Archivi tag: donne

Riforma del lavoro: ci basta?

E al capo V del disegno di legge di riforma del mercato del lavoro, sotto la voce “ulteriori disposizioni”, arrivano le voci rubricate come “donne”: dimissioni in bianco, figli, baby sitter. Troppo poco? Un primo segno? Né l’uno né l’altro. Perché per capire quello che la riforma significa per le donne, conviene guardare al tutto, non solo al ripristino del contrasto alle dimissioni in bianco, al mini-mini congedo di tre giorni continuativi di paternità obbligatoria, e ai buoni per pagare le baby sitter invece di prendersi le aspettative facoltative per maternità.

Barbie che lavora

Togliamo subito di mezzo il Moloch: l’articolo 18 e l’accordo finale che lo ha avuto ad oggetto. Non perché non conti: sotto la voce “economici” potevano passare anche i licenziamenti discriminatori. Adesso i pesi sono stati un po’ riequilibrati, si sono rafforzate le tutele in uscita, buttando la palla nel campo dei giudici. Ma tutto questo dibattito ha continuato a oscurare l’altra faccia della riforma, la questione dell’entrata al lavoro. Su questo ci vogliamo concentrare. Perché a noi interessano quelle che l’art. 18 non ce l’hanno e non lo avranno mai, le non-posto-fisso, senza tutele. Era per loro la riforma, no? Allora qualche numero, e i nostri quattro punti.

Uno. Non tutti i disoccupati sono uguali. Ci sono quelli che hanno appena perso un lavoro e quelli che invece cercano il primo lavoro, o escono da un periodo in cui (vuoi per scoraggiamento, vuoi per altri accidenti della vita, tra i quali – per dire – un figlio) non l’avevano e non l’hanno cercato. Tra i primi (disoccupati ex-lavoratori) i maschi sono la maggioranza: 56%. Nel secondo gruppo (nuovi entranti sul mercato del lavoro) primeggiano le donne: 63%. (dati Istat, riportati nell’articolo di redazione di inGenere.it “Lavoro, una riforma che guarda al passato”). Tutti gli ammortizzatori sociali oggi esistenti sono per il primo gruppo, gli ex. Motivo forte per sperare nella riforma. Che però non prevede niente per i nuovi entranti: hai un’indennità, di qualche tipo, in caso di disoccupazione, solo se hai perso un lavoro.

Due. Anche quelli che hanno perso un lavoro non sono tutti uguali. Ci sono i tempi indeterminati, quelli del posto fisso, poi i tempi determinati, posto a termine ma comunque da dipendente, e tutti gli altri, i precari (co-co-pro, partite Iva, prestatori occasionali, ecc). La riforma allarga le tutele solo ai dipendenti, rispetto a prima quel che cambia è che ci sono gli apprendisti e gli artisti. Per loro sarà l’Aspi. Mentre la mini-Aspi rafforza un po’ la vecchia “disoccupazione a requisiti ridotti”, ma ancora una volta riguarda solo quelli che escono da un lavoro dipendente (e hanno almeno 2 anni di contributi versati). Rimangono invece esclusi da qualunque tutela “tutti gli altri” e le donne – manco a dirlo – sono qui le più numerose. Una ricerca Isfol ha, infatti, calcolato che tra i lavoratori “non-standard” ci sono più donne che uomini. Se poi si va a guardare per fasce d’età troviamo che è sotto i 40 anni che c’è la maggiore disuguaglianza tra uomini e donne con un’alta concentrazione di precarie. Lo confermano anche i dati Inps sulla gestione separata. Discriminazione per fertilità? A questo proposito, nella riforma non c’è traccia dell’assegno di maternità universale, cavallo di tante battaglie (si veda la proposta elaborata dal gruppo Maternità e paternità).

