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Lo storytelling sulla guerra al terrorismo dall’11 settembre 2001 a oggi

Oggi è uscito questo mio articolo sul Fatto Quotidiano:

C’è qualcosa che torna, negli ultimi vent’anni, in ciò che i media e la politica occidentale ci raccontano sul terrorismo internazionale, ed è la rappresentazione semplice, basilare, e come tale efficace, di una lotta eroica contro un nemico oscuro, forte e difficile da sconfiggere. Già il primissimo discorso che George W. Bush fece in televisione la sera dell’11 settembre 2001… Continua a leggere QUI

Su Errani, Berlusconi, Grillo. E infine su Obama

Giovedì scorso sono stata ospite di Telecentro, emittente emiliano-romagnola, per l’approfondimento del telegiornale della sera, intervistata dalla giornalista e conduttrice Antonella Zangaro.

Telecentro 8 novembre 2012

Si è parlato degli ultimi eventi rilevanti per la comunicazione politica italiana: dal presidente della Regione Emilia-Romagna Vasco Errani che, appresa la notizia della sua assoluzione, si è sottratto ai microfoni dei giornalisti, rilasciando un unico video per la stampa, ai continui “colpi di scena” cui Berlusconi ci ha costretti nell’ultimo mese, al divieto di andare in televisione che Grillo ha fatto agli attivisti del Movimento 5 Stelle. In chiusura un flash su Obama. 🙂

Ecco l’intervista:

La favola bella di Obama: i soldi

Il trionfo di Obama era già scritto nel suo storytelling. Un trionfo che ha la struttura più semplice di tutte le favole più efficaci: l’eroe vince, sì, ma solo dopo aver superato prove durissime. Una struttura che ha accompagnato tutta la sua carriera politica. Osserva oggi il New York Times (traduco liberamente): «Il suo percorso ha disegnato un arco ricorrente in tutta la sua carriera: vacillare proprio quando sembrava aver raggiunto il punto di maggiore forza – il periodo prima del suo primo dibattito con Romney – e dunque essere costretto a raddoppiare gli sforzi per risollevare se stesso e i suoi sostenitori fino alla vittoria». Peraltro l’avevo scritto io stessa – modestamente – QUI e QUI.

Non sto dicendo «era già tutto previsto»: una realtà desiderata non si prevede né si determina, casomai si fa tutto il possibile per renderla probabile. Sto però dicendo che le buone storie – e la storia dell’eroe che vince dopo grandi avversità lo è, se non altro perché è antica come la storia dell’occidente – aiutano a costruire questa probabilità. Non è detto che ci riescano, ma aiutano.

Certo, le buone storie da sole non bastano: per costruirle e sostenerle, di fronte a un avversario altrettanto abile nel raccontare storie come Romney, ci sono voluti innanzi tutto molti, moltissimi soldi. E infatti questa campagna passa alla storia come la più dispendiosa di tutti i tempi.

C’è un’unica storia, al mondo, che sembra capace di determinare la realtà, non soltanto di renderla più probabile. Determinare? È una parola grossa, lo so, ma intendo dire semplicemente che, a quanto ne so, finora la sua capacità di portare alla vittoria non è stata mai smentita. È la storia dei soldi.

Per la sua campagna elettorale Obama ha speso molto più di Romney, come mostra il sito Opensecrets.org. È una storia assai poco affascinante, poco poetica, ma è necessario raccontarcela anche se siamo più contenti che abbia vinto Obama invece di Romney, per mille e una ragione: senza soldi – e senza comunicazione – Obama non sarebbe andato da nessuna parte, nel 2008 come oggi.

Morale della favola: nelle democrazie contemporanee, persino se vuoi combattere per i diritti di chi soldi non ne ha (ammesso che Obama voglia e possa farlo), devi avere molti, molti soldi. È la storia della realtà (clic per ingrandire):

Quanto hanno speso Obama e Romney

Le tre prove di Obama: una storia a lieto fine?

Proprio come prevedevo, la storia delle tre prove di Obama – i tre confronti televisivi con Romney – è giunta stanotte al lieto fine: stando al sondaggio della CNN Obama ha vinto per il 48% dei telespettatori che hanno visto il dibattito, contro il 40% a favore di Romney; stando a quello della CBS sono per Obama addirittura il 53% contro un misero 23% per Romney.

