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SpotPolitik. Perché la «casta» non sa comunicare

Sarà in libreria dal 1 marzo, ma ieri mi sono arrivate le prime copie: è SpotPolitik. Perché la «casta» non sa comunicare, il mio ultimo lavoro con Laterza (Saggi Tascabili, pp. 208).

SpotPolitik. Perché la «casta» non sa comunicare

Lo dico subito: anche se sono un’accademica, ho scritto un libro divulgativo, che possono leggere tutti senza rompersi troppo la testa (né qualcos’altro). Parlo dei disastri della comunicazione politica italiana negli ultimi cinque anni (tutta: a destra come a sinistra), tiro le fila di molte discussioni che abbiamo affrontato qui, cerco di inquadrare le singole analisi in uno sguardo d’insieme e provo pure a vedere, alla fine, una luce in fondo al tunnel.

Ecco la quarta di copertina:

Che cos’è la SpotPolitik? È la politica che pensa che per comunicare basti scegliere uno slogan generico, due colori e qualche foto. Quella che riduce la comunicazione a uno spot televisivo. Di SpotPolitik hanno peccato tutti i partiti italiani con pochissime eccezioni. Gli anni dal 2007 al 2011 sono stati i peggiori in questo senso, ma non illudiamoci che sia finita: la cattiva comunicazione potrebbe sommergerci ancora. Riflettere sugli errori del passato può essere utile ai politici, per non caderci ancora; e a tutti noi per scoprire come sia stato possibile accettare (e votare) quella roba.

Ed ecco uno stralcio dei ringraziamenti che riguardano questo blog (per tutti gli altri, che sono molti, bisogna vedere il libro): 🙂

[…] Alle mie studentesse e ai miei studenti passati presenti futuri, perché contraddicono minuto per minuto, giorno per giorno, in aula e fuori, tutti gli stereotipi più sciocchi sui giovani d’oggi che «non sono più come una volta, non sanno più scrivere, non sanno più questo e nemmeno quello».

A tutta la rete e i social media del mondo, perché permettono spazi di libertà, pensiero e relazioni umane una volta impensabili, e tutti i giorni nutrono il mio lavoro e la mia mente.

Ai lettori di Dis.amb.iguando, perché oggi 30 dicembre 2011 il contatore di WordPress dice che in quasi quattro anni ho scritto circa 900 articoli, ma loro hanno aggiunto quasi 13.000 commenti. Grazie soprattutto a Ben, Ugo, Skeight, Il Comizietto, Luziferszorn, Replicant, Zauberei, Donmo, Broncobilly, Attilio, che hanno postato i commenti più lucidi, argomentati e documentati, facendo nascere discussioni a volte accese, ma sempre costruttive e ragionate. Al punto che ormai per me il blog è uno strumento imprescindibile di ricerca. È da lì che viene parte di questo libro. Meglio di così una aca-blogger (academic + blogger) non poteva desiderare. Grazie.

Riflessioni prenatalizie su blog, emozioni, accettazione dell’altro. E mille auguri per tutti

Da due giorni ho un blog anche sul Fatto quotidiano. Non toglierò tempo e risorse mentali a questo, che per me resta al primo posto e anzi – preannuncio – fra pochi giorni cambierà veste grafica, perché ho bisogno di riorganizzare l’impaginato per far emergere (e riemergere) temi e sezioni. E far nascere cose nuove.

Userò lo spazio che il Fatto mi offre (anche) per tirare le fila delle discussioni che facciamo qui. Per verificarle con un pubblico più ampio, vedere se resistono alla prova dell’alto tasso di partecipazione emotiva che spesso esprimono i lettori del Fatto.

Mi interessa il rapporto fra emotività e razionalità. In questo spazio tendiamo tutti ad argomentare e documentare quel che diciamo, molto più che in altri blog. E di questo sono sempre grata ai lettori di Dis.amb.iguando. Altrove invece i lettori tendono a entusiasmarsi o insultare, osannare o deridere con più facilità. Il che può creare effetti aberranti: la blogger si può gasare per poco, come può sentirsi ferita per poco. Ma l’emotività propria e altrui può anche essere un buon banco di prova per la tenuta di ciò che si ha da dire. Una prova a cui non voglio sottrarmi.

