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Do you speak English?

Dopo aver rilevato l’ennesima difficoltà dell’ennesimo/a studente/ssa con la lingua inglese, copio e incollo un intervento di Tullio De Mauro sull’Internazionale del 19 febbraio 2009.

Do you speak English?

Il vantaggio dell’inglese come lingua straniera è forte in tutta Europa

Anni fa un volenteroso linguista americano intervistò parecchi italiani. “Sai l’inglese?”, chiedeva. In maggioranza gli risposero candidamente: “No, l’ho studiato a scuola”.

Dal 2001 Eurobarometer censisce le conoscenze di lingue straniere tra gli europei adulti. Nel 2005 sono saliti al 56 per cento quanti conoscono almeno una lingua straniera e al 28 per cento quelli che ne conoscono due. Sono scesi al 44 per cento quelli che non ne conoscono.

Le maggiori percentuali di incompetenti, lasciando da parte irlandesi e britannici (66 e 62 per cento), si trovano tra turchi (67), rumeni (47), spagnoli (44), ungheresi e portoghesi (42), italiani (41). Gli italiani che parlano almeno una lingua straniera dichiarano che l’inglese è quella che usano meglio conversando (29 per cento), seguita dal francese (14 per cento).

Il vantaggio dell’inglese come lingua straniera è forte in tutta Europa, lo usa il 38 per cento, contro il 14 che usa francese o tedesco. Tedesco e russo, con l’allargamento dell’Europa a 25, hanno rafforzato la loro posizione. Quasi la metà di chi sa usare l’inglese lo pratica ormai quotidianamente e con più scioltezza.

Per chi sa lingue straniere la fonte maggiore di apprendimento è dappertutto la scuola: la secondaria superiore per il 59 per cento, la primaria per il 24 per cento. Solo a grande distanza, per ora, seguono internet, spettacoli e studio privato.

L’indicazione di studiare due lingue straniere fin dalle elementari, introdotta in Italia nel 2001, è stata ora abrogata. Protestano l’associazione di insegnanti Lend e gli istituti stranieri di cultura.

Internazionale 783, 19 febbraio 2009

E tu come sei messo/a?

Cosa hai fatto, cosa stai facendo e cosa farai per il tuo inglese?

L’arte del commento

Diverse amiche e amici blogger si complimentano spesso con me per la qualità e pacatezza dei commenti di questo blog: «Ma che lettori educati…», «Intelligenti!», «Ma sono tutti così, i tuoi studenti?», «Non ti è mai capitato nessun matto? Nessun flaming?». Ebbene, una fiammata l’ho avuta anch’io; una sola in 14 mesi, però. Poco e niente, mi assicurano. Fortunata? Bah.

Non lo dico per lusingare chi commenta questo blog. Lo dico perché ho appena letto un articolo di David Randall su Internazionale (pescato grazie a Donatella). Randall è senior editor del settimanale londinese Independent on Sunday – e ho avuto, fra l’altro, occasione di ascoltarlo in uno splendido intervento durante il Festival di Internazionale a Ferrara nell’ottobre 2008.

Penso che ciò che lui dice sui lettori delle grandi testate giornalistiche possa essere riferito, in piccolo, anche alla blogosfera. E credo che la «qualità e pacatezza» dei commenti di questo blog possa essere compresa, in molti casi, proprio nei termini di Randall: chi passa di qui aggiunge spesso – per mia fortuna e felicità – nuove informazioni.

Grazie. 😀

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PARLARE CON I LETTORI, di David Randall

Chiediamo ai lettori di mandare informazioni e non di esprimere opinioni

Internazionale 784, 26 febbraio 2009

La Nieman Foundation per il giornalismo dell’Università di Harvard pubblica una rivista trimestrale. Nell’ultimo numero ci sono una serie di appassionati articoli su quello che la stampa può fare per entrare nel futuro digitale. Un’idea sembra aver contagiato tutti: che il giornalismo debba diventare un dialogo, che i quotidiani del futuro debbano essere una conversazione tra giornalisti e lettori, grazie alle reazioni immediate permesse dalla rete.

È una proposta affascinante, ma temo sia frutto di un malinteso. Sia sulla carta stampata sia su internet, i commenti dei lettori sono di due tipi: o sono diretti ai giornalisti o sono scritti per essere pubblicati. Poche persone telefonano in redazione, ma un numero sorprendente di lettori scrive, di solito per raccontare esperienze personali o per criticare.

