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Confartigianato sulla disoccupazione giovanile: notizia? No, politica

Diversi ex studenti mi hanno segnalato ieri il rapporto di Confartigianato sulla disoccupazione dei giovani sotto i 35 anni. Questa è la sintesi per la stampa, da cui estraggo:

Confartigianato Logo

«L’Italia ha il record negativo in Europa per la disoccupazione giovanile: sono 1.138.000 gli under 35 senza lavoro. A stare peggio i ragazzi fino a 24 anni: il tasso di disoccupazione in questa fascia d’età è del 29,6% rispetto al 21% della media europea.

La situazione del mercato del lavoro nel nostro Paese è fotografata in un rapporto dell’Ufficio studi di Confartigianato in cui si rileva che tra il 2008 e il 2011, anni della grande crisi, gli occupati under 35 sono diminuiti di 926.000 unità.

Se a livello nazionale la disoccupazione delle persone fino a 35 anni si attesta al 15,9%, va molto peggio nel Mezzogiorno dove il tasso sale a 25,1%, pari a 538.000 giovani senza lavoro.»

Dov’è la notizia? I dati Istat sulla disoccupazione giovanile non erano stati già diffusi in luglio? Cerco e infatti trovo: «Lavoro, Istat: disoccupazione giovani al 29,6%», Il Fatto Quotidiano, 1 luglio 2011. Stessa notizia su tutti i quotidiani del 1 luglio. Guardo le tabelle annesse al documento Confartigianato, su cui leggo che sono elaborazioni dell’Ufficio Studi Confartigianato su dati Istat. Ah, ecco: i dati diffusi il 1 luglio riguardavano i giovani 15-24 anni, quelli rielaborati da Confartigianato estendono l’età a 35, ma è chiaro che Istat aveva già tutto.

Si tratta solo di dosare il rilascio delle informazioni nel momento più opportuno.

Allora mi chiedo: a chi giova? La risposta sta dentro lo stesso documento Confartigianato, in questo passaggio:

«In un contesto così critico, il rapporto di Confartigianato rivela paradossi tutti italiani sul fronte dell’istruzione e della formazione che prepara al lavoro. Per il prossimo anno scolastico 2011-2012, infatti, è previsto un aumento del 3% degli iscritti ai licei e una diminuzione del 3,4% degli iscritti agli istituti professionali. Nel frattempo, le imprese italiane, nonostante la crisi, denunciano la difficoltà a reperire il 17,2% della manodopera necessaria.»

Mi aveva già fatto notare questo passaggio ieri via mail Giampaolo Colletti, commentandolo così:

«Paradossi? E perchè? Credo che se si perdesse la libertà di scelta degli studi per congiuntura economica ne subirebbe un danno il Paese intero. Non credi?»

Certo Giampaolo, e aggiungo: se i ragazzi e le loro famiglie puntano su prospettive di studio più lunghe, vuol dire che puntano più in alto, sperano in un futuro migliore. Non mi pare un paradosso, casomai una buona notizia. Non solo: questo passaggio mi ricorda la posizione del ministro Gelmini, che in gennaio diceva che l’Italia non ha bisogno di laureati in materie umanistiche (men che meno in comunicazione). E forse nemmeno di laureati, perché il governo mira a rinforzare il rapporto fra istituti tecnici superiori e lavoro.

La Gelmini? Proprio lei. Così infatti si chiude il documento Confartigianato:

«La riforma dell’apprendistato voluta dal ministro Sacconi – sottolinea il Segretario Generale di Confartigianato Cesare Fumagalli – potrà contribuire a ridurre la distanza tra i giovani e il mondo del lavoro. Da un lato, i ragazzi potranno trovare nuove strade per imparare una professione, dall’altro le imprese potranno formare la manodopera qualificata di cui hanno necessità».

Sacconi, non Gelmini. Sì, ma arriva anche lei, che ieri ha commentato il rapporto Confartigianato:

L’indagine presentata da Confartigianato sulla disoccupazione giovanile in Italia «sottolinea l’importanza di alcune misure già messe in atto da questo governo, come quelle sull’apprendistato. Il contratto di apprendistato permetterà infatti l’acquisizione di una qualifica professionale triennale per i giovani valorizzando l’apprendimento sui luoghi di lavoro. In questo modo abbiamo risposto all’emergenza disoccupazione realizzando un’integrazione sempre più stretta tra istruzione e mondo del lavoro». Lo ha detto il ministro dell’istruzione Mariastella Gelmini, aggiungendo che «questa integrazione sarà realizzata, per la prima volta in Italia, dagli Istituti tecnici superiori che partiranno a settembre» (TMNews).