Tre. Quel che c’è sono alcuni paletti e vincoli all’uso dei contratti precari. Che daranno più rogne amministrative e costeranno di più. I contributi per gli atipici infatti salgono, e parecchio: per i co-co-pro arriveranno al 28% l’anno prossimo e al 33% nel 2018. Se le imprese saranno costrette a pagare i contributi ai co-co-pro quasi quanto quelli dei dipendenti, alla fine potrebbero trovare conveniente assumerli, dice il governo. Ma il ragionamento cade se questi contributi, formalmente a carico dei datori di lavoro, alla fine saranno scaricati sui precari stessi, abbassando il loro compenso netto. Lo dicono i precari dell’associazione Tutelare i lavori, e lo ha scritto Tito Boeri: “In assenza di un salario minimo, nel caso di lavoratori a progetto e altri lavoratori parasubordinati, il maggiore carico contributivo potrà facilmente essere fatto pagare al dipendente sotto forma di salari più bassi. I lavoratori parasubordinati stanno già ricevendo lettere dai datori di lavoro in cui si annunciano riduzioni del loro compenso nel caso di riforme che aggravino i costi delle imprese”. Morale: i precari avranno contributi più cari senza nessuna tutela in più.

Quattro. Eccoci alla voce “ulteriori”, zona donne. La legge contro le dimissioni in bianco, abolita dal governo Berlusconi nel 2008, prevedeva che le dimissioni volontarie potessero essere firmate solo su particolari moduli degli uffici del lavoro, numerati e datati: in questo modo si poteva evitare la pratica, appunto, della firma preventiva su fogli bianchi senza data. Procedura troppo complicata, secondo il governo, che ne ha predisposto un’altra (v. art. 55 del ddl): salutiamo la buona notizia, sperando di essere finalmente passate dal simbolo alla realtà. (Anche se qualcuno teme che alla fine i datori di lavoro colpevoli di aver fatto firmare le dimissioni in bianco possano cavarsela solo con una multa: ma su questo, sarà opportuno aspettare i dettagli tecnici del testo e analisi più approfondite). Mentre è di certo solo un simbolo l’art. 56, quello sui congedi obbligatori di paternità: tre giorni in tutto, “anche continuativi”, di cui due “in sostituzione della madre”. Alcuni contratti di lavoro già prevedono congedi di paternità, ma sarebbe la prima volta che ne viene introdotto, per legge e in Italia, l’obbligo. E questo è un passo avanti. Ma così piccolo e così puramente simbolico da poter sembrare quasi un inciampo. Ovunque si discuta seriamente di congedi di paternità, si va ben oltre la soglia – abbastanza risibile – dei tre giorni (si veda questo dossier). Forse consapevole del fatto che le misure proposte sono poca roba, il ministro Riccardi si appresta a rafforzare il pacchetto “congedi” nell’iter parlamentare, mettendoci dentro anche quelli per i nonni: perché allora non preparare in parlamento un assalto trasversale al congedo di paternità, portandolo da 3 a 15 giorni?

Insomma, il primo atto del governo Monti-Fornero ha aumentato l’età della pensione: nuove regole per tutti ma con effetti prevalenti sulle donne. Dal secondo atto – la grande riforma del mercato del lavoro – era lecito aspettarsi una fase due un po’ women friendly, dato che la titolare del lavoro ha anche le pari opportunità, dato che le analisi sull’aumento del Pil che può portare il lavoro femminile si sprecano, dato che il vecchio sistema degli ammortizzatori sociali era studiato sul maschio-adulto-e-garantito. E invece, di gender mainstreaming nella riforma non c’è traccia (si veda anche l’analisi di Snoq). Finisce che portiamo a casa solo un articoletto che, ben che vada, impedisce di buttarci fuori quando abbiamo la pancia. Ci basta?

Questo articolo è pubblicato in contemporanea da Roberta Carlini, InGenere, Manuela Mimosa Ravasio, Loredana Lipperini, Supercalifragili, Marina Terragni, Giorgia Vezzoli.

Le blogger che condividono questo post pubblicano periodicamente thread comuni, in particolare sul tema della rappresentazione pubblica della donna e su quello della rappresentanza politica.

«Se non ora quando» a Siena: tre cose che mi sono piaciute e tre no

Non ho potuto andare a Siena per «Se non ora quando» perché avevo già preso un impegno per il «Salone della parola» a Pesaro, ma da sabato pomeriggio ho seguito la manifestazione in streaming sul web.

