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Giovani italiani: mammoni o talenti in fuga?

Truenumbers, La leggenda dei cervelli che fuggono

Talenti in fuga verso paesi stranieri, secondo quanto emerge dal lavoro che il giornalista Sergio Nava svolge da anni per il gruppo del Sole 24 Ore (quotidiano e radio). Vedi per esempio questo articolo di ieri sul suo blog “Fuga dei Talenti”: “Gli emigrati raddoppiati…”. Mammoni che tendono a rimanere in Italia, secondo quanto invece emerge Continua a leggere

Le quote rosa: un male necessario

Dieci anni fa non mi sarei mai sognata di sostenere le cosiddette «quote rosa» nelle aziende, nelle istituzioni, in politica: una percentuale obbligata di posti destinati alle donne.

Mi sarei infatti opposta – anche arrabbiandomi – con argomenti del tipo:«Macché, scherziamo? Le donne non sono una specie protetta. Non si sceglie una persona per un incarico, una professione, un ruolo di potere, per ragioni legate al genere sessuale, all’età, all’etnia, alla provenienza geografica. La si sceglie per ciò che sa fare, ciò che ha studiato, e per le sue capacità personali in relazione a quel ruolo. Istituire corsie preferenziali per le donne equivale ad ammettere in azienda, in politica, nella pubblica amministrazione anche persone incapaci, purché donne».

Anche oggi la penso così. Ma, data la situazione di grave disparità di genere che affligge il paese, penso che le quote rosa siano un male necessario. Perché la percentuale di «incapaci purché donne» che entrerà nelle aziende e istituzioni per «quota rosa» – in molti casi andrà così, non facciamoci illusioni – sarà comunque inferiore alla percentuale di «uomini incapaci purché schierati e controllabili» che al momento infesta i posti di potere.

E poi le «quote rosa» potrebbero scompigliare un po’ di carte, aumentando la probabilità che qualche partita non sia truccata.

Insomma, condivido ciò che ha scritto ieri Barbara Stefanelli sul Corriere della sera (i grassetti sono miei):

QUOTE ROSA, UN PASSO TEMPORANEO NECESSARIO PER CRESCERE

di BARBARA STEFANELLI, Corriere della Sera, 9 marzo 2011

Quote rosa. Due parole che non convincono. «Quote» perché a nessuna piace essere rinchiusa in una percentuale di genere. «Rosa» perché richiama un’idea tradizionale di come le bambine devono mostrarsi al mondo. Il problema è che senza un sistema di quote vincolanti la presenza femminile ai vertici delle società non cresce. Il caso norvegese, che ha fatto scuola in Europa, lo dimostra.

Un morbido dosaggio di incentivi non scuote una società chiusa: un sistema bloccato non si lascia riformare con strategie soft. Un tetto obbligatorio — con una data e una sanzione stabilite per legge — produce invece un balzo immediato. È un rimedio temporaneo, un ponte gettato per superare asimmetrie storiche di presenza e di potere, al quale si rinuncia non appena le due sponde si riallineano.

Nei paesi dove le «quote donne» hanno qualche anno di sperimentazione alle spalle, è facile verificare che i risultati ci sono: in termini di sviluppo, competitività interna e estera, modernità.

Anche in Italia, le aziende dove ci sono donne al vertice hanno avuto negli ultimi tre anni performance migliori e sono fallite meno (analisi realizzata per il CorrierEconomia).

L’idea delle quote suscita diffidenza nei liberali: una riserva protetta scombina gli equilibri naturali, víola il principio del merito tra gli individui. Ma è la pratica delle quote a creare le premesse per quell’eguaglianza di opportunità alla quale una società liberale aspira.

Non si può giocare una partita alla pari se una delle due squadre non è in grado di schierare tutti i suoi uomini (le sue donne!) in campo. Se tutto questo è vero, è una regola di buonsenso porsi obiettivi ambiziosi ma raggiungibili.

Per questo la legge che impone una percentuale femminile nei consigli di amministrazione (cda) delle società quotate e pubbliche deve proporre uno schema graduale. Il disegno di legge in discussione al Senato lo fa: prevede un’applicazione in due tappe, da qui al 2015, e una sequenza in tre fasi (diffida, multa, decadenza del cda) nell’applicazione della sanzione.

Potrebbe essere presa in considerazione «una clausola di salvaguardia», sempre ispirandosi alle buone pratiche norvegesi, in casi — documentati — in cui fosse impossibile applicare la legge nel dettaglio dei tempi o dei numeri previsti. Resta il fatto che nessun Paese può rinunciare a una maggiore presenza femminile in tutti i luoghi dove vengono prese le decisioni che determinano la crescita e il futuro di tutti. Nessun Paese può permettersi di sprecare il 50 per cento dei suoi talenti.