Ho aperto la mia collaborazione col Fatto con un pezzo dal titolo Gli italiani sono razzisti?, in cui ho ripreso alcuni ragionamenti che abbiamo fatto nelle ultime settimane (e non solo).

Voglio rilanciare qui il modo in cui ho concluso sul Fatto: penso che l’accettazione dell’«altro» – altra pelle, altra razza, altra religione, ma anche altro sesso, altra età, altra abilità fisico-cognitiva, altra idea politica – l’accettazione profonda, autentica, libera da tutte le ipocrisie del politically correct, cominci solo quando ammettiamo, con noi stessi e con gli altri, che dell’altro non tutto ci piace, non tutto è bello, colorato, gioioso. E anche se non ci piace, va bene così.

Per questo la sinistra sbaglia quando parla di integrazione dipingendone solo le meraviglie. Per questo il «volemose bene» fa più danni di quel che si immagina, perché lascia solo agli estremismi intolleranti e razzisti la possibilità di esprimere disagi, ansie, preoccupazioni per tutto ciò che dell’altro non riusciamo a capire o semplicemente a mandar giù, perché non ci piace.

Integrazione, invece, vuol dire anche starsi reciprocamente sulle scatole per mille ragioni e mille torti da ambo le parti, e non raccontarsi che non è vero, ma riuscire lo stesso a negoziare sempre pacificamente i propri e altrui spazi, a mediare e convivere, anche se non vogliamo diventare amici intimi di quel qualcuno con cui mediamo.

Il che vale per il migrante di cui non ti piace l’odore che lascia sul bus del mattino, come per gli adolescenti che fanno casino in strada alle tre di notte. Ma vale anche per il marito (o la moglie) che ti fa saltare i nervi quando lascia l’asciugamano «storto». Ed è cosa reciproca, naturalmente, perché anche al migrante non piace il tuo odore e ai giovani casinari nessuno toglie dalla testa che se vai a letto prima di mezzanotte sei da buttare. Mentre per il marito (o la moglie) l’asciugamano è dritto come lo piega lui (o lei), mica come lo pieghi tu.

Detto questo, propongo un Merry Christmas d’annata con i Ramones. Auguri, eh. 🙂

La mutazione di Wired e il corpo delle donne

Martedì sul blog di Massimo Mantellini è apparso questo laconico (com’è spesso lo stile dell’autore) post dal titolo «Progetti editoriali»:

«Con il numero di dicembre in edicola mi pare che la mutazione di Wired da mensile di tecnologia ed innovazione a rivista pop in senso lato sia in buona misura completata».

Wired dicembre

Ora, a me appare chiaro l’ironico (e amaro) implicito: dopo il cambio di direzione (Riccardo Luna ha lasciato Wired in giugno), la rivista cerca di vendere più copie includendo immagini come quelle che tipicamente si trovano sui magazine femminili (e maschili).

Ovvero, usa il corpo delle donne – decapitato, patinato e messo a carponi – per attrarre uomini e donne.

Ma i lettori del blog di Mantellini (fra i più seguiti in Italia) non colgono l’implicito. O meglio, non considerano rilevante, dell’implicito, il riferimento all’uso (inutile se non per le vendite) del corpo femminile. Ovvio, visto che la questione di genere non è fra i temi abituali di Mantellini. Ma sintomatico di una generale indifferenza per il tema, in ambienti che non siano quelli delle «solite vetero e neofemministe».