A me capita anche di ricevere due o tre lettere al mese da persone che avrebbero bisogno di essere curate o rinchiuse. Di solito la busta è coperta di nastro adesivo, l’indirizzo è scritto tutto in maiuscole, e il mittente è convinto di essere spiato dalla Cia. Oppure arrivano cose inquietanti come la foto di una sedia vuota, che mi hanno spedito varie volte l’anno scorso.

La maggior parte delle email che ricevo vengono da aziende che cercano di ricavare dei vantaggi da una notizia di cronaca. La proposta più sfacciata l’ho ricevuta l’anno scorso dopo aver scritto un articolo su Josef Fritzl, l’austriaco che aveva tenuto la figlia segregata in cantina per anni. L’ufficio stampa di un’impresa mi ha suggerito di continuare a occuparmi dell’argomento con un articolo sui loro prodotti per la sicurezza personale. Ho cortesemente rifiutato.

Tra le lettere e le email che vengono scritte per essere pubblicate, il 70 per cento è intelligente e ben argomentato, il 20 è poco originale e il restante 10 per cento contiene informazioni sbagliate o è scritto male. Ma la caratteristica che le accomuna, dato che sono firmate, è che sono quasi tutte garbate e civili. Non si può dire la stessa cosa dei commenti scritti nei siti dei giornali e delle riviste. Internet consente alle persone di scrivere in modo aggressivo e irrazionale, ma soprattutto, anonimo.

Qualche tempo fa abbiamo pubblicato un articolo sulla proposta di limitare la vendita dei televisori al plasma perché consumano troppa energia. Splendido, ho pensato. È una buona occasione per dedicare un paio di pagine alle reazioni dei lettori. E poi ho cominciato a leggerle. Non c’erano più di sei commenti utilizzabili: gli altri erano scambi di insulti tra persone che negavano il problema del riscaldamento globale ed ecologisti altrettanto maleducati.

Ho chiesto ai nostri tecnici di scoprire da dove provenivano. Arrivavano quasi tutte dall’Australia e dall’America e, a quanto pare, non cercavano un forum di discussione ma un’arena in cui i monomaniaci di tutto il mondo potevano insultarsi. Suppongo che anche questa sia democrazia, ma una democrazia da idioti. E non è un caso isolato. Nessun giornale inglese, e neanche la Bbc, solleciterebbe mai dei commenti sugli articoli che parlano di Israele: non perché vogliano soffocare il dibattito, ma perché argomenti come questo attirano soprattutto le persone che passano buona parte della loro vita a cercare un posto dove esprimere le loro idee faziose.

Un mese fa l’Independent on Sunday ha pubblicato un articolo del nostro corrispondente da Roma sulla decisione di Benedetto xvi di revocare la scomunica al vescovo inglese che nega l’Olocausto. Appena l’articolo è uscito sul sito, sono arrivati centinaia di messaggi di persone convinte che le camere a gas non siano mai esistite e che sia in corso un complotto sionista per tenere nascosta questa “verità”. E gli altri messaggi accusavano il papa di essere l’Anticristo.

Che fare? L’Independent on Sunday sta sperimentando un sistema in cui i lettori si devono registrare prima di mandare un commento. Sembrava una buona soluzione, e invece abbiamo scoperto che molti di quelli che si sono registrati non sono nostri lettori, ma esaltati che passano la vita a scrivere ai giornali.

Le cose sono andate molto meglio quando abbiamo chiesto ai lettori di mandarci informazioni invece di opinioni. L’anno scorso ho pubblicato due lunghi servizi. Uno era il contrappunto alle squallide liste di persone ricche e famose che spesso ci capita di leggere ed elencava invece cento persone che si sono distinte per il loro altruismo.

L’altra era la lista dei cento segreti meglio custoditi della campagna inglese. In entrambi i casi ho chiesto ai lettori di mandarmi altri suggerimenti, e il risultato è stato diverso dal solito. Abbiamo ricevuto centinaia di proposte intelligenti e originali, e molte sono state usate come base per articoli pubblicati sul giornale nelle settimane successive.

