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L’importanza dell’esempio

Ho sempre pensato che la grandezza di un intellettuale – scienziato o umanista che sia – si misura dalla capacità di farsi capire da tutti, trovando (almeno) un buon esempio per ogni nozione astratta che concepisce.

Il che vuole dire trovare un’esperienza quotidiana, accessibile alle persone comuni, qualcosa che tutti possano vedere, ascoltare, toccare, o anche solo immaginare di farlo; qualcosa che si possa addirittura annusare o gustare: olfatto e gusto sono i due sensi più trascurati dal pensiero astratto, e un esempio che vi faccia riferimento resta più impresso di altri.

In semiotica (o semiologia) Roland Barthes si distingueva per questa capacità.

Così ad esempio nel 1957 spiegava la nozione di segno come rapporto fra due termini: significante e significato.

La definizione è datata (usa concetti e termini che la successiva riflessione semiotica ha in parte modificato e ulteriormente raffinato), ma i due esempi sono tutt’oggi illuminanti:

«Ricorderò quindi che ogni semiologia postula un rapporto fra due termini, un significante e un significato. Questo rapporto verte su oggetti di ordine differente, e appunto per questo non si tratta mai di una uguaglianza, ma di una equivalenza.

Bisogna a questo punto por mente che contrariamente al linguaggio comune da cui so semplicemente che il significante esprime il significato, in ogni sistema semiologico non ho a che fare con due ma con tre termini differenti; perché quanto io percepisco non è affatto un termine dopo l’altro, ma la correlazione che li unisce: c’è dunque il significante, il significato e il segno, che è il totale associativo dei primi due termini.

Per esempio, un mazzo di rose: gli faccio significare la mia passione. Non c’è, molto semplicemente, un significante e un significato, le rose e la mia passione? Anzi: in verità ci sono soltanto rose “passionalizzate”.

Ma sul piano dell’analisi sono ben tre i termini: perché queste rose cariche di passione si lasciano perfettamente ed esattamente scomporre in rose e passione: le une e l’altra esistevano prima di congiungersi e formare questo terzo oggetto, che è il segno.

Quanto, effettivamente, sul piano vissuto non posso dissociare le rose dal messaggio che portano, tanto sul piano dell’analisi non posso confondere le rose come significanti e le rose come segno: il significante è vuoto, il segno è pieno, è un senso.

Un altro esempio, un sasso nero: posso farlo significare in più modi, è un semplice significante; ma se lo carico di un significato definitivo (condanna a morte, ad esempio, in una votazione anonima), diventerà un segno.»

(Roland Barthes, Mythologies, Seuil, Paris, 1957 (trad. it. di Lidia Lonzi, Miti d’oggi, Einaudi, Torino, 1994, pp. 194-195.)

La nuova Eva

Avevo promesso che avrei postato i pochi capitoli che meritano di Nouvelles Mythologies, aggiornamento corale (a cura di Jérôme Garcin, giornalista e condirettore del Nouvel Observateur) di Mythologies di Roland Barthes.

Ecco – con grassetti miei e un’omissione – il capitolo di Pascal Bruckner, scrittore, filosofo dei «nouveaux philosophes», sessantottino deluso (così lo definisce la scheda biografica).

Sono d’accordo su tutta la prima parte. Sono però meno ottimista di Bruckner nelle conclusioni: per «giocare con i luoghi comuni», per manifestare la «singolarità interiore» che lui – nonostante tutto – attribuisce alla nuova Eva, per essere davvero libere insomma, occorrono una coscienza delle regole e una freddezza che forse si trovano nello star system. Forse.

Ma i milioni di ragazze che seguono quegli esempi? Controllano il gioco o ne sono controllate?

«Un tempo alla borghese e alla puttana si attribuivano ruoli ben definiti: alla prima correttezza e convenienza, all’altra volgarità e pacchianeria. Questa distinzione ormai non regge più; la scollacciata può essere raffinata e sobria, e l’elegante spendere una fortuna per vestirsi da “svergognata”. Vediamo quindi, ormai da anni, mogli inappuntabili, gran dame e brave ragazze che, da Rio a Mumbai, da Malaga a Stoccolma, mostrano il corpo, strizzano il seno e il sedere, fanno uscire le mutande dai pantaloni, insomma, ostentano un atteggiamento da pornostar con una naturalezza disarmante.

