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Pubblicità e stereotipi di genere

Abbiamo già toccato altre volte questo tema. Per esempio qui, qui e qui.

Questa campagna della birra israeliana Gold Star Beer sta facendo molto discutere in Europa (e forse anche in paesi extraeuropei?). Ho ricevuto diverse segnalazioni in proposito, da Roberto a Londra, da Marcella e Monica in Italia.

La cattiva notizia è che la campagna ci propina la solita rappresentazione (ormai scontata fino alla noia) delle differenze di genere: mentre i maschi eterosessuali sarebbero più felici («Thank God you’re a man» è la headline) perché rudemente e direttamente orientati a una sessualità priva di sentimenti e preoccupazioni, completata da una “sana” bevuta di birra e da una visita al bagno, le femmine eterosessuali sarebbero più infelici perché inutilmente inclini a complicarsi la vita con vestiti diversi per occasioni diverse e con fantasie mal riposte su amore, principi azzurri, famiglia e bambini.

La buona notizia è che, per quanto orribilmente trita, questa campagna almeno non mette in scena né corpi femminili nudi né azioni di violenza esplicita fra i generi. Col risultato che molti commentatori (e commentatrici, ohimè) concludono sorridendo: «Che c’è di male, è carina!». (Di questo tenore sono la maggior parte dei commenti che ho letto nella blogosfera.)

Che dire? Non è affatto «carina» perché rinforza stereotipi e attribuzioni di valore (più furbi e felici gli uomini, più scemotte le donne…) che, al contrario, andrebbero scardinati.

Tuttavia c’è di peggio.

E dalla pubblicità non possiamo aspettarci rivoluzioni.

A questo proposito cito Annamaria Testa (che parla dell’Italia, ma il discorso può essere esteso):

«La pubblicità non si colloca mai all’avanguardia proprio perché la sua vocazione è farsi accettare facilmente, rispecchiando il sentimento medio del pubblico. Possono spingersi un po’ più in là prodotti d’élite che appaiono su mezzi di comunicazione segmentati e rivolti a un pubblico ristretto. Ma non si può chiedere alla pasta o ai sofficini che appaiono in prima serata su Rai Uno o su Canale 5 di proporre modelli non condivisi dalla maggioranza degli spettatori. O meglio ancora: di proporre modelli che il management delle imprese (costituito, nel nostro paese, da una stragrande maggioranza di maschi in età non giovanissima) ritiene non condivisi. […]

Insomma, poiché la pubblicità, come ogni altra forma di discorso persuasivo, si fonda sul consenso, e poiché il consenso si guadagna essendo conformisti (e magari trasgressivi nelle forme, giusto per colpire e farsi ricordare. Ma difficilmente nella sostanza), non appena cambierà davvero il ruolo delle donne cambierà anche il ruolo delle donne negli spot. La pubblicità non mancherà di registrare il cambiamento, magari amplificandolo. Ma un attimo dopo. Di sicuro, nemmeno un attimo prima.»

(citato in L. Lipperini, Ancora dalla parte delle bambine, Feltrinelli, Milano, 2007, pp. 73-74).

Ecco le immagini (clicca per ingrandire).

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Pubblicità e stereotipi di genere

Il 29 maggio scorso Eva-Britt Svensson, vicepresidente svedese della Commissione per i diritti della donna e l’uguaglianza di genere del Parlamento Europeo, presentò una «Relazione sull’impatto del marketing e della pubblicità sulla parità fra donne e uomini». Già altre volte, negli ultimi quindici anni, l’Europarlamento ha denunciato le pratiche pubblicitarie sessiste, senza che ciò abbia portato a nulla. La relazione Svensson, stavolta, è stata approvata dal Parlamento con ampia maggioranza: 504 voti favorevoli, 110 contrari e 22 astensioni.

