A distanza di qualche giorno dall’annullamento, a colpi di lacrimogeni e arresti, del Gay Pride a Istanbul, pubblico lo studio che Giulia Nieddu ha condotto per l’esame di Semiotica dei consumi della laurea magistrale in Semiotica sugli spot che, dal 2007 a oggi, hanno comunicato il Gay Pride negli Stati Uniti, in America Latina, in alcune capitali europee e in Italia. Il lavoro è molto interessante perché mette in evidenza come la stessa comunicazione degli attivisti LGBT sia stata intrisa e condizionata, negli ultimi dieci anni, da stereotipi non sempre rispettosi delle differenze e della parità dei generi e degli orientamenti sessuali. L’analisi si è concentrata in particolare Continua a leggere →
Sono molti ormai in rete a denunciare la tendenza a adultizzare e sessualizzare i bambini da parte della pubblicità dei marchi di moda. Ne abbiamo parlato qualche volta su questo blog (ad esempio QUI e QUI). Lo fanno spesso il blog Un altro genere di comunicazione e il gruppo Facebook La pubblicità sessista offende tutti.
Una tendenza che passa da immagini come queste (clic per ingrandire):
Su questo tema ha scritto una tesi di laurea in Scienze della ComunicazioneEva Schwienbacher, discussa nel marzo 2012. Eva ha analizzato gli annunci stampa presenti in alcune riviste specializzate in alta moda per bambini nella primavera 2011 e in particolare nell’edizione italiana della rivista bimestrale Marie Claire Enfants (aprile 2011) e nell’edizione italiana delle riviste semestrali Elle Junior (aprile 2011) e Vogue Bambini (maggio/giugno 2011).
L’italiano è a volte un po’ rigido, perché Eva è di madrelingua tedesca, ma comunque è chiaro e scorrevole. Questa la sua conclusione:
Infine, mi preme dire che nel corso dell’analisi sono rimasta sconvolta dalla numerosità di immagini che ritraggono il bambinoserio, appena sorridente, o addirittura cupo, con un corpo immobile, chiuso in vestiti ordinati, innaturalmente composti e spesso antifunzionali. È chiaro che la pubblicità ci dà un’immagine idealizzata dei bambini, ma se il risultato deve essere tanto sterile come quello che ho riscontrato nella maggior parte degli annunci che ho analizzato, allora sono felice, e qui scrivo come zia di tre nipotini, di conoscere una realtà completamente diversa fatta di bambini spiritosi e vivaci, che imitano i grandi ma restano comunque bambini, ridono e fanno ridere, ma spesso piangono e fanno anche impazzire, si sporcano e fanno i mocciosi, e ciò nondimeno restano bellissimi e preziosi nella loro diversità da noi adulti.
Davide, studente al primo anno della magistrale in Semiotica, ha svolto per l’esame di Semiotica dei consumi un’analisi della rappresentazione dell’omosessualità maschile in un corpus di riviste italiane destinate a un pubblico LGBT, da cui emerge come l’omologazione e plastificazione dell’immagnario gay segua percorsi simili a quelli che riguardano il corpo femminile.
Nelle parole di Davide:
«Che si tratti di testi verbali o visivi, pubblicitari e non, e indifferentemente rispetto al tema dei testi specifici, la presenza di corpi – per lo più a torso nudo – è imprescindibile. In questi rintracciamo, traslati in ottica omoerotica, tutti i canoni di ipersessualizzazione, oggettificazione e autonomizzazione delle parti che Lorella Zanardo osservò, relativamente alla rappresentazione mediatica del corpo femminile, nel noto documentario Il corpo delle donne (2009). È quanto meno contraddittorio che questa pertinenza compaia, in modo così ossessivo, all’interno di una cultura che si dà come militante. […]
Cosa fanno e cosa desiderano i maschi raffigurati? Lavorano come modelli o escort, desiderano “ovviamente sfilare su passerelle importanti, o diventare fotomodello o attore di cinema o tv” [Luimagazine, n°6, giugno 2012, p.25, estratto dall’articolo “Il ragazzo del mese”]. Anche quando il proprio mestiere non ne prescrive la nudità, l’ostentazione simbolica del corpo è comunque omologata ai valori della realizzazione e del successo. Di più, si è rilevanti solo attraverso un corpo a norma. Che si tratti di cantanti, stilisti, scrittori o ragazzi comuni, i personaggi intervistati e trattati dalle riviste gay sono sempre qualificati attraverso il proprio corpo. […]
Il “culto del bello” degenera in una riduzione oggettuale della sessualità all’immagine. Differentemente dalla necessità di spiritualizzazione dell’attività sessuale che si avvertiva nella mentalità greca e poi, ancora più forte, in quella cristiana, qui la desiderabilità dell’individuo si gioca sulla restrizione fisica che, com’è ovvio, inerisce la conformità del corpo ai canoni normativi capitalizzabili e specifici. Ne consegue, come vedremo, che il corpo è tanto più sessualmente desiderabile quanto più (in una scala prettamente quantitativa) muscolare o quant’altro. In quest’ottica è più chiara la consueta assenza di volti dei corpi sessualizzati, dato che la bellezza del volto è un fattore più identificante e qualitativo. È un bello quanto mai relativo.
