un titolo rosso: «Smettetela di litigare». Sembra la campagna teaser di un’azienda dolciaria, che approfitta della Pasqua imminente per lanciare un nuovo prodotto. Una di quelle misteriose campagne senza marchio, di cui non capisci nulla fino alla prossima puntata.

Poi guardi meglio e vedi che stavolta il marchio c’è, con tanto di firma come fosse scritta a mano: Pier F. Casini. I dolci non c’entrano: è il leader dell’UDC. Accidenti, ti aveva fregata. Sorridi e pensi: ha ragione, dovrebbero smetterla. Ma chi?

La campagna ha già fatto discutere molti. Alcuni la ritengono geniale, altri ne sono infastiditi, altri ancora dicono boh. In questo senso è furba: parlino bene o male, purché parlino. Ma vediamo come funziona.

Innanzi tutto il manifesto propone un simbolo religioso. Dall’episodio biblico dell’arca di Noè, sappiamo tutti che la colomba con l’ulivo simboleggia la pace. Nelle raffigurazioni della Trinità, la colomba è simbolo dello Spirito Santo; nei vari testi della tradizione cristiana ora rappresenta la purezza, ora la semplicità, ora l’anima che aspira al divino, ora la bellezza femminile. Il simbolo ricorda anche la democrazia cristiana, certo: è a quella che l’UDC si rifà esplicitamente. Ma allude a una religiosità blanda, indefinita, perché i valori della colomba possono essere condivisi anche da cattolici non praticanti, laici, agnostici.

E poi c’è il titolo: «Smettetela di litigare». Talmente generico che si potrebbe applicare quasi a qualunque situazione. Chi dovrebbe smettere di litigare? Il centrodestra con il centrosinistra? Un leader con l’altro? Ogni partito al suo interno? Non solo questi, ma molti di più: i dirimpettai durante l’assemblea condominiale, gli automobilisti al semaforo, la zia con la nonna, l’amica col moroso. Tutti dovrebbero smettere di litigare. Persino un bimbo potrebbe gridarlo ai suoi genitori.

Riferito alla realtà bolognese, il manifesto esprime significati ancora diversi. Innanzi tutto fa appello al buon carattere del bolognese medio, al suo essere sorridente, tranquillo, accomodante. In realtà i bolognesi non sono più così da anni, ma amano raccontarsi ancora questa favola, e il manifesto non fa che alimentarla.

Quanto alla politica locale, Casini, si sa, sostiene l’amico Guazzaloca contro Cazzola, appoggiato dal PdL. Appena uscito, il manifesto sembrava dunque riferito alla spaccatura del centrodestra locale: esortare alla concordia significava parteggiare per Guazzaloca, il cui fair play è noto da anni, e stigmatizzare Cazzola che fra tutti i candidati, a destra come a sinistra, è di sicuro il più aggressivo.

Passa qualche giorno e litigano anche nel Pd: prima Delbono, che dà un misero 6+ ai cinque anni di Cofferati sindaco; poi Cofferati, che contrattacca dicendo che Delbono è indietro col programma, e se continua così finisce male; infine strali da tutte le parti, sempre nel Pd, contro l’ipotesi che Cofferati vada in Europa. Nel frattempo, dall’altro lato della barricata, si placano le acque: Guazzaloca e Cazzola dicono di volersi mettere d’accordo (forse) su certi quartieri. E dal congresso nazionale del PdL, Berlusconi invita Casini a fare pace.

In men che non si dica, il manifesto cambia di nuovo significato: smettetela di litigare, dice al Pd, e fate come quei paciosi del centrodestra, che si vogliono tutti bene.

Non so in altre città, ma a Bologna il manifesto vuol dire tante cose. È questa la sua forza: come si fa a non essere d’accordo? E la sua debolezza: significa tutto e il contrario di tutto.

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Il sorriso dei candidati

Ieri su Repubblica Bologna è uscito – senza immagini e col titolo «Giudichiamo i candidati sindaco dal sorriso» – un mio articolo. Eccolo nella versione integrale, destinata al blog.

