Ho letto, e poi riletto diverse volte quanto scrive Giovanni Azzone nel suo intervento sul Corriere della Sera dell’11 marzo. Se ho ben capito, l’introduzione dell’inglese al Politecnico di Milano come lingua esclusiva e obbligatoria per l’intera formazione specialistica servirebbe: (a) a far sì che gli studenti italiani imparino a interagire in un ambiente globale, preparandosi a svolgere un ruolo attivo nella società; (b) a formarlo, l’ambiente globale, attirando docenti e studenti stranieri; (c) a far sì che, nei confronti degli stranieri, il nostro paese possa manifestare tutta la sua capacità di attrazione culturale e di lifestyle; (d) a trattenere qui gli studenti italiani più aperti al mondo, i quali altrimenti andrebbero a formarsi altrove.
Immagino che l’obiettivo maggiore di ogni corso di laurea sia offrire la miglior formazione possibile, nel modo più efficace possibile. Perché il perseguire obiettivi ulteriori (l’inglese, l’ambiente globale, e così via) non vada a detrimento del primo, credo che si debba verificare l’esistenza di alcune condizioni di base. Per esempio.
– Tutti i docenti italiani parlano perfettamente inglese.
– Tutti i docenti stranieri non di madrelingua inglese si sentono più a loro agio con l’inglese che, magari, con il francese o lo spagnolo.
– Tutti gli studenti italiani capiscono perfettamente l’inglese.
– Non c’è nessuna differenza di qualità, per quanto riguarda i docenti italiani, tra le lezioni tenute in italiano e quelle tenute in inglese.
– Non c’è un significativo aumento di difficoltà per nessuno studente.
– Tutti i testi necessari per ogni corso sono disponibili in inglese.
– In ogni aula c’è un buon numero di studenti stranieri anglofoni, o non anglofoni ma la cui seconda lingua è l’inglese (e non, magari, lo spagnolo o il francese. O perfino l’italiano).
In assenza di queste condizioni di base il sogno di un’università cosmopolita rischia di trasformarsi in un nightmare di lezioni semplificate, liste a punti in powerpoint lette con pessimo accento, perifrasi tanto spericolate quanto vaghe, studenti che non capiscono o fraintendono, gruppi di italiani che si parlano tra loro in inglese maccheronico, docenti italiani il cui inglese imperfetto viene scambiato per imperfetta competenza della materia, anglofoni che si mettono le mani nei capelli perché gli sembra di non capire la loro stessa lingua, appunti che non trovano corrispondenza nei libri di testo, risultati d’esame malamente influenzati dalle disuguali competenze linguistiche vuoi dei docenti, vuoi degli studenti, idee sfuocate e buchi cognitivi: primo fra tutti la perdita dei termini italiani tecnico-scientifici che possono essere necessari poi per farsi capire qui, da noi, nel mondo del lavoro, sia agli italiani, sia agli stranieri che volessero fermarsi in Italia.
Non sarebbe più semplice, e più sicuro, potenziare gli insegnamenti in inglese senza rendere obbligatoria l’adozione dell’inglese per tutti, per tutto, a qualsiasi costo e a prescindere, consentendo anche insegnamenti in italiano o in altre lingue di ampia diffusione?
Procedere gradualmente non aiuterebbe a testare la fattibilità del progetto su ciascun singolo insegnamento, a sperimentare nuove formule, magari a verificare – sarebbe interessante farlo – quali dinamiche cognitive vengono attivate, e come, nell’apprendimento di materie complesse in un’altra lingua, e poi a individuare strumenti che possano aiutare chi, con l’altra lingua, ha qualche difficoltà?
Sul tema dell’inglese obbligatorio vorrei anche porre alcuni quesiti di carattere più generale:
– perché in un’università sì globale e cosmopolita, ma italiana, né l’italiano né nessuna lingua oltre all’inglese può avere diritto di cittadinanza?
– perché si considera prioritaria una formazione in inglese rispetto alla miglior formazione possibile, in qualsiasi lingua sia (e meglio se in più di una)?
– perché si ritiene che uno studente straniero sia per forza più attratto da una laurea specialistica in Italia tutta e solo in inglese? E non, per esempio, dalla scelta più ampia tra il frequentare corsi in inglese e corsi in altre lingue, italiano compreso?
– che c’entrano l’attrattività dell’Italia e dello stile di vita italiano con la scelta di una singola università di parlare d’obbligo solo inglese? Studenti stranieri che hanno studiato in Italia, e anche imparato un po’ di italiano, non potrebbero essere ottimi ambasciatori dell’Italia nei paesi d’origine, e nel mondo?
– perché un bravo laureato italiano che vuole restare in Italia dovrebbe trovarsi orfano dei termini e delle categorie necessarie a ragionare anche nella sua lingua madre delle materie di cui più dovrebbe essere competente?
– perché uno studente davvero aperto al mondo e desideroso di andare a confrontarsi con la cultura, i ritmi, la vita e le opportunità di un paese straniero dovrebbe cambiare idea solo in seguito all’offerta di un insegnamento inglese in Italia?
– e perché mai, se si vuole sul serio integrare l’apprendimento dell’inglese nell’offerta educativa nazionale, si comincia dal fondo, dagli insegnamenti più complessi, da un’età in cui imparare bene una lingua straniera tanto da usarla correntemente è comunque meno naturale, invece che dalla scuola primaria?
Infine: ogni lingua ha in sé processi mentali, storia, cultura, memoria, visioni peculiari.
Molti studiosi, e tra questi Teresa Amabile della Harvard Business School, ci dicono che la creatività, intesa come capacità di progettare qualcosa di nuovo che sia socialmente utile, cresce con la varietà delle esperienze e dei punti di vista.
Gruppi creativi risultano tanto più fertili quanto più la loro composizione è varia per sesso, età, genere, etnia, provenienza e cultura dei partecipanti e quanto più vengono esposti simultaneamente a stimoli culturali diversi.
Non può darsi che il riconosciuto valore degli italiani, quando vanno all’estero, derivi sia da una preparazione in genere eccellente, sia da uno stile di pensiero italiano che andrebbe se mai, insieme alla lingua, preservato e valorizzato?
Certo: oggi saper pensare e lavorare in inglese è indispensabile. Ma anche saper pensare e lavorare in italiano, per un nativo, lo è. Una competenza non può e non deve escludere l’altra. È una questione di radici, di maggior ricchezza di risorse cognitive e, perché no?, di orgoglio e di identità.
L’immagine di sopra si intitola Sheep, Ship, Chip ed è tratta da Adsoftheworld.»