È probabile che se un marziano sfogliasse queste pubblicazioni, penserebbe che l’omosessualità sia una strana pratica autoerotica, magari consistente nella contemplazione di sé in posizioni improbabili. Come già accennato, l’enfasi sul consumo tende all’isolamento degli individui. In entrambe le riviste [Pride e Lui magazine]– annunci stampa compresi – la dimensione relazionale è pressoché assente, fatta eccezione per due approfondimenti sul cinema GLBT in Pride.»
Commissionata all’agenzia Saatchi & Saatchi, la campagna del Ministero dell’economia e delle finanze (Agenzia delle entrate) e della Presidenza del consiglio (Dipartimento per l’informazione e l’editoria) è fatta da due spot e due radiocomunicati, destinati agli spazi gratuiti televisivi e radiofonici della Rai, da affissioni nelle principali stazioni e negli aeroporti di Milano e Roma, e da annunci stampa sui maggiori quotidiani e periodici.
Uscita il 9 agosto, è stata già schiacciata da una montagna di critiche, insulti, commenti indignati.
Le principali invettive possono stare sotto il titolo «Da che pulpito viene la predica»: con che coraggio – ci si chiede – un committente così poco credibile (non solo il governo, ma tutti i politici) può definire «parassiti della società» gli evasori e proporre slogan come «Chi vive a spese degli altri danneggia tutti»? Proprio ora, fra l’altro, che si discute dei costi della politica e si osserva tutti i giorni la resistenza dei parlamentari a ridurli. Ma non si rendono conto che sono proprio loro, i politici, i primi a «vivere a spese degli altri» e «danneggiare tutti»?
Il secondo gruppo di critiche se la prende con lo stereotipo visivo che rappresenta l’evasore fiscale: ha la barba incolta e lo sguardo torvo di uno che ti pare subito un poco di buono, mentre invece – osservano tutti – gli evasori veri, quelli che fanno il grosso dell’evasione in Italia, hanno la faccia perbene, la camicia candida e la cravatta impeccabile del professionista strapagato e del riccone più invidiato.
Aggiungerei che l’immagine fa di peggio: l’evasore sembra un uomo del sud, uno dei ceti bassi (sempre ragionando per stereotipi ovviamente). Perciò la campagna conferma implicitamente i peggiori slogan leghisti, che scaricano sul meridione i mali d’Italia.
Infine ci sono quelli che dicono che la campagna non serve a fermare l’evasione, perché «certo gli evasori non si fanno dissuadere da un paio di spot». Con queste critiche non sono d’accordo, perché fanno il paio con quelli che dicono che «i consumatori non si fanno abbindolare dalla pubblicità».
Ma le campagne abbindolano e persuadono, eccome. Se sono ben fatte. Questa campagna non dissuade gi evasori e non convince nessuno semplicemente perché è sbagliata, non perché in generale gli spot non servono.
Perché il Ministero e la Presidenza del consiglio l’hanno fatta? Per comunicare l’attenzione al tema, per dire che ci stanno lavorando, che hanno buone intenzioni. Per comunicare di comunicare.
Come doveva essere fatta? Mi limito a pochissimi spunti:
non basta una campagna, ma ce ne vogliono molte, a ripetizione: bisogna martellare, insistere, perché in comunicazione ripetere è fondamentale;
non bastano i formati classici della pubblicità esplicita (spot, affissioni ecc.), ma bisogna coinvolgere tutti i media, vecchi e nuovi, in tutti i loro formati e linguaggi;
occorre ribaltare la prospettiva, smetterla di ribadire il valore negativo che «evadere il fisco è male» (anche fumare fa male, ma dirlo non dissuade i fumatori) e proporre immagini e situazioni che valorizzino positivamente l’atto di pagare le tasse e chi lo fa, lo rendano desiderabile, socialmente apprezzato, cool, di tendenza;
bisogna lavorare sul linguaggio con cui i politici, i media, tutti parliamo di tasse: come fossero un peso («pressione», «carico», «imposizione»), qualcosa che toglie la libertà (le tasse sono «vincoli», «lacci e lacciuoli»). Non pagare le tasse sa invece di aria fresca, divertimento, tempo libero: «evasione» vuol dire innanzi tutto «fuga da ciò che opprime» o «fuga da luoghi di detenzione»;
è un lavoro di anni, perché implica un cambiamento culturale, di mentalità, per il quale servono strategie di media e lunga prospettiva.