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La campagna per le amministrative si sta scaldando e le facce di due candidati sindaco, più degli altri, campeggiano per le strade di Bologna. Da metà febbraio, grigio su fondo arancio per Flavio Delbono; da qualche giorno rosa-rosso su blu per Alfredo Cazzola.

In fila sui viali intasati, cerco di capire cosa non va. Nelle due facce, intendo: sull’uso del colore arancio nei manifesti di Delbono mi sono già espressa QUI. Ma quelle facce… più le guardo meno mi convincono. Provo disagio, perché? (clic per ingrandirle.)

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La fila di auto è lunga e ho il tempo per riflettere. In entrambi i casi è un sorriso intenzionale, voluto; nel caso di Cazzola è anche un po’ tirato. Non sembra spontaneo, insomma, ma frutto  di una posa davanti a un fotografo che ha detto cheese. Da cosa si capisce?

Paul Ekman, noto studioso americano di espressioni facciali, spiega che per distinguere un sorriso spontaneo da uno intenzionale devi guardare le sopracciglia: se si abbassano mentre la persona sorride, con le tipiche zampe di gallina intorno agli occhi, allora il sorriso è spontaneo. Se invece la fronte e gli occhi restano tendenzialmente statici, o addirittura immobili, allora ci sono buone probabilità che il sorriso sia forzato. È chiaro che si può sempre fingere, ma per farlo in modo credibile bisogna sapere come si fa, ed essersi pure allenati. Bisogna essere un po’ attori, in sostanza.

Ma c’è di più. Il sorriso di Delbono, oltre che intenzionale, è anche «smorzato» perché ha le labbra strette e gli angoli della bocca abbassati. È come se stesse trattenendo qualcosa, come se non volesse esprimere emozioni. Risultato: Delbono appare compresso, distante.

Cazzola, dal canto suo, ha le sopracciglia aggrottate, cioè ha contratto quel muscolo della fronte che Darwin chiamava «muscolo delle difficoltà»: già questa definizione fa capire quanto possa essere controproducente fotografare un candidato corrugato. Come non bastasse, Cazzola mostra i denti, trasformando il sorriso in un ghigno un po’ aggressivo, beffardo. Ricorda lo Stregatto disneyano di Alice nel paese delle meraviglie, la cui dentatura esposta, preludio di beffe e tranelli, era tutt’altro che rassicurante.

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Torno a casa e, per par condicio, cerco su Internet i sorrisi degli altri candidati, perché per strada ancora non ci sono. E scopro cose interessanti.

I sorrisi di Pasquino e Guazzaloca sono spesso accompagnati dall’abbassamento delle sopracciglia, e dunque sembrano più autentici. Meglio quando hanno la fronte distesa, per le ragioni già viste. Anche di Flavio Delbono si trovano foto con sorrisi spontanei: perché non le hanno usate per le affissioni?

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Meglio ancora quando i candidati sorridono alla gente. In questa pratica Guazzaloca è maestro. Non a caso, la sezione «foto e video» del suo sito è collegata a Flickr, dove diversi album fotografici lo ritraggono in mezzo alle persone comuni: donne uomini anziani ragazzini, tutti lo ricambiano e perfino lo abbracciano nei luoghi di lavoro, nelle piazze, nei centri sociali in cui li va a trovare. Ottimo. Se fossi in lui userei quelle immagini per le affissioni. Se fossi negli altri candidati, farei una cosa analoga.

Restano Monteventi, Morselli e, ultimo arrivato, Mazzanti. Che dire? Dei loro sorrisi, su Internet, ci sono scarse tracce. Monteventi ne ha fatto un marchio, il che implica, evidentemente, che i suoi lo riconoscano in quella stilizzazione; ma implica pure, purtroppo,  una certa chiusura verso l’esterno. In tempi di spiccata personalizzazione della politica, se non «ci metti la faccia» – quella vera, non disegnata – vuol dire che non sei abbastanza interessato a presentarti a chi non stia già dalla tua parte.

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Quanto a Morselli, sul sito della Destra federale la sua faccia c’è. Ma di sorrisi, neanche a parlarne. E per Mazzanti, candidato solo da qualche giorno, staremo a vedere.

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