Il che dovrebbe fare riflettere tutte/i coloro che pensano (s’illudono?) che negli ultimi anni in Italia si sia diffusa una maggiore attenzione per l’immagine femminile sui media: la strada è ancora lunga. Copio e incollo alcuni commenti (gli altri sono simili) arrivati finora su Manteblog. Da notare che sono tutti uomini, o almeno, lo username con cui appaiono i commenti (e che tralascio) è maschile:

hmmm ed io che devo ricevere ancora 17 copie dell’abbonamento.. mah… per anni ho faticato come un matto per trovare posti dove vendevano/mi procuravano wired inglese… mi son illuso.. ma… forse oggi riveste così non han più senso… vero è che non prendo la versione inglese da un po’

Purtroppo anche io faccio parte della schiera di coloro con abbonamento pluriennale che saranno costretti a ricevere ancora diversi numeri di una rivista sempre più snaturata.

Ma non vendeva quella vecchia? Chiedo eh?

Le vendite con Luna erano in caduta libera, mai vista una rivista andare tanto male tanto velocemente, è per questo che lo hanno cambiato. Adesso è una rivista modaiola che non ha più nulla a che fare con Wired e sembra piacere di più.

Mutatis mutandis (e mutandes…)

Per forza le vendite erano in calo, per tutta la campagna promozionale han regalato abbonamenti pluriennali a migliaia di person a prezzi ridicoli. Chi non l’ha fatto semplicemente non è interessato al genere, per cui da li in poi vendere delle copie diventa difficile. In effetti anch’io faccio parte di quelli con le ultime 3-4 copie ancora da scartare.

la cosa che mi fa più incazzare è la pubblicità cammuffata da articoli (wired, roomba..) vale a dire con la stessa grafica, impaginazione etc… avrei rinnovato l’ abbonamento se non ci fosse il 40% delle pagine usato in pubblicità. E gli articoli non li ho ancora letti, questo mese. ciao.

perchè all’italiano puo’ si’ piacere la tecnologia, ma la patata viene prima di tutto. è un po’ come le fiction italiane. non riescono a non infilarci una storia d’amore, sempre mielosa e scontata. sono i modi (diversi ma certamente “overlapping”) in cui pubblico maschile e pubblico femminile viene visto e trattato.

faceva cagare fin dal terzo numero. Mi sono abbonato (a prezzi stracciati) dopo aver letto il primo. Dal quarto in poi neanche piu’ li leggevo veramente. Mi hanno mandato una quantità di spam cartaceo per rinnovare l’abbonamento che neanche le mogli ucraine alla ricerca di un marito fedele… Non leggero’ quella rivista MAI piu’ nella vita. E pensare che pur leggendo spesso riviste inglesi su tecnologia e simili avevo sperato che in Italia ci fosse spazio per qualcosa di decente sulla tecnologia. Me ne faro’ una ragione e risparmiero’ qualche soldo… e smettero’ di fidarmi di chi esalta un progetto editoriale solo perchè sembra cool esaltare qualunque cagata vagamente alla moda e tecnologico.

L’insostenibile leggerezza dei commenti su Facebook

Di solito posto su Facebook ogni articolo che scrivo per il blog, subito dopo averlo chiuso. È un’abitudine che ho da sempre, qualcosa che gli amici di Facebook si aspettano: se non lo facessi penserebbero che non ho scritto.

Facebook logo Wordpress Logo

Sanno pure, gli amici di Facebook, che preferisco ricevere commenti sul blog e non su Facebook. Di solito lo dico esplicitamente: se qualcuno/a scrive un commento interessante e articolato su Facebook (ripeto: se), immediatamente gli/le chiedo di ricopiarlo qua. «Perché su fb il commento si perde in pochi minuti, sul blog resta», spiego.

Ma la ragione non è solo questa. «Se» il commento è interessante e articolato, dicevo. Altrimenti taccio. Il mio obiettivo è infatti quello di invogliare solo i commenti più motivati e ponderati, scoraggiando provocazioni, parolacce, tifoserie ed esternazioni insensate. Che su Facebook vengono spontanee, qui molto meno.

«Il mezzo è il messaggio», diceva McLuhan, anche se non basta il mezzo a fare un messaggio, come abbiamo detto altre volte.

