Dieci anni fa non mi sarei mai sognata di sostenere le cosiddette «quote rosa» nelle aziende, nelle istituzioni, in politica: una percentuale obbligata di posti destinati alle donne.
Mi sarei infatti opposta – anche arrabbiandomi – con argomenti del tipo:«Macché, scherziamo? Le donne non sono una specie protetta. Non si sceglie una persona per un incarico, una professione, un ruolo di potere, per ragioni legate al genere sessuale, all’età, all’etnia, alla provenienza geografica. La si sceglie per ciò che sa fare, ciò che ha studiato, e per le sue capacità personali in relazione a quel ruolo. Istituire corsie preferenziali per le donne equivale ad ammettere in azienda, in politica, nella pubblica amministrazione anche persone incapaci, purché donne».
Anche oggi la penso così. Ma, data la situazione di grave disparità di genere che affligge il paese, penso che le quote rosa siano un male necessario. Perché la percentuale di «incapaci purché donne» che entrerà nelle aziende e istituzioni per «quota rosa» – in molti casi andrà così, non facciamoci illusioni – sarà comunque inferiore alla percentuale di «uomini incapaci purché schierati e controllabili» che al momento infesta i posti di potere.
E poi le «quote rosa» potrebbero scompigliare un po’ di carte, aumentando la probabilità che qualche partita non sia truccata.
Insomma, condivido ciò che ha scritto ieri Barbara Stefanelli sul Corriere della sera (i grassetti sono miei):
QUOTE ROSA, UN PASSO TEMPORANEO NECESSARIO PER CRESCERE
di BARBARA STEFANELLI, Corriere della Sera, 9 marzo 2011
Quote rosa. Due parole che non convincono. «Quote» perché a nessuna piace essere rinchiusa in una percentuale di genere. «Rosa» perché richiama un’idea tradizionale di come le bambine devono mostrarsi al mondo. Il problema è che senza un sistema di quote vincolanti la presenza femminile ai vertici delle società non cresce. Il caso norvegese, che ha fatto scuola in Europa, lo dimostra.
Un morbido dosaggio di incentivi non scuote una società chiusa: un sistema bloccato non si lascia riformare con strategie soft. Un tetto obbligatorio — con una data e una sanzione stabilite per legge — produce invece un balzo immediato. È un rimedio temporaneo, un ponte gettato per superare asimmetrie storiche di presenza e di potere, al quale si rinuncia non appena le due sponde si riallineano.
Nei paesi dove le «quote donne» hanno qualche anno di sperimentazione alle spalle, è facile verificare che i risultati ci sono: in termini di sviluppo, competitività interna e estera, modernità.
Anche in Italia, le aziende dove ci sono donne al vertice hanno avuto negli ultimi tre anni performance migliori e sono fallite meno (analisi realizzata per il CorrierEconomia).
L’idea delle quote suscita diffidenza nei liberali: una riserva protetta scombina gli equilibri naturali, víola il principio del merito tra gli individui. Ma è la pratica delle quote a creare le premesse per quell’eguaglianza di opportunità alla quale una società liberale aspira.
Non si può giocare una partita alla pari se una delle due squadre non è in grado di schierare tutti i suoi uomini (le sue donne!) in campo. Se tutto questo è vero, è una regola di buonsenso porsi obiettivi ambiziosi ma raggiungibili.
Per questo la legge che impone una percentuale femminile nei consigli di amministrazione (cda) delle società quotate e pubbliche deve proporre uno schema graduale. Il disegno di legge in discussione al Senato lo fa: prevede un’applicazione in due tappe, da qui al 2015, e una sequenza in tre fasi (diffida, multa, decadenza del cda) nell’applicazione della sanzione.
Potrebbe essere presa in considerazione «una clausola di salvaguardia», sempre ispirandosi alle buone pratiche norvegesi, in casi — documentati — in cui fosse impossibile applicare la legge nel dettaglio dei tempi o dei numeri previsti. Resta il fatto che nessun Paese può rinunciare a una maggiore presenza femminile in tutti i luoghi dove vengono prese le decisioni che determinano la crescita e il futuro di tutti. Nessun Paese può permettersi di sprecare il 50 per cento dei suoi talenti.
Leggi qui a che punto è il provvedimento di legge: «Il 30% di donne nei cda entro il 2015», di Nicoletta Cottone, Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2011.
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