Questo, secondo me, è il modo ideale per usare internet: chiedere ai lettori di contribuire al lavoro dei giornalisti, invece di criticarlo. È un’impresa difficile, ma è meglio che sollecitare semplici commenti. Non è un dialogo con i lettori, ma una collaborazione: e questo secondo me è uno dei segreti per usare bene la rete.

(Internazionale 784, 26 febbraio 2009).

Apple sì, ma senza esagerare

Sto passando a Mac: decisione per me epocale. Non è per darmi un tono da graphic designer (giacché tengo un corso a Disegno industriale), ma perché non ne posso più di virus, blocchi, ingolfamenti e resettamenti. Tutti dicono che su Mac non accade (bah, vedremo); inoltre, quando mi hanno proposto Microsoft Vista, ho detto basta.

Però non voglio finire col sopracciglio alzato ogni volta che passa un Pc.

Per questo ti propongo questo divertente articolo di Alex Pareene, editor di Gawker.com, un blog molto sarcastico su gossip e notizie a Manhattan. L’ho trovato tradotto in italiano su Internazionale. Ma lo posto soprattutto come memento per me, casomai mi venisse, un domani, la tentazione di alzare il naso.

Eccolo, copiaincollato da Internazionale, 18/24 aprile 2008, n. 740. Ma leggilo in inglese, che è ancora più carino (Apple fetishists: grow up).

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“Apple fetishists: grow up”, di Alex Pareene (Gawker.com)

Karl Rove ama il suo iPhone. Lo usa in continuazione! Ha anche ammesso di possedere un MacBook Air, un portatile che si distingue per una sola qualità: potete metterlo in una grande busta da lettere. Quel tiranno radiofonico di Rush Limbaugh, invece, ha dovuto chiedere alla Apple di aiutarlo a sistemare il suo nuovo computer.

I profeti preferiti degli americani amano il design sottile e la semplicità dei prodotti Apple. Quei criptofascisti: sono proprio come noi! E questo ci porta a una preghiera: possiamo, per favore, smetterla una volta per tutte con questo falso mito per cui la Apple avrebbe un fascino particolare che la rende un’azienda fichissima?

La Apple è una gigantesca fabbrica di tecnologia. Quindi sta uccidendo il pianeta! I computer, i processori, le batterie e i telefonini sono pieni di veleni, e finiranno tutti sotto terra. Certo, l’azienda di Steve Jobs ha detto che riciclerà il vostro vecchio computer se promettete di comprarne uno nuovo. Da loro, però. E pensare che nel consiglio d’amministrazione c’è Al Gore!

La Apple ha anche lanciato qualche iniziativa aziendale con la parola “verde” nel nome, proprio come la General Electric. Per non parlare del suo negozio online, iTunes, pieno di file protetti per evitare le copie pirata. Oppure della sua abitudine di costringere i blogger che parlano dell’a­zienda a rivelare le loro fonti citandoli in giudizio, e di tutte le altre cazzate con cui attirano l’attenzione dei blog tech-alternativi come Boing Boing.

Feist e la Bauhaus

Ormai i prodotti della Apple sono solo degli accessori: paghi un po’ di più per un portatile senza lettore dvd solo perché c’è il logo e il tuo mouse ha un solo tasto perché Apple pensa che i suoi utenti non siano capaci di usarne due.

Molte cose supertrendy costano più della concorrenza, ma spesso sono decisamente migliori: i Levi’s da duecento dollari sono più robusti di quelli da sessanta. Con i prodotti Apple, invece, spendi di più per un portatile senza porta usb e così lucido da sembrare una piastrella per il bagno.

Bisogna ammettere che il loro sistema operativo è intuitivo ed estremamente semplice da usare. In più ha una bella grafica e spesso funziona. Ecco perché è perfetto per vostra nonna! Preferirà senz’altro usare il Mac invece di provare a installare Firefox su Windows Xp.

Ma queste cose non verrete mai a saperle da qualcuno del reparto marketing della Apple, che sembra adulare solo i consumatori più cosmopoliti. Designer! Fan dell’indie rock! Ragazzi con le sneaker! Questi prodotti sono stati creati per voi, perché Apple pensa che siate degli idioti!

Sono due anni ormai che ce lo dimostrano con quegli stupidi spot “I’m a Mac”. Tu sei un Mac! Tu sei uno sgradevole e insopportabile fighetto! Il pc è uno spirito brillante e un bravo scrittore. Ma porta la cravatta, guarda un po’, e quindi è uno sfigato. La Apple ha insultato la vostra intelligenza fin dall’inizio: ricordate il famoso spot lanciato durante il super bowl del 1984?