In conclusione, il rapporto Confartigianato non è informazione, ma comunicazione politica.

Qualche riflessione su Egitto, Tunisia… e noi

Della rivolta in Egitto si potrebbero dire molte cose. Comincio da quelle che finora mi hanno più colpita.

Innanzi tutto l’ambivalenza del rapporto fra Stati Uniti e Egitto: inevitabile dal punto di vista diplomatico, inquietante per i comuni mortali. Le relazioni formali di Obama con Mubarak sono sempre state eccellenti – l’Egitto è un alleato strategico in medio oriente – ma numerosi dispacci su WikiLeaks hanno mostrato che, dal suo insediamento, Obama ha sempre appoggiato i dissidenti egiziani. E nelle sue dichiarazioni, due giorni fa, è riuscito a essere coerente sia con il comportamento sotterraneo che con quello ufficiale.

(Leggi per esempio, sul New York Times, «Cables Show Delicate U.S. Dealing with Egypt’s Leaders», by Marc Landler; o consulta i dispacci di WikiLeaks, facendo una ricerca con “Egypt” nell’apposita (e splendida!) sezione del Guardian: US Embassy Cables: the documents+Egypt.)

In secondo luogo sono andata a guardarmi alcuni dati.

Il reddito medio dell’Egitto è 4665 euro lordi all’anno (vedi la puntata de L’infedele del 17 gennaio 2011), ma secondo Internetworldstats ben il 21,2% della popolazione accede a internet: molti, rispetto alla povertà media, il che spiegherebbe il ruolo importante che internet ha avuto nel diffondere e incanalare lo scontento popolare.

Se poi facciamo un confronto con gli altri paesi del Maghreb in cui sono scoppiate le rivolte, scopriamo che in Tunisia il reddito medio è 7100 euro all’anno e il 34% della popolazione usa internet: più ricchezza più internet più proteste, verrebbe da pensare. E invece no, perché in Algeria il reddito medio è 5568 euro, ma l’accesso a internet riguarda solo il 13% della popolazione.

Internet è importante, dunque, ma non basta. E la relazione fra uso della rete e rivolte popolari non è mai lineare, né semplice (leggi cosa ne ha scritto Vittorio Zambardino QUI e QUI).

Altre considerazioni emergono dal confronto con l’Italia. Alcuni sono infatti tentati di paragonare i moti nordafricani con le piazze italiane di fine 2010: dagli studenti alla Fiom. Ma vediamo.

In Italia l’accesso a internet, per quanto più basso della media europea (che è del 58,4%), è comunque molto più alto che in nord Africa, perché riguarda il 51,7% della popolazione. Ciò indubbiamente favorisce l’organizzazione delle piazze.

Ma il reddito medio che gli italiani dichiarano al fisco (dati 2008) è intorno ai 18.000 euro lordi all’anno. Ora, poiché sappiamo che l’Italia è un paese di evasori, possiamo supporre che in realtà sia superiore. Ma poiché le statistiche fanno sempre torto ai più deboli (se io mangio un pollo e tu niente, risulta che abbiamo mangiato mezzo pollo a testa), andiamo a guardare anche i redditi più bassi degli operai Fiat: ebbene, vanno da 11.000 a 14.000 euro annui lordi.

Insomma, l’italiano medio sta molto meglio di un egiziano, tunisino, algerino medio. E persino gli italiani che stanno peggio, in realtà stanno meglio dei nordafricani (per quanto ancora?).

Infine, per capire una differenza cruciale fra le piazze algerine, tunisine, egiziane e le nostre, pensiamo a questo. L’età media delle popolazioni del nord Africa è 27 anni. L’età media degli italiani è circa 50 anni e i giovani fra 15 e 24 anni, quelli che dovrebbero trainare proteste e rivolte, sono solo il 10% della popolazione. Il che vuol dire 6 sparuti milioni. Di cui il 28,9% sono disoccupati. Molti, dal nostro punto di vista. Pochissimi dal punto di vista di un maghrebino, dove in certe aree la disoccupazione giovanile supera il 70%.

Al Jazeera: «In pictures: Egypt in Turmoil»

President Obama on the Situation in Egypt