Leggi qui a che punto è il provvedimento di legge: «Il 30% di donne nei cda entro il 2015», di Nicoletta Cottone, Il Sole 24 Ore, 10 marzo 2011.

WikiLeaks: un mezzo che conta più del messaggio

Oggi – eccezionalmente – l’attualità mi impone due post. 🙂

Sulla questione WikiLeaks, due commenti riassumono la mia posizione (i grassetti sono miei):

«L’obiettivo di Julian Assange non è quello di informare. Non è un giornalista. Non è un paladino dell’informazione. Il contenuto di quei documenti non gli interessa.

Ciò che gli interessa è il numero sempre più alto di violazioni al fortino americano – 92 mila documenti la prima volta, ora 250 mila – non che cosa ci sia scritto dentro quei dispacci.

A fare notizia non è il contenuto, ma il contenitore. Il successo di WikiLeaks si misura sulla bravata internettiana, sull’anonimato ricattatore, sullo sberleffo al potere. Anche perché, a leggerli davvero, i primi brogliacci di WikiLeaks raccontavano che i morti in Iraq erano certamente stati moltissimi, come si sapeva, ma meno di quanto si temeva e, peraltro, a grandissima maggioranza uccisi da terroristi sunniti e milizie sciite.» (da «WikiLeaks mette a nudo la diplomazia Usa: l’Onu spiata, i festini di Berlusconi e le bombe per l’Iran», di Christian Rocca, Il Sole 24 Ore, 28 novembre 2010).

La novità, inoltre, sta nel modo in cui le testate giornalistiche hanno affrontato l’evento, perché (e ringrazio Manuel per la segnalazione dell’articolo):

«In nessun giornale del mondo si è posta oggi l’annosa questione: “Lo diamo prima sulla carta o sul web?”. Tutti, da Der Spiegel al New York Times, al Pais, a Le Monde, hanno cominciato dal sito, proseguiranno sulla carta e andranno avanti utilizzando i due mezzi come un tutt’uno: un unico medium su piattaforme diverse fatto di approfondimento, di sintesi e attraversato da una serie di questioni qualitative e quantitative che possono davvero portarci a dire che qualcosa di profondamente innovativo è successo.» (da «Il giorno che cambiò l’informazione» di Massimo Razzi, La Repubblica, 28 novembre 2010).

Sulla scarsa novità dei contenuti, molti commentatori si sono già pronunciati (leggi per esempio: «Washington in grande trambusto, ma di nuovo finora c’è ben poco», di Mario Platero, Il Sole 24 Ore, 29 novembre 2010).

Aggiungo solo, per quanto riguarda Berlusconi, che non c’è nulla di nuovo non solo nel fatto che i diplomatici lo considerino molto vicino a Putin e guardino con perplessità e compassione la decadenza fisica e morale dei suoi festini notturni.

Ma non c’è nulla di nuovo nemmeno nel modo in cui gli italiani prenderanno la notizia su «cosa pensano gli americani di Berlusconi»: quelli che lo votano penseranno che i diplomatici americani (specie la donna) sono esageratamente moralisti (anzi, parlano per invidia), o al massimo penseranno che in effetti Berlusconi di recente ha «esagerato un po’» con le donne, ma-chissenefrega-lui-resta-il-più-figo-di-tutti; quelli che non lo votano penseranno scandalo-vergogna-che-figura-ci-facciamo-di-fronte-al-mondo; gli incerti penseranno che-schifo-la-politica-io-non-voto-più-anzi-no-voto-lega-tiè-chissenefrega.

Quando Twitter fa torto alla conferenza

Twitter è prezioso per molti scopi che sappiamo – e che sanno in molti, visto che il social network ha ormai circa 200 milioni di utenti nel mondo. È utilissimo ad esempio per condividere con i propri followers letture, video, immagini, brani musicali che ci piacciono e ci sembrano interessanti, senza perderci troppo tempo con analisi e commenti.

Come ogni tecnologia, però, ha i suoi effetti perversi.

Uno di questi emerge durante le conferenze: Tizio e Caio siedono nel pubblico e, mentre ascoltano, twittano frasi e parole che li colpiscono. O usano Twitter per prendere appunti e ricordarsi, un domani, ciò che hanno ascoltato alla conferenza.

