Ieri su Repubblica Bologna è uscito questo mio pezzo, col titolo «Quando la politica e il candidato vanno a caccia dello slogan»:
Facciamo un gioco: mettiamo assieme tutti gli slogan politici che sono sparsi per Bologna e vediamo l’effetto che fa. Be’ non proprio tutti: con dodici candidati sindaco (dimentico qualcuno?), più le elezioni europee faremmo notte. Mi limito ai sindaci che si vedono di più.
Cominciamo da destra. «Onestà, competenza e amore per Bologna» dice Guazzaloca; Cazzola invece si autoproclama «Il sindaco del fare» e sbandiera «L’energia delle nuove idee». Uhm. Mi viene in mente che lo slogan della «Tua Bologna», che sosteneva Guazzaloca nel 2004, era «La parola ai fatti». Forse Cazzola gli ha soffiato i fatti? Non proprio. Il punto è che ormai tutti i politici si rappresentano come uomini del fare: chi mai vorrebbe un parolaio? E allora Guazzaloca ha cercato altrove, restando però sul generico: quale candidato negherebbe di essere onesto, competente e amare Bologna? «Riaccendiamo Bologna» dice infine Morselli, presupponendo che sia spenta. Resta da capire dove stanno il buio e la luce, naturalmente.
Vediamo a sinistra. Qui, per catturare l’attenzione, si è cercato il gioco di parole. «C’è Delbono a Bologna» punta sul cognome del candidato per tirare fuori tutto il bene possibile dagli stereotipi bolognesi: il buon senso (sulla faccia di Delbono e su una nonna con la nipotina); le buone relazioni (con due ragazzi che si baciano); il buon vivere (con una sfoglina sorridente); la buona sanità (con tre operatrici sanitarie e tre neonati). Poi c’è «la Bologna che vince» della Ducati: non si parla più di bontà ma non importa, abbiamo capito. Anche gli slogan di Delbono potrebbero funzionare per qualunque candidato; ma il gioco sul cognome è possibile solo con lui, ed è questa la forza della campagna.
Pasquino non ha potuto puntare sul cognome, ma ha ugualmente cercato il doppio senso, proponendo un sindaco «che fa bene a Bologna», dove la città è sia luogo che beneficiaria. Monteventi, dal canto suo, vuole una Bologna libera da molte cose: dall’inquinamento, dall’ignoranza, dalla precarietà, dalle ingiustizie e da altro che ora mi sfugge. Giuseppina Tedde, infine, sottolinea la diversità del suo essere donna e chiama «Altra città» la sua lista civica, ripetendo il concetto nei manifesti: «La diversità è Altra città».
Ma perché questa carrellata? Per simulare su carta quello che la gente prova per strada: se va bene indifferenza, se va male nausea e rifiuto. Parole parole parole, diceva la canzone. Insomma, quest’anno i politici locali (come quelli nazionali) sembrano ammalati di sloganite. Anche a sinistra, che di solito non lo facevano. Credo sia colpa di Obama. Anch’io voglio comunicare come lui, devono aver pensato. Al che, ognuno si è industriato come ha potuto, a seconda dello staff e dei soldi che aveva.
Il problema è che gli slogan non bastano. Neppure se sono arguti. Per cominciare, ci vogliono contenuti e programmi chiari, semplici e ben calibrati sulla realtà. Poi bisogna saperli comunicare, certo, ma non basta moltiplicare slogan e affissioni: occorre coinvolgere i cittadini nella costruzione dei programmi, farli discutere, partecipare. E per ottenere questo bisogna sapersi muovere in una grande varietà di mezzi e modi: dalle apparizioni tv ai discorsi in piazza, da Internet (sito, blog, facebook) alle visite nei quartieri.
È questo il senso profondo della lezione di Obama: la buona politica oggi funziona così, multimediale e multimodale. Multitutto. E confrontare i nostri candidati con Obama non è mischiare la lana con la seta: anche i bolognesi – ci scommetto – sceglieranno il sindaco che con più perizia, passione e coerenza sarà andato in quella direzione.