La Svensson – come ben sintetizza la tesi di laurea di Elisa, discussa martedì scorso – proponeva di:

(1) lanciare campagne di sensibilizzazione sulle immagini degradanti della donna nei media;

(2) istituire organi nazionali per il monitoraggio dei media, con una sezione dedicata alla parità di genere;

(3) eliminare immagini stereotipate e sessiste da videogiochi, testi scolastici e Internet;

(4) evitare che i media usino immagini di modelle troppo magre, optando per rappresentazioni più realistiche del corpo femminile;

(5) far sì che la Commissione Europea e gli stati membri elaborino un «Codice di condotta» per la pubblicità, che preveda il rispetto del principio di parità fra uomini e donne ed eviti gli stereotipi sessisti e le rappresentazioni degradanti di uomini e donne.

Mi domando che conseguenze abbia avuto l’approvazione della rapporto Svensson, visto che – perlomeno in Italia – non se ne sa più nulla. La sua copertura mediatica, fra l’altro, è stata minima: ricordo solo un articolo di Andrea Tarquini su Repubblica, il 6 settembre scorso, peraltro vagamente ironico. Come se di questa iniziativa non ci fosse bisogno.

Silenzio anche nella blogosfera, a parte questo intervento di Loredana Lipperini, molto perplessa (giustamente) sul collega Tarquini che storce il naso; e questo post sul blog Viralmente.

Certo, l’attuazione della proposta Svensson avvierebbe un percorso lungo e tortuoso; certo, alcuni suoi punti sono problematici, altri addirittura utopistici, come l’eliminazione di immagini degradanti da Internet (come si fa…). Ma allora?

La verità è che di queste cose, in Europa, a nessuno frega nulla.

Perciò, nel frattempo, persino la belga Organ Donor Foundation, per convincere le persone a donare gli organi, fa pubblicità con quest’immagine (via Marco Valenti) e l’accompagna con una headline che recita «Becoming a donor is probably your only chance to get inside her». Clicca per ingrandire.

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Agenzia: Duval Guillaume, Bruxelles
Executive Creative Director: Katrien Bottez, Peter Ampe
Creative Director: Katrien Bottez, Peter Ampe
Art Director: Katrien Bottez
Copywriter: Peter Ampe

La Banca d’Italia e le donne

Su segnalazione di Loredana Lipperini, ripesco un articolo di Elena Polidori, apparso ieri su Repubblica, che tocca un problema di cui avevo già parlato in questo post: in tutti i paesi del mondo c’è una stretta correlazione fra alto grado di diseguaglianza fra i sessi e scarso sviluppo economico (vedi il report annuale del World Economic Forum).

Né l’articolo né l’argomento hanno avuto il rilievo e l’attenzione che meriterebbero.

«Miracolo donna. Secondo uno studio della Banca d’Italia, una possibilità di risollevare l’economia italiana dalla fiacchezza che l’affligge sta – starebbe – nell’effettiva parità tra maschi e femmine sul mercato del lavoro. Almeno sulla carta. Se questo accadesse, obiettivo ancora assai lontano, ovvero se il tasso di occupazione femminile salisse al livello di quello maschile, il Paese avrebbe una discreta fetta di ricchezza in più.

Per restare solo nella sfera economica, che non è certo l’unica: il Pil, dunque il benessere, (a produttività invariata) crescerebbe addirittura del 17,5%, cioè circa 260 miliardi di euro. Un vero e proprio “tesoro” che vale come una valanga di pluristangate o migliaia di lotterie di Capodanno.

Per avere un’idea più concreta: grosso modo è come tutto il “sommerso”. Ben 60 volte il taglio dell’Ici deciso dal governo. Quasi la metà di quel che s’è bruciato in tutte le Borse europee il 1 luglio scorso. Circa 1.400 volte gli aiuti che adesso l’Italia non vuole dare più ai paesi in via di sviluppo. Un miracolo, appunto.