Mi sono piaciute:

  1. La comunicazione: gli spot che sono andati in onda sabato, nel primo pomeriggio, mi sono sembrati semplici, incisivi, ottimisti. Peccato non siano ancora su YouTube. Spero ci arrivino in fretta, che vorrei rivederli e analizzarli.
  2. La plurivocità: oltre alle organizzatrici, alle donne con cariche istituzionali e politiche, alle celebrità, sono salite sul palco decine di donne provenienti da tutta Italia, per dire la propria in 3 minuti, anche senza rappresentare niente e nessuno, solo se stesse.
  3. La mille volte dichiarata volontà di fare rete, includere, unire, per superare le divisioni e i settarismi che contribuirono a far arenare, a suo tempo, il femminismo storico italiano. Spero che alle parole seguano i fatti.

Non mi è piaciuto:

  1. Che ci fossero pochi uomini. Alcuni c’erano, li ho visti bene. Ma erano troppo pochi per una che, come me, crede che sui problemi delle donne si dovrebbero mobilitare tutti i generi sessuali, non solo le donne. Sono problemi che riguardano tutta la società e l’economia italiana, dunque le donne non bastano.
  2. Che molti discorsi – troppi, per i miei gusti – contenessero tante dichiarazioni di principio, slogan, racconti personali e collettivi, ma tutto sommato poche proposte concrete, liste di cose da fare, obiettivi da raggiungere a breve, medio e lungo termine. Negli anni Settanta il movimento femminista italiano vinse – non da solo, assieme ai partiti e agli uomini – su obiettivi concreti come l’aborto e il divorzio. Poi svaporò. Per non fare la stessa fine ci vuole un’agenda di obiettivi precisi e concreti, subito.
  3. Che a rappresentare le donne di destra ci fossero solo Giulia Bongiorno e Flavia Perina. Quest’ultima, peraltro, si è beccata pure qualche fischio. Ma scherziamo? La questione femminile non è proprietà privata della sinistra, ma riguarda tutti i partiti, gli schieramenti e le ideologie.

Per questo concordo con Giulia Bongiorno quando dice: «Le donne non devono più votare singolarmente per destra, sinistra, centro, ma per quei partiti che mettono al centro della politica i temi femminili». E quali sono, questi partiti? incalza l’intervistatore. «Per ora nessuno – risponde lei – ecco perché ci vuole un grande cambiamento».

Giulia Bongiorno per Repubblica:

 

 

Rita Levi Montalcini: le donne, la ricerca, il futuro

Durante Rita 101+, la maratona sul web organizzata il 21 aprile scorso da Altratv.tv e Ipazia Promos per i 102 anni di Rita Levi Montalcini, è stato trasmesso per la prima volta un documento eccezionale, che risale alla fine del 2009, quando la grande scienziata aveva 100 anni e si trovava in Israele.

In circa 5 minuti Rita risponde alle domande di sei giovani ricercatrici provenienti da tutto il mondo, inclusa l’Italia.

Il video è bello, intenso, sorprendente.

Anticipo due soli passaggi: «Non ho affrontato la vita come una scienziata, ma come un’artista» e «La vita non finisce con la morte, quello che resta di te è ciò che trasmetti ad altre persone. Non m’importa di morire. La cosa più importante è il messaggio che lasci agli altri».

Goditelo con calma, come me lo sono goduto io. Fino alla commozione.

Grazie alla Fondazione EBRI (tutti i diritti riservati).

Festa della donna con strip maschile

Oggi si terranno manifestazioni, sit in, eventi in oltre 50 città italiane: tutti per protestare contro la mancanza di parità di genere e chiedere soluzioni ai problemi delle donne italiane. Mentre mi chiedo quanto risalto mediatico otterranno – vedi Dieci cose da ricordare quando si scende in piazza – faccio una rapida ricognizione sul modo più diffuso di festeggiare l’8 marzo in Italia, quello che da una ventina d’anni invade centinaia di discoteche, pub, ristopub, discodinner o come si vogliono chiamare: la cena fra amiche con striptease maschile.

Prima osservazione: l’immaginario costruito attorno a queste serate è smaccatamente maschile. Talmente maschile da essere gay.

