Oggi sul Corriere della sera, edizione di Bologna, è uscita questa intervista di Francesca Blesio, che ringrazio:

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Oggi è uscita su Valigia Blu questa mia riflessione:
I fatti sono noti: il 7 febbraio esce sul Corriere della sera un articolo di Fabrizio Caccia (inviato a Mogliano) sull’uomo che, poco prima che Pamela Mastropietro fosse orribilmente uccisa nei pressi di Macerata (mentre scrivo non sono ancora chiare le cause della sua morte), aveva avuto con la ragazza un rapporto sessuale in cambio di denaro. In poche ore il pezzo suscita sui social media reazioni di rabbia, sconforto, indignazione e un gran numero di critiche anche ben argomentate, a tal punto che due giorni dopo il Corriere decide di eliminarlo. Così, di colpo, senza commenti né scuse per l’errore. Un errore gravissimo, invece, sul quale una testata giornalistica come il Corriere della sera (che è il quotidiano più venduto in Italia) avrebbe dovuto fare una riflessione pubblica e trasparente, scusandosi con i lettori e le lettrici, facendo autocritica e proponendo una ricostruzione diversa di quanto accaduto alla ragazza prima che fosse barbaramente uccisa.
Cerco di spiegare perché l’errore del Corriere è pesante, innanzi tutto dal punto di vista umano ed etico, poi giornalistico e comunicativo. Continua a leggere
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In attesa di riprendere il blog a pieno regime, pubblico un articolo di Sara Bicchierini, uscito sul Corriere della sera cartaceo e su La 27ma ora sabato, col titolo «L’estate breve del dettaglio», in cui sono stata intervistata assieme ad altri/e.
Caviglie adagiate a bordo piscina. Tramonti romantici che spuntano da dietro l’ombrellone. Pomodorini accarezzati da una goccia di aceto balsamico su piatti immacolati. Immagini dell’estate che volano via veloci Continua a leggere
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Domani alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte 2 a Milano, alle ore 18:30, ho l’onore e il piacere di chiacchierare di SpotPolitik con Umberto Eco e Annamaria Testa. Clic per ingrandire:
Colgo l’occasione per raccogliere qui tutte le recensioni, segnalazioni e interviste che il libro ha ottenuto finora, su carta e on line, ringraziando ancora una volta chi mi ha dedicato tempo e attenzione.
Sulla carta (in ordine cronologico decrescente):
Il Mondo, 25 maggio 2012, Antonio Calabrò “Questa pazza, pazza politica”
Repubblica, 25 marzo 2012, Luca Sancini “Errori e orrori dei politici in tv”
Europa, 17 marzo 2012, Roberto Fagiolo “Perché la casta non sa comunicare”
Repubblica, 13 marzo 2012, Anais Ginori “Uomini che copiano le donne”
Repubblica, 3 marzo 2012, Giovanni Valentini “Quando le donne non fanno notizia”
On line (in ordine cronologico decrescente):
Server Donne, 28 maggio 2012, “SpotPolitik. Marzia Vaccari intervista Giovanna Cosenza” (video)
Nybramedia, 19 maggio 2012, Armando Adolgiso “Intervista su SpotPolitik”
Il corpo delle donne, 5 maggio 2012, Lorella Zanardo “Votate domani? Leggete SpotPolitik!”
Spinning Politics, 22 aprile 2012, Walter Di Martino “Oltre la SpotPolitik”
Tafter Cultura e Sviluppo, 17 aprile 1012, “Recensione a SpotPolitik”
Lipperatura, 30 marzo 2012, Loredana Lipperini “Ciao, casalinga leccese”
Il mestiere di scrivere, 26 marzo 2012, Luisa Carrada “SpotPolitik: se la conosci la eviti”
Nybramedia, 16 marzo 2012, Armando Adolgiso “Recensione a SpotPolitik”
Valigia Blu, 14 marzo 2012, Matteo Pascoletti “SpotPolitik. Perché la ‘casta’ non sa comunicare”
Nazione Indiana, 7 marzo 2012, Orsola Puecher “SpotPolitik di Giovanna Cosenza”
Il Comizietto, 5 marzo 2012 “Recensione a SpotPolitik di Giovanna Cosenza”
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Dopo gli scivoloni del presidente Monti e della ministra Cancellieri sul «posto fisso» e sul fatto che i giovani preferiscano un lavoro vicino a mamma e papà, ieri sul Corriere Renato Mannheimer ha presentato i risultati di una ricerca del suo istituto, da cui emergerebbe un’immagine dei giovani fra 18 e 34 anni che conferma appieno i pregiudizi espressi dal governo.