Lo spot «Parassiti»:
Lo spot «Se»:
Idea per una tesi triennale: un’analisi della campagna e delle iniziative regionali che in questi anni sono state fatte sul tema. Per concordare la metodologia e l’impostazione, iscriviti a Ricevimento.
La strage di venerdì a Oslo ha attirato nuova attenzione sugli estremisti di destra, non solo in Norvegia.
In tutta Europa infatti stanno aumentando, da un lato, i migranti dai paesi extraeuropei, dall’altro i flussi migratori all’interno della stessa Europa, e in particolare dai paesi dell’est. Il tutto concorre a far crescere un po’ ovunque le spinte nazionaliste – anche violente – contro i musulmani, i rom, il multiculturalismo. O addirittura, più in generale, contro la globalizzazione e la stessa idea di Europa.
Di qui il successo dei partiti populistiche fanno appello all’identità nazionale o – come la nostra Lega – regionale: anche se a parole condannano la violenza, è chiaro che contribuiscono a legittimare posizioni anche estreme e aggressive. In questo clima non dobbiamo poi stupirci se individui disturbati, violenti, invasati scatenino il peggio di sé.
Chiaro che non c’è un nesso univoco e semplicistico di causa ed effetto. E tuttavia, dire «non c’è assolutamente nessun nesso» mi pare equivalente a mettersi le mani davanti agli occhi per non vedere una scena che non ci piace.
Se poi ci si mettono pure i media, a fomentare i pregiudizi anti-islamici, la frittata è fatta.
Mi hanno colpita, fra venerdì e sabato, le allusioni insistenti sulla possibile matrice musulmana della strage in Norvegia. Prima che si scoprisse il biondissimo e invasatissimo Anders Behring Brevik, integralista cristiano di estrema destra.
Scandalose le copertine di Libero e Il Giornalenel pomeriggio di venerdì (poi subito cambiate), comeMassimo Mantellini ha giustamente osservato. Ma a dire sciocchezze sul tema o almeno a suggerirle implicitamente – il che è spesso peggio – ci si sono messe molte testate e molti telegiornali italiani.
Idea per una tesi triennale (e ringrazio Lara per avermi ispirata): un’analisi del modo in cui i media italiani hanno fatto ipotesi sui responsabili della tragedia di Oslo quando ancora non si sapeva a chi o cosa attribuirla. Non sarebbe male un confronto con diverse testate europee, se conosci bene almeno un paio di lingue fra francese, spagnolo, tedesco, inglese.
Per concordare il corpus e la metodologia vieni a Ricevimento (riprenderò, dopo la pausa estiva, giovedì 8 settembre).
AGGIORNAMENTO: un interessante approfondimento di Lara sulla responsabilità dei media (ma non solo: anche di certi scrittori) nel soffiare sul fuoco dei peggiori pregiudizi: Tre passi nel delirio (virtuale e non).
Mi sono arrivati due contributi interessanti alle riflessioni di questi giorni su quanto la mobilitazione in rete riesca a produrre azioni e risultati concreti.
Il primo implica una visione più scettica ed è di Elisa, che si laureò con me nel 2005 (se ricordo bene) e ora lavora felicemente da Diennea, dove si occupa soprattutto di marketing on line:
«A maggio sono stata ospite del Festival del Fund Raising (a parlare di email marketing, as usual). È una bellissima manifestazione, se non la conosci te la consiglio.
Insomma alla plenaria finale c’era Bill Toliver che ha portato una case history scioccante su Facebook e il fund raising. Raccontava l’episodio di quella ragazza iraniana Neda, uccisa durante le proteste di due anni fa a Teheran, e che ha fatto il giro del mondo su twitter.
La faccio breve: la pagina realizzata per raccogliere fondi per la sua causa su fb ha raccolto non so quante migliaia di like. Euro raccolti? Zero.
“In other words, Facebook activism succeeds not by motivating people to make a real sacrifice but by motivating them to do the things that people do when they are not motivated enough to make a real sacrifice”. C’è spazio per diverse tesi di laurea.»