Seconda osservazione: riti come questi hanno sicuramente contribuito a sedimentare, negli anni, l’illusione che la parità fra uomini e donne sia stata del tutto raggiunta e che le italiane siano autonome, spregiudicate, emancipate. Se si divertono a partecipare a uno strip maschile, vorrà dire che sono proprio come gli uomini, no?

Illusione che sono innanzi tutto le donne a coltivare e difendere: vanno alla festina con strip, mettono una banconota da cinque euro negli slip dello strip-man di turno, ridono come matte fra loro, toccano lo spogliarellista, si fanno toccare e c’è pure chi va oltre, se se lo può permettere. Col che dimenticano, per una sera, di essere pagate meno del collega di pari grado, di non aver mai fatto carriera, di non avere figli perché l’asilo costa troppo o non c’è, di avere un marito che, al contrario, fa sempre tutto quello che gli pare e piace.

Non ho nulla contro questo modo di festeggiare, beninteso: ognuna è libera di divertirsi come crede. E in una società realmente paritetica (Islanda, Finlandia, Svezia e così via) tutto ciò avrebbe un altro senso. Ma in Italia?

Bologna:

Bologna, Italian do it better

Formigine, Modena:

Modena, Mamma Orsa

Milano:

Milano

Napoli:

Napoli

Catania:

Catania

Aggiornamento «Il corpo delle donne 2»

Aggiornamento del post di ieri: il video «Il corpo delle donne 2» è stato disponibile per qualche ora su YouTube, ma è stato subito rimosso «per una violazione della norma di YouTube sui contenuti di natura sessuale o nudità» (secondo la dicitura standard di YouTube). Curiosa motivazione, visto che il documentario è andato in onda su Canale 5: YouTube censura nudi che Canale 5 ritiene presentabilissimi?

Ora puoi vederlo solo sul sito di Striscia la notizia, seguendo questo link: Striscia la notizia: Il corpo delle donne 2.

Per completare il quadro, guarda anche la risposta alle polemiche in rete da parte di Antonio Ricci e dei suoi collaboratori, per bocca di Ezio Greggio e Michelle Hunziker, che è andata in onda ieri sera, durante Striscia la notizia. Gli autori di Striscia hanno ritenuto di dover «spiegare meglio» il significato del documentario: Striscia la notizia spiega «Il corpo delle donne 2».

Impliciti: le povere «veterofemministe», le giornaliste di Repubblica che non si sono mai ribellate, i «progressisti» non capiscono le nostre buone intenzioni e gliele spieghiamo meglio.

Io credo piuttosto che gli autori di Striscia stiano semplicemente dimostrando qualcosa che in parole povere si chiama «coda di paglia».

😀

Ma ci torneremo, con più dettagli.

 

I quotidiani e le donnine in prima pagina

Da tempo sono in molti a lamentarsi della contraddizione delle maggiori testate giornalistiche nazionali: ospitano articoli che denunciano i problemi delle donne italiane, lo sfruttamento del corpo femminile, il velinismo eccetera, ma li incorniciano – quasi tutti i giorni – con immagini che espongono nudità o seminudità femminili.

Che si tratti di scelte redazionali o di annunci pubblicitari, per i lettori il risultato è lo stesso. Per il quotidiano no: della scelta redazionale potrebbe – forse – fare a meno. Senza pubblicità non può vivere, specie negli ultimi anni, in cui le vendite del cartaceo continuano a calare. Ma anche la scelta redazionale della donnina senza veli in prima pagina, meglio se adolescente (ricordi la spaccata di Yara Gambirasio?), è sempre motivata dalla speranza di vendere più copie.

Peggio ancora sul web, dove in bella evidenza sulla home page dei principali quotidiani italiani le nudità femminili stanno sempre ai primi posti delle gallerie fotografiche più cliccate. Anche sul web il criterio è sempre economico: più il sito è cliccato, più si alzano le quotazioni degli spazi pubblicitari.

D’altra parte, dicono i responsabili marketing dei giornali, che la gente clicchi molto i nudi femminili e compri più volentieri il giornale con le donnine in prima pagina è un dato: noi che possiamo farci? Volete forse che il giornale licenzi o pre-pensioni altri dipendenti, come già è ampiamente accaduto, anche se i media, per ovvie ragioni, non ne parlano? E come al solito, non se ne esce.