Poiché la ricerca completa non è stata pubblicata, devo attenermi alla sintesi di Mannheimer:
«Alla richiesta di scegliere qual è l’aspetto più importante in una occupazione, più di uno su tre cita senza esitazione il “posto fisso” che risulta contare assai più dello stipendio e ancor più dell’interesse del tipo di lavoro. […]
Questi orientamenti sono confermati anche dalle risposte al quesito relativo alla preferenza tra un lavoro “sicuro anche se meno redditizio” e uno “meno sicuro con più prospettive di reddito”: quasi nove giovani su dieci (per l’esattezza l’84%) optano senza esitazione per la prima alternativa. […]
Di qui una netta (per il 75%, con una diminuzione, comunque, rispetto a due anni fa quando era l’84%) predilezione per un mercato del lavoro “meno flessibile, con meno possibilità di licenziamenti, anche a costo di stipendi più bassi” piuttosto che uno “più flessibile, ma che favorisce stipendi più elevati”. Invece solo poco più di metà (56%) dei giovani italiani dice sì all’idea di un posto di lavoro, anche se fisso, in un altro Paese europeo: l’apertura appare molto maggiore tra i giovanissimi fino a 24 anni, mentre si attenua, forse a causa di famiglie già formate, tra chi ha tra i 25 e i 34 anni. È curioso notare che la disponibilità a trasferirsi appare relativamente più elevata tra chi possiede un diploma di scuola media superiore. I laureati, invece, forti del loro titolo di studio, appaiono paradossalmente più restii a spostarsi.
Questa è, dunque, la cultura del lavoro prevalente nelle nuove (ma anche nelle vecchie) generazioni del nostro Paese. Se è vero, come molti autorevoli studiosi e osservatori hanno sottolineato in queste settimane, che la prospettiva del posto fisso a vita è ormai sulla via del tramonto, travolta in particolare dai processi di globalizzazione e dalla sfavorevole congiuntura economica, è vero anche che questo mutamento pare accolto con grande sfavore e ostilità dagli italiani (e non solo da questi ultimi).»
Ora, è chiaro che, in un momento in cui tutti soffiano sul fuoco dell’incertezza e della paura, se chiedi a qualcuno: preferisci un posto «sicuro anche se meno redditizio» o uno «meno sicuro con più prospettive di reddito», questo qualcuno è molto probabile che scelga la prima alternativa. Ma siamo sicuri che non otterremmo la stessa risposta anche in altre fasce d’età, ben oltre i 18-34 anni? Sicuri che non risponderebbero così tutti coloro che vedono a rischio il loro posto di lavoro, indipendentemente dall’età che hanno? Io non lo sono, e nemmeno Mannheimer lo è, visto che mette fra parentesi «ma anche nelle vecchie generazioni».
E aggiungo: in un quadro di incertezza globale sempre maggiore, non solo italiana, siamo sicuri che la scarsa propensione a muoversi che esprimono i 18-34enni che hanno riposto al questionario non sia frutto, invece che di mammoneria, di una valutazione razionale del fatto che, poiché anche all’estero le cose non vanno meglio, tanto vale restare in Italia?
Insomma sono perplessa, perché l’articolo sembra confermare troppo facilmente i pregiudizi sui «bamboccioni». Quasi volesse giustificare gli ultimi scivoloni del governo. Ovviamente, prima di giudicare, vorrei vedere la ricerca completa.
Ma nel frattempo mi chiedo: a chi e cosa serve confermare di continuo questa rappresentazione recessiva e deprimente dei giovani italiani? Sugli stessi toni, pur mitigati dal pentimento finale, è l’articolo di Ilvo Diamanti oggi su Repubblica. A cosa serve tutta questa insistenza, se non a frustrare ulteriormente i giovani, a convincerli che non valgono nulla? Perché si continua a farlo? Io per mestiere incontro tutti i giorni ventenni che contraddicono questo stereotipo. Vivo e lavoro in una bolla fortunata?