Tuttavia il mezzo può condizionare (e anche molto) il messaggio, e allora chiediamoci: perché i commenti che arrivano su Facebook allo stesso articolo sono tendenzialmente più improvvisati, emotivi, stracciati e spesso sciocchi di quelli che arrivano qui?

Per ragioni di interfaccia anzitutto: su Facebook lo spazio per i commenti non ha limiti, ma è angusto e scomodo, nel senso che ospita caratteri piccoli, non permette la formattazione, a volte dà problemi con gli «a capo», e così via. Tutti fattori che, congiunti, inducono una scrittura poco curata e poco organizzata. Le stesse persone che qui si scusano anche per un singolo refuso, su Facebook se ne fregano di tutto: segni di interpunzione, errori ortografici, pasticci logici, insensatezze. Perché su Facebook si fa così. Ma si fa così (anche) perché l’interfaccia è quella, e così induce a fare.

E poi c’è il tempo di fruizione: le videate di Facebook fuggono via a una velocità tanto maggiore, quanto maggiore è il numero di amici che hai e il numero di attività che tu e i tuoi amici fate in bacheca. Basta un’ora e puff: tutto sparisce e, se vuoi ripescare qualcosa che hai postato solo qualche ora prima, ci metti un bel po’.

Insomma la scrittura su Facebook è molto più vicina a una conversazione orale di quella che si pratica nella blogosfera: verba volant su Facebook, scripta manent sui blog, verrebbe da dire.

Poi naturalmente dipende dai blog: dal tipo di contenuti (informazione, diaristica, commento politico, gossip, ecc.), dallo stile di scrittura, dal tono di voce di chi gestisce il blog, dal modo in cui risponde ai commenti, e così via. E dipende dalle persone che commentano, naturalmente. Perché – vale la pena ricordarlo una volta in più – il messaggio non è solo il mezzo, casomai è anche il mezzo.

La rete italiana è provinciale… o sbaglio?

Ho aperto questo blog negli ultimissimi giorni del 2007. E da un paio d’anni ho notato una differenza, a cui all’inizio non facevo tanto caso, perché avevo meno visite e meno commenti. Poi, per mia fortuna, le visite sono gradualmente aumentate e i commenti pure. Tanto, che oggi questa cosa la noto moltissimo. È da un bel po’ che la noto. E allora la devo dire, perché non mi piace per niente.

Accade questo.

I love Italia

Se parlo di comunicazione politica italiana, le visite e i commenti s’impennano. A volte – dipende dal leader di cui parlo – anche in modo esagerato, ben superiore alle aspettative. Se invece parlo di un leader straniero e di un paese europeo (o extra, che è peggio), l’interesse cala drasticamente. Stamattina ho scritto di Mariano Rajoy e della Spagna, che pure è un paese vicino, che di recente ci è stato più volte assimilato, nel bene e nel male. Insomma, le riflessioni su quella situazione dovrebbero essere pertinenti anche da noi. Invece pare che di Mariano Rajoy non freghi niente a nessuno: lo vedo dai commenti (finora uno solo), dalle visite dirette al post, dalle ricerche che in rete si fanno su questo tema.

Può essere colpa di ciò che ho scritto io, qualcuno potrebbe obiettare. Se quel che ho scritto è poco interessante, non posso accusare gli altri di scarso interesse. È la prima cosa a cui ho pensato, naturalmente, perché non sono incline a nessun tipo di blog-narcisismo.

Ma temo che la spiegazione non sia questa: gli accessi a un post calano ogni volta che il titolo del post non si riferisce chiaramente a nulla d’italiota. Insomma, mi è capitato parlando anche di Francia, Inghilterra, nord Africa, Stati Uniti. A meno che non fossi così furba da girare la frittata (già nel titolo, eh) in modo che apparisse italocentrica.

Mi piacerebbe ragionare su questo: è un problema della rete? dell’Italia? della situazione storica particolare perché, data la crisi, siamo tutti impegnati a leccarci le nostre ferite, e degli altri sempre meno c’importa? O è un problema della piccola zona di rete che frequenta questo blog, che si è abituata troppo (e allora sì, che è colpa mia) a prestare attenzione solo a faccende italiane?