In questo caso l’intenzione è generosa (condividere con altri i propri appunti), la conferenza magari è interessantissima e l’ascoltatore che twitta intelligente, serio e preparato, ma il risultato su Twitter un po’ fa ridere e un po’ fa venire il dubbio che i partecipanti alla conferenza (inclusi gli ascoltatori) si siano tutti bevuti il cervello. 🙂

È quello che è accaduto ieri durante la conferenza organizzata alla Triennale di Milano per il lancio di La Vita Nòva, il magazine del Sole-24 Ore progettato per iPad: i relatori e il pubblico erano di tutto rispetto (e lo dico con cognizione di causa, perché molti li conosco di persona), ma le frasi che sono apparse su Twitter si commentano da sole.

Ecco un paio di screen shot che ho preso ieri su Twitter, mentre seguivo l’evento on line (clic per ingrandire). 😀

Twitter Screen Shot 1

Twitter Screen Shot 2

 

 

Vita da Facebook 9 – C’è chi finisce in tribunale…

Leggo e riporto dal Sole 24 Ore di ieri.

Ti sei mai trovato/a in una situazione che si avvicina a queste?

FACEBOOK NEL MIRINO: SEMPRE PIU’ CAUSE DI DIFFAMAZIONE

di Marisa Marraffino

Facebook nuovamente sotto tiro. Dopo i filtri delle aziende per bloccare l’accesso ai dipendenti durante l’orario di lavoro, gli appelli del Ministro Brunetta e le accuse di violazione della privacy della Ue, arrivano anche in Italia le prime querele e richieste di risarcimento danni a carico degli utenti del più popolare social network del mondo.

«Facebook non può sottrarsi alle regole del diritto comune – spiega Giuseppe Conte, professore di diritto privato e avvocato esperto di privacy e comunicazioni elettroniche – e gli utenti dei social network non possono invocare la spazialità virtuale quale esimente per le loro affermazioni e i loro comportamenti. La tutela dei beni morali e, più in generale, dei diritti della personalità non viene sospesa nello spazio telematico». Il messaggio è chiaro e le conseguenze non si sono fatte attendere.

Gli episodi
A Molfetta un imprenditore ha querelato un suo ex collaboratore per averlo definito “bastardo” su facebook. A Torino un professore ha denunciato uno studente per averlo iscritto al social network a sua insaputa e per avergli attribuito perversioni imbarazzanti. Mentre a Firenze sono state presentate almeno due querele per diffamazione a mezzo Facebook. E in una scuola superiore di Colle Val d’Elsa una bidella ha chiesto ad otto studenti un risarcimento danni di migliaia di euro per aver creato sul social network un gruppo contro di lei.
Secondo gli esperti, le segnalazioni sono destinate ad aumentare, con utenti, spesso minorenni, costretti a confrontarsi con la legge.

I reati
Il reato in cui più facilmente possono incorrere gli utilizzatori di Facebook è la diffamazione aggravata dal mezzo di pubblicità: le pene possono arrivare fino a tre anni, con possibili risarcimenti danni da migliaia di euro. A configurare il reato, non solo le offese esplicite all’altrui reputazione, ma anche la pubblicazione di foto di amici in atteggiamenti imbarazzanti o qualche battuta di troppo. «Potrebbe integrare il reato di diffamazione anche taggare un amico un po’ ubriaco in un locale equivoco – spiega l’avvocato Riccardo Lottini di Grosseto – in caso di querela non ci si può nemmeno difendere sostenendo che l’amico aveva prestato il consenso a farsi fotografare: l’utilizzo, se lesivo della reputazione, è comunque illecito».

Niente da fare nemmeno per le mogli gelose che, con una falsa identità, tentano di scovare la relazione adulterina del marito. La sostituzione di persona è un reato punito con la reclusione fino ad un anno.
Possibili guai in vista anche per i dipendenti pubblici. Usare facebook sul lavoro potrebbe integrare addirittura il reato di peculato.

Continua a leggere QUI.

Ebbene sì, sono su Facebook

Ho resistito per quasi un anno, limitandomi a parlarne con amici e colleghi. A leggere montagne di articoli e persino un instant book. Però ne stavo alla larga. Ho già il blog, mi dicevo, non ho tempo per Facebook. Ero dubbiosa. Insofferente.

Qualche volta sono entrata con profili di amici, giusto per sbirciare, cominciare a capire. Dovevo pur farlo: studio i nuovi media.

Infine sono entrata: è l’unico modo per capire davvero.

Prima impressione? Mi turba l’ostentazione di foto private. Finché mi limitavo a guardare quelle di perfetti sconosciuti (è ciò che accade se entri col profilo di un altro) l’esibizionismo/voyerismo di cui tutti parlano erano solo due parole. Adesso hanno un sapore diverso. Piuttosto sgradevole, per i miei gusti.