È il trionfo della troietta: con gli attributi esposti fino all’esagerazione, questa si impone nel momento in cui il macho, che mette in mostra i suoi simboli fallici, è in declino. La parola stessa, con le sue implicazioni peggiorative e vagamente scatologiche, testimonia della nostra ambivalenza al riguardo di questo fenomeno: come se un po’ della riprovazione tradizionalmente riservata alle prostitute si fosse trasferita sulle loro parodie mondane. Ce l’abbiamo con loro per il fatto di attrarci con tanta facilità, e tuttavia non riusciamo a staccare gli occhi dalle loro grazie in bella mostra.

È paradossale che le donne, dopo aver conquistato l’indipendenza, si autorappresentino così, come oggetti puramente erotici. Il diktat dell’esplicito comporta in primo luogo la fine dell’intimità: occorre mostrare il proprio pedigree libidinoso in pubblico. Come se oggi il peggior nemico non fosse il puritanesimo, ma l’anonimato, come se le persone fossero pronte a tutto pur di avere un’esistenza sociale: a spogliarsi moralmente in televisione, e realmente nella vita quotidiana. La sessualità non è stata tanto liberata, quanto piuttosto integrata tra le norme di valutazione degli individui. Perché per chi lo porta quell’abbigliamento significa soprattutto: sto al passo, per quanto riguarda le promesse erotiche non mi troverete impreparata.

La troietta mette insieme il modello dell’adolescente e dell’adescatrice: gioventù ed esperienza. Sottintende prodezze erotiche, illimitata distribuzione di piacere. Qualche anno fa un settimanale femminile titolava in copertina: «Sei una porca?». Lo stupore non veniva soltanto da questo titolo provocante, ma anche dalle risposte date dalle redattrici del giornale in questione: ognuna di loro rivendicava con fierezza quella definizione, si rappresentava come l’ultima delle prostitute, la regina delle bagasce, la vacca assoluta.

Dobbiamo ammetterlo: il sesso è diventato l’ultima forma di snobismo alla quale occorre cedere, pena l’esclusione sociale. L’internazionale delle troiette possiede le sue icone: Britney Spears, Paris Hilton, ragazzine scollacciate e portatrici di una sottocultura della femminilità aggressiva.

L’uniforme, evidentemente, inganna, ed è fonte di infiniti malintesi. Sbaglieremmo a pensare che le nostre compagne siano improvvisamente preda dei furori di una Messalina. Così come le donne di un tempo in crinolina, garza e corsetto non erano tanto oneste quanto parevano, quelle di oggi, accessoriate, insalsicciate, siliconate, non sono poi tanto infoiate quanto sembrano. L’impudicizia non sempre è sinonimo di ragazza facile, è un gioco con gli emblemi della volgarità.

Si tratta soprattutto di attirare l’attenzione del principe azzurro: ai suoi soliti attributi, Cenerentola aggiunge il tanga sul didietro, il reggiseno sporgente, la canottiera sopra l’ombelico e il pantalone aderentissimo. Rispetto a sua madre, deve offrire qualcosa di più: l’abilità amorosa, ovvero una infinita scienza del godimento.

[…]

Tuttavia, la troietta resta un enigma: è talmente ligia alle regole della moda, da essere sospettabile di trasgressione. Talmente offerta, abbandonata, da diventare inaccessibile. Comunica in modo troppo vistoso perché il messaggio non ne risulti oscurato. La sua ostentata provocazione somiglia a uno sbeffeggiamento dei pregiudizi, riproposti e fatti a pezzi nello stesso tempo. Come se si riappropriasse dello stereotipo della donna oggetto, dell’animale da letto, trasformandolo in un segno del potere, e non più di sottomissione.

«Volete ridurmi ai miei organi sessuali? Lo faccio da me, ma con una tale sovrabbondanza di accessori, di maschere, che vi sarà impossibile riconoscere in me le vostre fantasie.» Gioca con i luoghi comuni, e fa del suo corpo una sorta di teatro nel quale essi fioriscono e muoiono.

Più si adegua al conformismo generale, più manifesta una singolarità interiore. L’indecenza non è meno enigmatica della castità. Imbacuccata o nuda, la donna resta indecifrabile.

E se questa strategia dell’eccesso fosse una possibile strada verso la libertà, un modo per sovrapporre le maschere, per moltiplicare le identità?

Sotto il tanga della troietta, batte pur sempre un cuore.»

(«La nuova Eva» di Pascal Bruckner, in Nouvelles Mythologies, sous la diréction de J. Garcin, Seuil, Paris, 2007, trad. it. di Maria Cristina Maiocchi, Nuovi miti d’oggi. Da Barthes alla Smart, ISBN Edizioni, 2008, pp. 40-43).