PS: questo articolo è uscito oggi anche sul Fatto Quotidiano.
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La commozione di Elsa Fornero mentre pronuncia la parola «sacrificio» in conferenza stampa si guadagna, com’era prevedibile, la prima pagina di quasi tutti i quotidiani.
Le decine di commenti sulle lacrime, fra ieri e oggi, si dividono in due:
Su entrambi i fronti stanno anche alcuni estremismi: dal lato dei favorevoli, c’era ieri chi salutava le lacrime di Elsa Fornero come (prendo a caso da Twitter e Facebook) un «evento storico», «il momento più alto della politica italiana da decenni»; dal lato dei denigratori, c’era invece chi si scandalizzava perché «ora tutti si concentreranno sulle lacrime e nessuno parlerà dei contenuti della manovra», perché «un ministro non deve piangere», o perché «un ministro non deve piangere, specie se donna, perché altrimenti tutti dicono che le donne sono deboli».
Volendo stare al di qua degli estremismi da ambo le parti, vale la pena precisare alcune cose:
Ora, dal punto di vista comunicativo che un personaggio pubblico si commuova non è certo cosa negativa, anzi, perché non solo esprime coinvolgimento personale, ma lo suscita negli altri e lo fa per una sorta di automatismo psico-antropologico: vedere qualcuno piangere ci tocca sempre, sia nel senso della vicinanza empatica, che per alcuni arriva addirittura al contagio, sia nel senso del rifiuto viscerale (per evitare il contagio, appunto). Il che in parte spiega perché le reazioni siano state anche estreme.
Certo, alcuni politici conoscono i vantaggi del pianto in pubblico e lo simulano, se ne sono capaci, al momento opportuno. Ma per simulare il pianto in pubblico in modo credibile, occorre essere attori molto bravi, altrimenti le persone si rendono conto della finzione: ricordo ad esempio quanto sembrò fasulla la commozione di Luca Barbareschi alla convention di Futuro e Libertà nel novembre 2010 (vedi La confezione di Barbareschi e i contenuti di Fini).
Ma Elsa Fornero non è né attrice né politica consumata e la sua commozione era visibilmente autentica. Che la conferenza stampa ne abbia tratto vantaggio dal punto di vista comunicativo è indubbio: senza di lei Monti sarebbe apparso ancora più freddo e Passera ancora più consigliere di amministrazione. Ma chi l’accusa di strategia manipolatoria soffre evidentemente di allucinazioni.
E chi la sbeffeggia «in quanto donna» non vede che la commozione di Elsa Fornero è stata molto più maschile – se di differenze di genere vogliamo parlare – di quanto voglia ammettere, perché subito seguita da scuse, e soprattutto compensata da una chiarezza e lucidità di esposizione – prima e dopo le lacrime – che i suoi colleghi uomini non sono riusciti a eguagliare.
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Bachelor è un’azienda milanese con quattro sedi operative in Europa (Lausanne, Stuttgart, Madrid, Goteborg), nata nel 1998 e specializzata in ricerca e selezione di neolaureati nei primi 48 mesi di lavoro.
Il 24 settembre è uscito il primo Rapporto Bachelor «Neolaureati e mercato del lavoro», un’indagine sul percorso universitario e l’inserimento in azienda di un campione di 2.000 neolaureati che hanno conseguito il titolo tra il 2004 e il 2008 (grazie a Mariella Governo per la segnalazione). Il campione è stato estrapolato dalla banca dati di Bachelor, che contiene i profili di circa 22.000 laureati, provenienti soprattutto dalle università milanesi. Gli atenei più rappresentati nel campione sono il Politecnico e la Bocconi.
Questa è la sintesi dell’indagine, che ho rielaborato dal sito di Bachelor (QUI anche il pdf):
Sulla questione di genere nel mercato del lavoro, leggi anche l’intervista che Umberto Torelli ha fatto sul Corriere a Salvatore Corradi, fondatore di Bachelor: «Stipendi: il sorpasso delle donne».
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