È da idioti pensare che sia un gesto ribelle spendere un sacco di soldi per un computer, quando puoi comprarne un altro a meno che funziona altrettanto bene. Almeno hanno abbandonato lo slogan “Think different”: faceva venire voglia di sganciare dal continente l’intera West coast e mandarla alla deriva nell’oceano.

Ma noi non odiamo i Mac. Pensiamo che l’iPhone sia un oggetto per stronzetti che funziona meglio del BlackBerry, abbiamo un iPod e ammettiamo senza alcuna difficoltà che comprare un pc con il sistema operativo Vista è un errore madornale (però se si torna a Windows Xp tutto va bene!).

Ma siamo stufi di chi è convinto che siccome qualche leccapiedi del marketing ha fatto ascoltare al capo la musica di Feist o un designer della Apple ha sentito parlare di Bauhaus, allora la Apple sia un’azienda più creativa e liberale, che so, della Dell. Almeno la Dell non ci tratta come dei cretini.

Nera come l’ebano, ma con i jeans gialli

Ti ricordi la riflessione di Zadie Smith sugli stereotipi, di cui parlavamo qualche post fa?

Diceva Zadie che usare uno stereotipo in letteratura “significa assecondare un’interpretazione scontata, prendere una scorciatoia, riproporre qualcosa di comodo e di familiare invece di osare qualcosa di vero e insolito. È un fallimento estetico ed etico: in parole semplici, significa non dire la verità.” (Zadie Smith, “Il fallimento riuscito”, Internazionale 725, 28 dicembre 2007, p. 10).

A me pareva invece che un uso calibrato (difficile, eh!) di alcuni stereotipi è necessario quando si scrive, perché rende più immediata la comprensione di un testo scritto.

Ho riletto da poco Denti bianchi. Tutti sanno che una delle cose più difficili è descrivere qualcosa senza annoiare. Un paesaggio, un oggetto, un personaggio: ne parli un po’ e, zac, la palpebra del lettore cala.

Le descrizioni di Zadie, al contrario, ti restano impresse nella retina come certi colori quando chiudi gli occhi.

Questa è Clara, protagonista di Denti bianchi, nell’istante in cui incontra Archie (che dopo sei settimane sposerà):

“Clara Bowden era bella in tutti i sensi, tranne forse nel senso classico, dato che era di colore. Clara Bowden era meravigliosamente alta, nera come l’ebano e la pelle di zibellino, con i capelli acconciati in una coda di cavallo che puntava in su quando Clara si sentiva fortunata, e in giù quando era depressa. In quel momento era in su. È difficile stabilire se questo fu significativo.

Clara non aveva bisogno di reggiseno – era indipendente persino dalla legge di gravità – indossava un maglioncino che le arrivava sopra la vita, e sotto indossava il proprio ombelico (splendidamente) e sotto ancora jeans gialli molto attillati. In fondo a tutto, scarpe dal tacco alto, marrone chiaro e con il cinturino, e su quelle scarpe lei scese giù per la scala, simile a una visione o, così sembrò a Archie quando si voltò a osservarla, come un purosangue ben addestrato” (Zadie Smith, White Teeth, 2000, trad. it. Mondadori, 2000, p. 32).

Cos’ha fatto Zadie in questo brano se non alternare certi stereotipi visivi (nera come l’ebano… jeans attillati… maglioncino sopra la vita… scese giù per la scala, simile a una visione… come un purosangue ben addestrato) a un modo insolito di combinarli?

La pelle è nera come l’ebano, ma ricorda il pelo dello zibellino; la coda di cavallo è scontata, ma si muove (hai visto mai?) seguendo l’umore; Clara veste come una ragazza qualunque, ma ha il corpo irreale di una pubblicità; indossa jeans che sarebbero banali, se non fosse che sono gialli. Persino le scarpe sono neutre (che tristezza quel beige), salvo che hanno cinturino e tacco alto. E poi scende le scale come Wanda Osiris, che più stereotipo di così si muore.

In poche righe Zadie mette in scena un vivacissimo saliscendi di attese, conferme e sorprese. È per questo che il suo personaggio s’imprime nella nostra testa e non ci molla più.