Lo storytelling più avvincente di un percorso a tre prove prevede infatti questa sequenza: dura sconfitta, faticosa rimonta, trionfo finale. Ebbene, la dura sconfitta di Obama nel primo dibattito c’è stata, la faticosa rimonta nel secondo pure. La puntata finale, invece, dal mio punto di vista non è stata il trionfo sfolgorante che poteva essere. Obama ha vinto, è vero, ma non ha messo Romney ko, perché questi si è dimostrato abile, o almeno più abile di quanto Obama si aspettasse, specie dopo i pasticci dell’ultimo periodo.

Perché abile? Perché si è presentato come moderato mentre nei mesi precedenti era sempre apparso molto spostato a destra; perché pronto a contraddirsi e dare ragione a Obama pur di evitare attacchi nel settore in cui è più debole di lui (la politica estera); perché capace di ricondurre sempre il focus all’economia, dove Obama sconta gli anni di crisi mentre lui può promettere miracoli; perché in chiusura ha fatto salire sul palco tutta la sua tribù, con parenti e bambini, e là in mezzo Obama e Michelle parevano davvero soli.

La tribù di Romney alla fine del terzo dibattito

Insomma Romney sa bene che in comunicazione le contraddizioni e le menzogne, se ben presentate, possono far leva sulla memoria corta degli elettori e che vendere sogni («assieme usciremo dalla crisi») può far leva sul bisogno di speranza che tutti hanno, specie nei periodi più bui. Questi ingredienti possono fare breccia, non è detto che ci riescano.

Come non è detto che Obama alla fine vinca le elezioni perché le storia delle tre prove mediatiche è finita bene. Non solo perché mancano due settimane e molte cose possono ancora succedere, ma perché la comunicazione è necessaria, ma non è sufficiente. Specie se entrambi i contendenti, in comunicazione, sono molto ferrati.

Questo articolo è apparso oggi anche sul Fatto Quotidiano.

Le tre prove di Obama: una storia avvincente

«Se il Barack Obama che abbiamo visto nel secondo dei tre dibattiti fosse stato al posto di quell’ectoplasma che vedemmo nel primo, le elezioni presidenziali americane sarebbero già finite da giorni», scriveva ieri Vittorio Zucconi su Repubblica. E come lui sono stati in molti, ieri, a tirare un respiro di sollievo dopo aver visto Obama di nuovo tonico e incalzante. Non «l’ectoplasma» che nel primo round aveva sbagliato tutto, perfino la gestualità e la postura (vedi Col linguaggio del corpo ieri Romney ha vinto Obama).

Eppure…

Obama-Romney

Eppure. È più avvincente una storia in cui l’eroe, che deve battersi col nemico tre volte, stravince subito, o è meglio una storia in cui, contro ogni aspettativa, l’eroe perde clamorosamente la prima volta, recupera un po’ – ma giusto un po’ – nella prova intermedia e finalmente – fiuuu – trionfa nell’ultimo duello?

Quale delle due favole ha più probabilità di convincere i democratici delusi – che meditano di astenersi – a tornare a votare Obama? Una in cui lo vedono subito e come al solito dominante, o una in cui prima lo vedono nella polvere, poi in faticosa risalita?

Insomma, se fossi nello staff di Obama, avrei scandito in questo modo lo storytelling delle tre prove: dura sconfitta, faticosa rimonta, trionfo finale. Lunedì capiremo se hanno ragionato così anche loro.

Col linguaggio del corpo ieri Romney ha vinto Obama

Prendendo spunto dall’analisi che Peggy Hackney ha fatto per il New York University Movement Lab sul body language di Obama e Romney in vari discorsi e dibattiti (vedi questo articolo del NYT), ho esaminato i gesti e la postura dei due contendenti nel loro primo confronto diretto. In generale sono d’accordo con la Hockney: i gesti di Obama sono di solito più controllati di quelli di Romney, il che può esprimere padronanza di sé ma, in un momento in cui Obama deve difendersi da chi gli attribuisce tutte le colpe della crisi, tende invece a trasmettere l’idea che il leader sia oppresso dalle difficoltà.

