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Se gli uomini avessero le mestruazioni, come sarebbe la pubblicità?

Spot WaterAid

Sappiamo bene che per molte e molti – in Italia, ma non solo – l’argomento mestruazioni è un vero e proprio tabù, per cui non se ne parla affatto o se ne parla – se proprio si deve – in modo indiretto e imbarazzato, spesso usando circonlocuzioni e eufemismi: “Ho le mie cose”, “Sono indisposta”, “Sto in quei giorni”, “Ho… ehm… hai capito”, per non parlare delle varianti regionali e dialettali (se ne hai voglia, prova a fare un elenco). Diciamolo senza mezzi termini: le donne – chi più chi meno, anche se non lo ammettono nemmeno a se stesse – se ne vergognano. Ebbene, la Ong WaterAid ha creato, in occasione della Continua a leggere

Bonino: “Il Quirinale? Non sono handicappata. Per far politica non bisogna per forza essere giovani e forti”

 Emma-Bonino

La frase è sfuggita a Emma Bonino durante un’intervista a Radio Radicale nei giorni scorsi, in cui ha lasciato intendere di essere aperta a un’eventuale candidatura al Quirinale, facendo riferimento alle sue dichiarazioni pubbliche sul tumore che l’ha colpita e puntando il dito contro i pregiudizi, assai diffusi nella nostra società, verso chi non è giovane e sano. Mi esprime le sue perplessità in proposito Simona Lancioni, del Coordinamento del Gruppo donne UILDM: Continua a leggere

Contro le campagne sociali sulla disabilità: l’ironia di Angela Gambirasio

Scrive Angela Gambirasio sul blog Ironicamente diversi (ringrazio Simona Lancioni, del Coordinamento del Gruppo donne UILDM, per la segnalazione):

L’handicappato è diventato lo spauracchio preferito dei pubblicitari. Ormai ci mettono in mezzo ogni qualvolta serva spaventare i normodotati e il messaggio, gira e rigira, è sempre lo stesso: Continua a leggere

La bella normalità della sindrome di Down

Il 21 marzo è stata la giornata mondiale sulla sindrome di Down. In questa occasione il Coordinamento nazionale delle associazioni CoorDown, in collaborazione con altri partner, ha promosso un’iniziativa per cui alcuni marchi hanno realizzato una versione alternativa della loro ultima campagna: un attore dello spot originale o della campagna stampa è stato sostituito da un attore con sindrome di Down.

L’idea è mostrare che una persona con sindrome di Down è a tal punto «normale» e «come tutti», da poter stare in uno spot o un’affissione senza che quasi si noti la differenza. L’obiettivo mi pare raggiunto. Apprezzabile pure il fatto che gli attori siano stati truccati e abbelliti esattamente come accade a qualunque persona (celebrity o comune mortale) che presti volto e corpo alla pubblicità commerciale. Insomma anche loro appaiono più belli di quanto non siano in realtà, esattamente come accadrebbe a chiunque finisse in uno spot.

Mi piacerebbe però, in prospettiva, che questo processo di «normalizzazione» fosse più… normale, appunto, da parte dei marchi commerciali, non confinato cioè solo alla celebrazione di una giornata.

Il che in Italia non vale solo per le persone affette da sindrome di Down, ma per tutti i corpi e volti normali di uomini e donne, ragazzini e ragazzine, anziani e anziane, troppo spesso banditi dalla pubblicità a favore di corpi plastificati.

Grazie a Simona Lancioni, del Coordinamento del Gruppo donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), per avermi segnalato l’iniziativa.

La presentazione della campagna:

Pampers:

Illy:

Cartasì:

Averna:

Altre campagne sul sito di CoorDown.

Si possono fare campagne per la sicurezza stradale senza stigmatizzare i disabili?

Ricevo da Simona Lancioni, del Coordinamento del Gruppo donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare), una riflessione critica sull’ultima campagna per la sicurezza stradale «Pensa a guidare», lanciata dall’Ania (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici), che condivido e rilancio:

«Le campagne in tema di sicurezza stradale sono iniziative indiscutibilmente apprezzabili e tuttavia alcune scelte di comunicazione possono destare qualche perplessità.

Proprio nei giorni scorsi è uscita su Superando una riflessione critica sulla recente campagna lanciata dall’Ania. Il testo, a firma di Carlo Giacobini (vedi: «Un’immagine figlia di troppi pregiudizi»), si concentrava sul manifesto dell’iniziativa, che contiene tre scritte numerate: 1. Entrare in bagno accompagnati. 2. Passare molto tempo a casa. 3. Muoversi solo in carrozzina. Segue la raccomandazione: «Rispetta le regole della strada. Eviterai regole più dure a te e agli altri». Di lato, sullo sfondo, si vede un pezzo di sedia a rotelle manuale.

Ania, Manifesto per la sicurezza stradale

Pur apprezzando l’iniziativa, Giacobini osserva: «È però l’immagine della disabilità che trovo tragicamente foriera di distorsioni e pregiudizi. O forse è solo figlia di questi ultimi.