Faccio un esempio: non sono felice di aver visto su Facebook le foto del figlio o della figlia di tre anni del collega o della conoscente che finora a stento me ne avevano parlato. Non mi piace aver pensato: che bellino o che bruttino così, a freddo. Senza averne mai sentito la voce, senza averlo abbracciato una volta. Avrei preferito conoscerlo prima di persona, il piccolo. O vedere la sua foto estratta dal portafoglio, come nella più tipica delle sceneggiature, perché in quel caso la visione sarebbe stata accompagnata dalle emozioni del genitore o parente. E un po’ di quelle emozioni mi avrebbero contagiata, guidata.

Invece mi sono ritrovata a fare la guardona, ecco. Una guardona autorizzata, ma pur sempre guardona.

E poi è solo un bimbo… Un minore, accidenti. Certo, se i genitori hanno deciso di ostentare il figlio, fatti loro. Ma il bimbo è stato interpellato? Bah. Certo, quelle foto possono essere viste solo dai cosiddetti «amici». Amici? Ri-bah.

Una cosa è certa: su Facebook non metterò foto private.

Il linguaggio della crisi economica

Gaël – che ringrazio – mi segnala questo articolo del Sole 24 ore di ieri, sugli eufemismi che la crisi economica ha introdotto nelle imprese americane:

LA CRISI CAMBIA LE «LETTERE» PER I LICENZIAMENTI

di Monica D’Ascenzo

«Dear employee, you are simplified». Suona di certo meglio del celebre «You are fired» che Donald Trump gridava in faccia agli sfortunati partecipanti al reality finanziario «L’apprendista» che ha spopolato sulla tv americana. L’enfasi è diversa, ma la sostanza non cambia: «semplificato» è solo uno dei nuovi termini con cui le imprese americane stanno cercando oggi di addolcire la pillola delle ristrutturazioni aziendali.

Con la recessione che avanza, il problema di come comunicare i tagli al personale è diventato talmente frequente che le società hanno iniziato a creare un nuovo linguaggio per preservare un’immagine positiva nei confronti dei dipendenti e del mercato. Così la scorsa settimana il ceo di American Express, Kenneth Chenault, ha preferito parlare di «re-engineering plan» per annunciare 7mila tagli al personale, pari al 10% della forza lavoro della società. C’è chi invece preferisce «cost improvement plans», cioè piano di miglioramento dei costi che tanto piace agli analisti e agli investitori in Borsa: come nel caso di Rodger Lawson, presidente di Fidelity Investment, quando ha descritto 1.300 tagli in una nota al suo staff.

Ma la lista degli eufemismi continua ad arricchirsi con termini come «rightsizing», letteralmente in finanza la riallocazione delle azioni di un aumento di capitale non sottoscritte. Oppure «reduction in force» o «workforce reduction», riduzione della forza lavoro. Ma anche «streamlining», nel senso di ottimizzazione.

Non manca per altro chi vuole dare all’azione un senso più alto. Lo scorso mese Elon Musk, ceo di Tesla Motors, in un post sul sito della società ha definito i tagli del 10% del team che opera sull’auto elettrica come parte di una «special forces philosophy», ovvero una filosofia di azione rapida. Da eBay preferiscono, invece, parlare di «simplification» (semplificazione) riferendosi a 1.500 posti di lavoro in meno. Le metafore sono comunque varie: Jerry Yang, ceo di Yahoo, in una mail ai dipendenti ha definito i tagli del 10% del personale un modo «to became more fit», per snellire la società. Lo stesso Yang in un’altra occasione aveva parlato di «riallineamento del personale ai risultati».

Coloro che perdono il posto di lavoro poco apprezzano questa ricerca dell’eufemismo giusto, ma i manager ritengono ugualmente indispensabile per il bene della società comunicare al mercato che i tagli fanno parte di un piano e che la situazione è sotto controllo.

Di giorno in giorno si moltiplicano gli annunci di tagli al personale e negli Stati Uniti si è già raggiunto quota mezzo milione di posti di lavoro persi negli ultimi due mesi. Nella sola giornata di ieri hanno superato quota 11mila i licenziamenti annunciati: 2.200 Virgin Media, 1.300 Yell, 900 Volvo, 1.900 Gm oltre i 3.600 di venerdì scorso e 1820 Nokia Siemens. Questo forse si tradurrà anche in un ampliamento del vocabolario usato per l’occasione, di certo non c’è eufemismo che possa consolare quanti si trovano senza uno stipendio e magari con famiglia e mutuo a carico.»

Monica D’Ascenzo, Il Sole 24 ore, 12 novembre 2008