Capisco.

Però qualche regola, sia le testate giornalistiche sia le aziende che acquistano il loro spazi pubblicitari, potrebbero darsela. Specie in questo momento storico, in cui la sensibilità sui problemi delle donne italiane si è acuita molto. In Italia e all’estero.

Esempio di regola: se i fatti di cui si parla in prima pagina sono particolarmente tragici, con centinaia di morti al giorno come sta accadendo ora in Libia, non è opportuno, né vantaggioso per l’immagine del giornale e dell’azienda inserzionista, circondare gli articoli con annunci stampa pieni di tette e culi.

Guarda invece come si presentava il sito web di Repubblica lunedì 21 febbraio. E a proposito di sensibilità: per denunciare la schifezza, a me sola sono arrivate in un giorno ben 18 mail, da studenti maschi e femmine, da lettrici e lettori di tutta Italia. Perciò chiedo ai giornali e alle aziende: non sarebbe ora di smetterla? (clic per ingrandire)

——–

Aggiornamento del post.

Giorgia Vezzoli mi segnala che su Facebook è stata avviata questa iniziativa, che mi era sfuggita (perdono!): Chiediamo coerenza a chi difende la dignità della donne. E che ieri, sul suo blog, aveva trattato l’argomento: Chiediamo coerenza: videomessaggio a Repubblica e Se Non Ora Quando.

Chiedo scusa, davvero: le segnalazioni che ricevo su questi temi sono ormai moltissime. E anche le iniziative, in rete, si moltiplicano. A volte qualcosa mi sfugge. Ma il fatto che le iniziative si moltiplichino è una bella cosa! 🙂

Repubblica home page 21 febbraio 2011

Le piazze del 13 febbraio: una rondine farà primavera?

Ieri le piazze di circa 200 città italiane e di una trentina nel mondo hanno risposto all’appello «Se non ora, quando?».

L’evento è andato bene, dal punto di vista comunicativo, per questa semplice addizione: molte polemiche prima delle manifestazioni + molte persone in molte piazze (relativamente agli standard italiani) = molta attenzione mediatica.

In transito fra Firenze e Bologna, ho fatto in tempo a vedere le piazze di entrambe le città. Poi, un paio d’ore fra internet e la tv mi hanno permesso di completare il quadro.

Credo che ieri le piazze abbiano mostrato alcune novità importanti:

  1. in nome della dignità femminile hanno sfilato – finalmente! – molti più uomini di quanti se ne siano mai visti nelle manifestazioni di stampo vetero e neofemminista;
  2. in nome della dignità femminile non sono scese in piazza solo donne abitualmente impegnate sulle questioni di genere, ma persone di tutte le età, estrazioni sociali, provenienze;
  3. molti slogan dei manifestanti e dichiarazioni sui palchi erano appelli alla diversità: delle idee, degli stili di vita, dei corpi, dei modelli per le donne;
  4. molti slogan e commenti dei manifestanti esprimevano un buon livello di consapevolezza sui motivi per cui erano lì.

Sono tutti ottimi segnali, ma prima di cantare vittoria sulla nuova sensibilità del nostro paese per i problemi reali delle donne (disoccupazione, stipendi più bassi degli uomini di pari ruolo, scarsissima rappresentanza nei poteri economici e politici) vorrei vedere tutto ciò replicato in altre dieci, cento, mille iniziative.

Non solo replicato, ma intensificato: più uomini, sempre più uomini a fianco delle donne nel combattere per la parità di genere; e ancora più trasversalità e diversità di quante ne ho viste ieri: a parte sporadiche eccezioni (Giulia Bongiorno a Roma, Sara Giudice a Milano), la destra non c’era, per esempio.

Quanto alla consapevolezza, anche su quella c’è ancora molto da lavorare. La mobilitazione «Se non ora, quando?» è stata infatti troppo intrisa di antiberlusconismo perché questo non abbia confuso le acque. Detto in parole povere: quante donne, quanti uomini fra quelli che ieri hanno sfilato sarebbero scesi in piazza, se al posto di «Berlusconi dimettiti» e «Porco!», ci fossero stati slogan come «Più donne nei consigli di amministrazione» e «Quote rosa in parlamento»?