La disabilità come “castigo”, come “disgrazia”, come ineluttabile fonte di dipendenza dagli altri, di sofferenza di cui è responsabile il caso, o il non avere rispettato alcune regole. Subdolamente transita e ci permea il concetto che della disabilità non è mai responsabile il contesto; il contesto la subisce, la sopporta, la compatisce. Ne ha pietà».

Chi si occupa di disabilità, infatti, sa benissimo che molti dei disagi che interessano chi ha una disabilità sono legati più al contesto e alla mancanza di servizi adeguati che non alla condizione di disabilità.

La tentazione peraltro di persuadere a stili di vita corretti facendo leva sullo stigma negativo associato alla disabilità non è affatto nuova e talvolta si riscontra anche in prodotti realizzati da professionisti della comunicazione.

Un altro esempio? La campagna sulla sicurezza stradale «Mettici la testa» (vedi sotto), ideata e prodotta da Rai Educational di Giovanni Minoli, in collaborazione con Autostrade per l’Italia nel 2008. In essa si usa la testimonianza di Jacqueline Saburido, una ragazza del Texas che, all’età di vent’anni, nel 1999, mentre era in auto, venne travolta dalla vettura guidata da un giovane in stato di ebbrezza. Nell’incidente morirono due amici di Jacqueline. Lei venne miracolosamente salvata, ma subì quaranta interventi chirurgici ed è rimasta gravemente disabile e completamente sfigurata nel viso e nel corpo.

Il servizio mostra insistentemente il prima e il dopo di Jacqueline e quest’ultima riveste il ruolo della persona “che non vorremmo mai diventare”.

Anche in questo caso l’iniziativa è apprezzabile, ma l’atteggiamento con il quale si è indotti a guardare a Jacqueline è ben distante dall’invito al rispetto per la persona, qualunque siano le sue condizioni e il suo aspetto, tanto che viene da chiedersi se sia possibile fare campagne sulla sicurezza senza stigmatizzare la condizione di chi ha una disabilità. Io credo di sì. Probabilmente basterebbe pensarci e non discutere di questi aspetti solo all’interno del mondo della disabilità» (l’articolo è uscito anche su Superando, col titolo «Quella che non vorresti essere»).

Gli spot della campagna Ania «Pensa a guidare» (2011):

Lo spot della campagna «Mettici la testa» di Rai Educational (2008):

Abbiamo parlato di campagne per la sicurezza stradale anche qui:

Torna la Barbie disabile

Un’altra Barbie dopo quella di Greenpeace discussa qualche giorno fa: Barbie in sedia a rotelle (o meglio, una sua amica di nome Beckie) che Mattel produsse nel 1997 e che è stata ripresa il mese scorso da una campagna della Fondazione I Care, che si occupa di solidarietà sociale.

La campagna – segnalatami da Simona Lancioni, del Coordinamento del Gruppo donne UILDM (Unione Italiana Lotta alla Distrofia Muscolare) – è composta da quattro pannelli, in ciascuno dei quali appare una Barbie: seduta mentre si fa pettinare, nelle vesti di ballerina e in quelle di tennista, sempre accompagnata dalla headline «Un giorno della mia vita. Yes I Care». L’ultimo pannello, però, è diverso, perché Barbie sta su una sedia a rotelle e la headline dice «Tutti possiamo diventare disabili. Ma ognuno di noi può aiutare. Disabili, non diversi. Yes I Care» (clic per ingrandire).

Campagna Fondazione I Care

Barbie disabile

Come nel 1997, anche stavolta Barbie disabile fa discutere: il problema è l’inquietudine generata dal contrasto fra l’idealizzazione del corpo di Barbie e la disabilità a cui quel corpo è di colpo costretto. È questo che disorienta i più e induce i media a parlare di «campagna shock». Come se accostare la disabilità alla perfezione plastificata di Barbie fosse un insulto per chi è disabile.

Ora, non ho mai amato il giocattolo – né quand’ero piccola, né tanto meno da adulta – e non avrei mai fatto questa scelta, se avessi potuto decidere per la Fondazione I Care: innanzi tutto per non reiterare un modello che sarebbe meglio un po’ alla volta far sparire, e poi perché non c’è nulla di interessante né di creativo in una comunicazione che recupera un vecchio “scandalo” del 1997.

Tuttavia, che ci piaccia o no, Barbie è da ben 53 anni un modello fisico con cui tutti dobbiamo fare i conti: dai giochi delle bimbe al cinema, dalla televisione ai videogiochi, dalla pubblicità alla letteratura. In un mondo intriso di Barbie, dunque, la campagna non offende affatto le persone disabili, anzi le include, le fa sentire come gli altri.

È come se ci dicesse: «Posto che Barbie è la normalità, tutti possiamo – per malattia o incidente – diventare disabili e restare lo stesso persone normali, proprio come Barbie resta identica, immutabile, pure sulla sedia a rotelle. E anche chi è disabile dalla nascita può, esattamente come tutti gli altri, confrontarsi col modello fisico di Barbie, amarlo o odiarlo, esserne attratto o inorridito».