È vero, Elisa, c’è spazio per studiarci su. E infatti lancio la prima proposta: una tesi di laurea magistrale che analizzi diversi casi di uso della rete per cause sociali, vere o simulate che siano. Incluso il caso de I segreti della casta di Montecitorio. Per la selezione del corpus e la metodologia iscriviti a Ricevimento.
Il secondo contributo apre qualche speranza, anche se non riguarda grandi cause sociali, ma community più ristrette, in cui i partecipanti costruiscono in rete una familiarità e affettività reciproca molto vicina all’amicizia reale. Scrive Pierfrancesco:
«Non so se conosci Daveblog: è un blog che parla di tv (ma non solo), e ha costruito da anni una community piuttosto florida. Ieri una persona ha postato un messaggio di addio manifestando l’intenzione di suicidarsi, ma, mettendo insieme le informazioni di cui disponevano, alcune sue amiche sono riuscite a rintracciarla e, in qualche modo, a salvarla. Non so se sia un tema interessante per Disambiguando, ma credo che una cosa del genere in Italia non fosse mai successa (so di gente “salvata” da conoscenti con cui chattava, ma qui si tratta di un contesto diverso).
La vicenda, volendo, ha anche un lato morboso (ammetto che, sapendo già che tutto si era risolto per il meglio, leggendo il thread ha prevalso in me l’aspetto della curiosità e della “tensione narrativa”), però mi sembra un ottimo esempio di come, almeno in certi casi, le relazioni che si costruiscono in anni di discussioni sul web possano essere quasi più intense di quelle intessute nella vita offline (la ragazza sente di potersi confidare sul Daveblog mentre, a quanto dice, le persone intorno a lei non riescono a comprendere la sua sofferenza).»
Credo valga la pena continuare a rifletterci e discuterci sopra.
Qualche giorno fa mi sono arrivate un paio di offerte di stage interessanti. Ho sentito direttamente il responsabile, che vuole avviare una più ampia collaborazione con me e il mio Dipartimento.
L’idea è che su almeno uno di questi due stage, il/la giovane possa anche preparare, sotto la mia guida e con le opportune integrazioni teorico-metodologiche, la tesi di laurea triennale. O almeno la tesina per sostenere l’esame di Semiotica dei nuovi media. Se invece il/la candidato/a si è appena laureato/a in Scienze della Comunicazione, sarà comunque un’esperienza formativa rilevante. E con un decoroso rimborso spese. 🙂
PRIMO STAGE
Chi: Azienda Usl di Modena.
Dove: a Modena, all’interno dell’Ufficio Stampa e relazioni esterne della Ausl.
Obbiettivi: studiare i potenziali usi dei social network per migliorare il dialogo tra sanità pubblica e cittadini.
Requisiti del/la candidato/a: laureando/a o neolaureato/a in Scienze della Comunicazione con ottima conoscenza e pratica dei social network (non basta avere un profilo Facebook per dire di conoscerli, ma occorre sapersi muovere un po’ su tutto il web 2.0). Doti personali e relazionali: (1) passione, (3) spirito di iniziativa, (4) affidabilità. Occorre anche, ovviamente, avere interesse per i temi del rapporto fra istituzioni pubbliche e cittadini.
Rimborso spese: 500 euro al mese.
Chi contattare per candidarsi: a.pignatiello chiocciola ausl.mo.it e me (a ricevimento) per concordare la tesi o tesina.
SECONDO STAGE
Chi: Nevent, azienda di relazioni pubbliche e comunicazione.
Dove: a Modena, all’interno dell’Ufficio stampa e relazioni esterne di Nevent.
Obiettivi: studiare modalità “alternative” di promozione di un evento sportivo internazionale (dal guerrilla marketing all’uso dei social network).
Requisiti del/la candidato/a: laureando/a o neolaureato/a in Scienze della Comunicazione con buona conoscenza dell’inglese (favorita, seppur non necessaria, anche la conoscenza dello spagnolo, oltre all’inglese), ottima conoscenza e pratica dei social network (non basta avere un profilo Facebook per dire di conoscerli, ma occorre sapersi muovere un po’ su tutto il web 2.0), buona conoscenza delle tecniche (e dei limiti) del marketing non convenzionale. Doti personali e relazionali: (1) passione, (3) spirito di iniziativa, (4) affidabilità.
Rimborso: 500 euro al mese.
Chi contattare per candidarsi: pignatiello.a chiocciola gmail.com e me (a ricevimento) per concordare la tesi o tesina.