Donna ausiliatrice, per così dire. Capace di fare da “stampella” all’economia malata, ma anche da straordinario volano per l’occupazione stessa. Con la parità, secondo lo scenario elaborato dall’economista Roberta Zizza, di colpo ci sarebbero quasi 5 milioni di occupate in più, per altro ben spalmate tra il Nord e il Sud, senza più le due Italie che esistono oggi. Un calcolo ancora più semplice dice che ogni 100 donne che entrano nel mercato del lavoro si creano 15 posti aggiuntivi nel settore dei servizi – dall’assistenza agli anziani e ai bambini, fino alle attività domestiche vere e proprie – prima non retribuiti perché gravavano sulle spalle della neo-assunta. «Effetto moltiplicatore», lo chiamano gli esperti.

Una soluzione di genere ai guai nazionali, insomma. E sarebbe un prodigio, anche senza arrivare al bilanciamento perfetto, se solo le donne riuscissero a risalire la china, fino ad un più onorevole tasso di occupazione del 60%. Ecco, pure in questo caso i benefici per il Pil sarebbero di tutto rispetto: più 9,2%. Non andrebbe male neppure se il pareggio avvenisse all´interno dell´universo femminile, con le occupate del sud balzate ai livelli nordici del 55,3%: più 5,8% del Pil.

Ma finché il miracolo non si realizza, il tasso di occupazione delle donne italiane resta tra i più bassi d’Europa, superiore solo a Malta: appena il 46,6%, contro il 70 degli uomini. Come se non bastasse, le femmine, costrette a dividersi tra casa e ufficio, pur essendo meno presenti sul mercato del lavoro, finiscono per sgobbare ogni giorno ben 75 minuti in più dei maschi, un record europeo. Hanno una retribuzione più bassa e percorsi di carriera più lenta. Sono pochissime le dirigenti: solo il 17% ha responsabilità di supervisione contro il 26 degli uomini e il divario rimane intatto nel tempo. «Bassa partecipazione e segregazione», nel linguaggio tecnico. Ecco, questa è la realtà, oggi, secondo dati 2007, denunciata di recente dallo stesso governatore della Banca d´Italia, Mario Draghi.»

Elena Polidori, La Repubblica, 22 luglio 2008.

Obama, la bellezza, la danza

Sabato scorso ero a Venezia, al Simposio di apertura della Biennale Danza. Tema di questa edizione: “Beauty”. Gli interventi più stimolanti sono stati quelli di Loredana Lipperini e Germaine Greer, di cui ti dirò più avanti. Interessante è stato, nel complesso, sentire come coreografi, ballerini, direttori di balletti nazionali e internazionali filosofeggiano sul loro mestiere. Insomma, ho fatto un po’ di osservazione partecipante.

Uno solo dei relatori era un docente universitario, Jeffrey Stewart, preside del Department of Black Studies dell’University of California at Santa Barbara. A parte la lunghezza e pesantezza del suo speech – intitolato “Bellezza e blackness” – tipica di certo accademismo, mi ha colpita una sua tesi. Riprendo le parole di Stewart (dalla traduzione italiana distribuita ai convegnisti):

«All’alba del XXI secolo, si fa strada una nuova, più diffusa e vasta sensibilità verso la Bellezza Nera, che […] è creata nelle viscere dell’Occidente: la Bellezza Nera come cavallo di Troia. Un esempio calzante è la straordinaria affermazione di Barack Obama come possibile candidato alla Casa Bianca in un paese ancora razzista come gli Stati Uniti.

Questa candidatura seducente dovrebbe essere letta in termini di Bellezza Nera, poiché per molti versi il fascino di Obama deriva dalla sua estetica.

È un danzatore, i cui movimenti riflettono l’attitudine culturale delle comunità nere urbane a mantenere sempre la calma e il sangue freddo anche in situazioni di stress, muovendosi con grazia e trasformando le arene sconosciute in un palcoscenico su cui danzare. Si sono aperti dibattiti per stabilire se Obama sia “troppo nero” o “non abbastanza nero”, categorie risalenti agli anni ’60 e ormai superate, mentre gli osservatori non sono riusciti a vedere quanto la sua campagna assomigli a una coreografia nera.