Gli italiani leggono i giornali, guardano la tv o si informano on-line?

Ho letto ieri sul blog di Massimo Mantellini che Human Highway ha appena pubblicato lo studio annuale sui consumi informativi on-line commissionato da Liquida.

Dall’indagine, Mantellini trae motivo di depressione:

Il lavoro è molto interessante, il contenuto – per conto mio – discretamente deprimente. Gli italiani non amano molto l’informazione online, la condividono poco, leggono le fonti alternative al mainstream ma si lamentano per la scarsa qualità, appena hanno notizie di una emergenza informativa accendono il televisore o, se decidono di informarsi in rete, in un caso su tre cercano su Google.

Proviamo a vedere il bicchiero mezzo pieno.

Dal 2009 al 2011 è aumentato il numero di lettori abituali di quotidiani on line, che compensano la diminuzione dei lettori di giornali cartacei. Buona notizia: la somma degli uni e degli altri (13,3 milioni di persone) è in crescita. Clic per ingrandire:

Trend di lettori di quotidiani 2009-2011

I fruitori abituali di informazione on-line sono molto interessati alla blogosfera: il numero di lettori abituali di blog è in forte aumento. È invece diminuito del 30% negli ultimi tre anni il numero dei lettori di blog di attualità (clic per ingrandire):

Trend di lettori di blog 2009-2011

Se uniamo questi dati alle lamentele crescenti sulla scarsa autorevolezza e qualità di molti blog, mi sembra chiara la tendenza: le persone chiedono maggiore qualità e fonti più affidabili, perciò sono sempre meno interessate ai blog e siti «di attualità generica» e sempre più a blog tematici di approfondimento. Clic per ingrandire:

Atteggiamenti verso i blog

Infine Human Highway ha fatto a un campione di 2024 persone (con questa metodologia) la domanda: «Supponiamo che sia da poco avvenuta una cosa importantissima nel mondo e vuoi sapere di cosa si tratta. Cosa faresti come prima cosa per capire cosa è successo?».

Ora, è vero che il 42,4% dice «accenderei la televisione» (l’Italia, si sa, è un paese ancora molto televisivo), ma la percentuale è diminuita negli ultimi tre anni (-2,6%).

Inoltre, ben il 53,4% del campione (+3,8%) dice che andrebbe su un motore di ricerca. Ed è vero che solo il 28,6% (e cioè -1,5%) dice che andrebbe su un quotidiano on-line, ma questo da cosa dipende? Dall’arretratezza dei lettori italiani – che Mantellini definisce «vecchi dentro» – o dall’affastellamento caotico di notizie mescolate a gossip e donnine nude che contraddistingue molte testate on-line?

Insomma, che oggi gli italiani e le italiane si informino più in rete che sulla carta e in tv, ma lo facciano cercandosi da soli le notizie e chiedendo qualità, non mi pare così deprimente. Clic per ingrandire:

Mezzi di informazione usati in caso di evento eccezionale

Il primo appello italiano per Ai Weiwei: firma anche tu

Il mio post del 20 aprile Perché l’Italia non si mobilita per Ai Weiwei? e l’articolo di Sara Giannini da cui avevo preso spunto hanno indotto l’Associazione Pulitzer a organizzare il primo appello italiano per ottenere informazioni sui motivi dell’arresto di Ai Weiwei e sulle sue condizioni condizioni psicofisiche, e per chiedere la sua liberazione.

L’appello è rivolto innanzi tutto al Presidente della Repubblica italiana. Puoi leggerlo e, se sei d’accordo, firmarlo QUI.

Oggi pomeriggio il mio pezzo e l’appello dell’Associazione Pulitzer sono stati ripresi anche da Nazione Indiana, grazie a Orsola Puecher.

Sono curiosa di vedere che ne sarà di questo appello. Sui media e nella rete italiana. Ma soprattutto nel mondo là fuori.