Nel dibattito di ieri, però, i problemi del body language di Obama sono stati ben più numerosi e gravi. Innanzi tutto la postura: sono freqenti le inquadrature in cui Obama sta a testa bassa e con la schiena curva mentre Romney lo attacca o semplicemente parla. Una posizione di sottomissione:

Obama curvo 1

Obama curvo 2

Viceversa Romney, che pur non gode nemmeno lui di schiena dritta, era sempre attento a tener la testa alta e il busto all’indietro. Una tipica posizione di dominanza:

Romney dritto con la testa

Per quanto riguarda i gesti, anche ieri Obama era come sempre controllato, ma lo è sembrato ancor di più perché si è trovato di fronte a un Romney assai sciolto e dinamico con le braccia. Non solo: mentre i movimenti di Obama erano sempre molto raccolti e non superavano quasi mai la sagoma del suo corpo, Romney muoveva le braccia in modo espansivo, agitandole lontano da sé, davanti, di lato e perfino in alto. Gesti di espansione, insomma, di ampliamento del proprio spazio di azione, o addirittura di attacco, con le mani atteggiate come un’arma, da parte di Romney; gesti di chiusura da parte di Obama, tipici di chi sta in posizione di difesa a raccogliere le forze.

Intendiamoci: non c’è mai nulla di deterministico nelle analisi del body language, perché i gesti cambiano significato a seconda dei contesti e perché le parole possono sempre correggere, compensare o addirittura contraddire il comportamento non verbale. Ma il non verbale conta sempre moltissimo, al punto che, se le parole lo contraddicono, le persone tendono a credere più al corpo che alle parole (alcuni studiosi dicono addirittura che il non verbale prevalga sul verbale in rapporto di 5 a 1). D’altra parte, è intuitivo: se dico che sono felice ma ho la faccia triste, chi mai mi crederà?

I gesti chiusi di Obama:

Obama gesti chiusi

Obama gesti chiusi 2

I gesti aperti e di attacco di Romney:

Romney gesti aperti

Romney che spara con le mani

Romney gesti aperti 3

Questo articolo è apparso oggi anche sul Fatto Quotidiano.

L’ultima cena con Barack

È dal 2008 che in campagna elettorale Obama ogni tanto va a cena (da solo o con Michelle) con cittadini e cittadine qualunque, sorteggiati fra coloro che fanno una donazione individuale, anche piccola (il minimo è 5 dollari).

Lunedì scorso è partito il count down per tentare la sorte con la prossima cena (scade il 25 settembre). La cena – dice una mail a firma Michelle – sarà divertente come le altre ma anche agrodolce, perché sarà l’ultima della campagna 2012. L’estrazione è riservata ai soli cittadini americani ma io, facendo clic su «donate», sono finita nel database dei donatori potenziali e ricevo tutte le comunicazioni destinate a questo target, con il quale lo staff è particolarmente insistente.

Sull’ultima cena con Barack ho ricevuto in sette giorni otto mail: due da Julianna (Julianna Smoot, Deputy Campaign Manager), una firmata Barack, una Michelle, tre firmate più genericamente dall’organizzazione Obama for America, l’ultima da Joe (il vicepresidente Joe Biden). Tutti mi invitano ad affrettarmi e mi ricordano che le spese sono pagate per due persone, tutti sottolineano l’imperdibilità dell’occasione e illustrano con foto l’intimità col presidente che le cene permettono. Al punto che qualcuno ha fatto questo (mail del 19 settembre) (clic per ingrandire):

Abbraccio a Barack

La mail di ieri illustrava persino lo schema dei posti a tavola: se fossi io a vincere, mi spiegava Julianna Smoot, sarei collocata a sinistra del presidente, mentre il mio accompagnatore starebbe alla sua destra:

Dinner with Barack: schema dei posti a tavola

Il concorso «Dinner with Barack» serve a:

  1. Incentivare le donazioni, perché con pochi dollari qualunque supporter può – a quanto pare – vincere una cena con il presidente, inclusiva di viaggio aereo, transfer da e per l’aeroporto, pernottamento per due persone.
  2. Mostrare che Obama è capace di stare a tavola con chiunque in modo semplice e informale, intendendo per «chiunque» alcuni rappresentanti della middle class e del sistema educativo statunitense, a cui Obama riserva grande attenzione. Fra gli ultimi sorteggiati: un’insegnante di scuola in pensione, un’impiegata di scuola in pensione, un impiegato delle poste, due docenti universitari, un piccolo imprenditore, un vigile del fuoco, un paio di artisti.
  3. Mostrare il lato umano e privato del presidente, ciò che lo rende «uno di noi»: negli incontri, documentati con foto e video distribuiti sui media e su internet, Obama racconta di sé, delle figlie, della sua vita quotidiana, delle sue abitudini.
  4. Mostrare la capacità di ascolto ed empatia del presidente, perché a cena Obama non parla soltanto, ma ascolta molto, dialoga, discute di problemi ordinari, e appare sempre partecipe, comprensivo, perfino affettuoso.

La cena del novembre 2011:

Questo articolo è uscito oggi anche sul Fatto Quotidiano.