La sua genialità ha radici nella padronanza della cinetica nera, la sua flessibilità, la capacità di controbattere, la sua giovane età, il suo eloquio musicale dipendono da e promuovono la Bellezza Nera, che include l’Altro Bianco su nuovi palcoscenici. Attira a sé quelli che normalmente non appoggerebbero un candidato nero perché la sua bellezza li trasforma, insegna loro come muoversi in un mondo post-moderno, post-coloniale, post-identità. Si dondola e il suo messaggio è: “Puoi farlo anche tu”

In questi termini è più chiara – mi pare – la potenza di quel togliersi la giacca che abbiamo commentato alcuni giorni fa.

Però però.

Stewart prosegue:

«Come portatore di Bellezza Nera, Obama diventa la migliore opportunità per l’Occidente di salvarsi, ma la domanda è: saprà l’Occidente imparare i passi di questa danza?

Questa è una sfida, non una domanda retorica. Perché altri danzatori della Bellezza Nera non son riusciti a tradurre la loro estetica in qualcosa di più. […] Pensiamo a Josephine Baker, che trasformò la danza in America ed Europa negli anni ’20 e ’30. […] Ma conosciamo tutti la storia della Baker. Benché alcuni la considerassero come l’epitome della Bellezza, altri la trattarono come l’animale domestico della società parigina, un animale la cui bellezza mobile fu attribuita e ridotta ad abilità razziale conseguente alla genetica. E non cambiò nulla in Europa o negli Stati Uniti del come noi umani conviviamo, chi consideriamo umano, cosa intendiamo per umanità, ecc. […]

Molti europei, per esempio, sostegono di apprezzare Obama, ma non vedo poi uno sforzo corrispondente nell’affrontare la disuguaglianza e le tensioni etniche e razziali nelle società europee. È a posto fintantoché rimane per loro un simbolo e uno spettacolo televisivo, così possono imitare la sua danza in modo superficiale.»

Barack Obama come Josephine Baker: solo una provocazione?

Mentro cercavo di rispondere a questa domanda, ho trovato questo video, in cui Obama accenna alcuni passi di danza durante una puntata del The Ellen DeGeneres Show (ottobre 2007).

Mi si è gelata la schiena.

Maschio per obbligo

Grazie a questo post di Loredana Lipperini, ho appena scoperto il progetto Maschio per obbligo.

Dalla loro home:

«Maschio per obbligo, progetto di Medici per i Diritti Umani onlus, ha l’obiettivo di attivare una riflessione sullo stereotipo dell’uomo che lo inquadra nel cliché della virilità, intesa come prevaricazione. Il panorama dei cliché della virilità su cui agire è ampio e variegato: pervadono la pubblicità, i libri scolastici, i testi militari, i manuali educativi, i mass-media in genere e non ultimo le esternazioni dei nostri attuali governanti e le leggi che emanano.

Gli interventi nello specifico:

– Monitoraggio dei mass media in genere (tv, cinema, giornali, pubblicità, ecc.) per l’individuazione e la denuncia dei contenuti di violenza/aggressività relativamente alle relazioni eterosessuali ed omosessuali. Denuncia e diffusione degli interventi disinformativi/diseducativi che possano derivare da personaggi politici, dello spettacolo e comunque di risonanza pubblica.

– Attivazione a livello della popolazione generale e in particolare nei giovani della capacità di analisi e lettura critica dei contenuti sessisti dei mass media e della produzione culturale in genere (video, testi canzoni, libri, testi scolastici, ecc.). Elaborazione di materiale informativo/educativo (poster, cartoline, opuscoli).

– Riattivazione in ambito culturale/intellettuale del dibattito relativo agli stereotipi sessuali per ripristinare livelli di controllo/denuncia costanti e visibili (convegni, saggistica, dibattiti)

– Coinvolgimento del livello politico per garantire l’attenzione a livello normativo e legislativo di queste tematiche.»

Sul loro sito trovi, fra l’altro, una selezione di pubblicità, testi, interventi politici, che negli ultimi anni hanno contribuito – spesso in modo grave – a confermare e diffondere una visione violenta dei rapporti fra i sessi.

Pregevole, li seguirò.