La passione per i sondaggi

L’anno scorso è uscita per ISBN Edizioni la traduzione italiana di Nouvelles Mythologies, una sorta di aggiornamento corale (a cura di Jérôme Garcin, giornalista e condirettore del Nouvel Observateur) dell’indimenticabile Mythologies di Roland Barthes.

Nel complesso il lavoro è molto deludente: niente a che vedere con l’acume e la capacità di scrittura del grande Barthes. Non comprarlo: posterò qui dentro le poche osservazioni degne di nota che contiene.

Questa è una.

«La curiosità quasi divinatoria che sottintende la richiesta di sondaggi – che è una curiosità nei confronti del futuro – si accompagna […] a una curiosità nei confronti di noi stessi, che è una curiosità che concerne il presente. Perciò è necessario distinguere fra due diverse funzioni del sondaggio: una funzione prospettica e una introspettiva. Ciò che ci attendiamo dal sondaggio è che ci dica chi è il candidato maggiormente suscettibile di vincere in un momento specifico, e nel contempo ci riveli in che società viviamo, con chi dividiamo la decisione, quanti sono quelli che la pensano come noi, quanti coloro che la pensano in modo diverso. Insomma, che ci metta in scena come corpo politico che decide dell’avvenire, e gli oracoli del quale vengono letti regolarmente in attesa del suo verdetto.

Naturalmente, i sondaggisti, che sono persone esperte e abili nel difendere il loro mestiere dalle innumerevoli polemiche che esso suscita, rifiutano questo vocabolario. “Un sondaggio non è una predizione, – ripetono tutto l’anno. – È una fotografia dell’opinione in un momento specifico e in un luogo determinato”. E potremmo aggiungere: una fotografia sfocata, un po’ storta, dai contrasti spesso discutibili, sempre ritoccata e aggiustata prima di essere resa pubblica.

Non importa: a dispetto di queste precauzioni d’uso e di questi artifici, il sondaggio è ricercato come l’equivalente di una profezia e di una verità che elevano l’opinione del momento al rango di fatto compiuto e generalizzato. Molti di questi oracoli incerti non vedrebbero nemmeno la luce, se l’attesa del pubblico non fosse precisamente quella.

D’altronde, quando la “foto” compare finalmente sulla prima pagina dei quotidiani e sui principali siti internet, le dichiarazioni di virtù dei professionisti sono presto dimenticate. Il commento cambia tono, e una voce fuori campo sembra installarsi nel cuore dello spazio pubblico: “Nicolas Sarkozy parte in testa” (vincerà), “Ségolène Royal spera di rimontare” (ma perderà), “Chirac raggiunge Balladur” (è finito), “Le Pen al secondo turno” (bisogna credere ai sondaggi?).

Nella pratica, le due facce della libido sciendi democratica (curiosità per il futuro e curiosità per il presente) sono indissociabili. Perché, dalle nostre parti, l’identità collettiva non si riceve dal cielo o da una qualsivoglia tradizione superiore: essa si identifica con la manifestazione di un’intenzione comune. Somiglia molto, in questo, a una sorta di proiezione nel futuro. È il destino di un essere collettivo quello di non realizzare la propria unità se non nell’espressione della propria volontà.

Ma è forse la funzione introspettiva a spiegare meglio l’attuale passione dei francesi per i sondaggi. Perché, più delle altre, la società francese è diventata opaca a se stessa. Gli strumenti utilizzati per descriverla suonano falsi. […] Non esiste più, come un tempo, un “mondo operaio” ben identificato, ma operai di condizione abbastanza variegata. Non esiste più una classe media conquistatrice, investita da una missione storica, ma categorie intermedie, una buona parte delle quali si interroga sul proprio avvenire e teme il declassamento per i propri figli. Accanto agli impiegati dell’amministrazione di ieri è cresciuto un piccolo proletariato dei servizi abbastanza disperso e poco cosciente di sé.

In breve, la maggior parte dei grandi racconti sociali che costituivano la trama complessiva della società francese si disfa, rendendo sempre più urgente la foto di famiglia, lo specchio in cui la loro sfinente varietà si troverà finalmente ricondotta a una media, razionalizzata, insomma semplificata

(“La passione per i sondaggi” di Thierry Pech, in Nouvelles Mythologies, sous la diréction de J. Garcin, Seuil, Paris, 2007, trad. it. di Maria Cristina Maiocchi, Nuovi miti d’oggi. Da Barthes alla Smart, ISBN Edizioni, 2008, pp.117-119).