«L’Italia è una Repubblica democratica fondata sulla Bellezza». È così che Oscar Farinetti cambierebbe il primo articolo della Costituzione. L’ha detto due giorni fa, durante la conferenza stampa per l’apertura a Milano di Eataly Smeraldo. Ha detto molte altre cose, a dire il vero, virando le sue dichiarazioni, come sempre fa, a sostegno di Renzi. Tipo: ««Il contratto unico? Un’idea geniale di Matteo», e ancora: «Bene che crei aspettative purché non diventi romano. E dategli una mano anche voi, non rompetegli le palle». Cosa c’entra la bellezza con la politica? e con la costituzione? C’entra, c’entra da anni. Continua a leggere →
Ogni volta che scrivo di comunicazione politica, puntualmente qualcuno legge ciò che ho scritto in modo strumentale. O meglio, lo strumentalizza ma accusa me di averlo scritto in modo strumentale: come se io usassi le mie analisi per “parteggiare” per l’una o l’altra parte politica. Poiché da quando scrivo su questo blog e sul Fatto Quotidiano ho analizzato la comunicazione di (quasi) tutti i politici, sono stata definita a turno (anche con rabbia): veltroniana e antiveltroniana, bersaniana e antibersaniana, berlusconiana e antiberlusconiana, finiana e antifiniana, leghista e contro la Lega. Più di recente (ieri incluso), alcuni mi hanno accusata di essere Continua a leggere →
Nella lettera di Walter Veltroni che oggi appare su Repubblica“Evitiamo le scissioni per salvare il Pd”, è disarmante il muscuglio di buona volontà e inutilità. Ho notato in particolare uno spostamento dalla retorica dell’aggiunzione, con cui nel 2008 metteva assieme i concetti più disparati, combinando l’incombinabile (“ma anche”), alla retorica della negazione con cui cerca di definire il Pd solo attraverso i “non siamo”, mai in positivo. Ecco come fa: Continua a leggere →
Ci sono diversi passaggi, nel discorso di Gianfranco Fini a Mirabello, che starebbero bene in bocca a un leader del centrosinistra. Vecchia storia, quella del «compagno Fini», «l’unico a fare vera opposizione», come ripetono sottovoce i delusi del Pd che, anche se non lo voterebbero mai («un erede di Almirante, come si fa?»), restano ad ascoltarlo rapiti.
I motivi per cui Fini sembra di sinistra sono tanti.
Innanzi tutto, l’atto di plateale insubordinazione a Berlusconi, con tutti i dettagli di rito: dito puntato, muso duro, parole ferme.
E poi i temi. Nel discorso di Mirabello Fini ha parlato, fra l’altro:
(1) di lavoro precario, scuola e disoccupazione;
(2) di necessità di investire sulla cultura e sul welfare, un welfare che non si rivolga solo alle categorie disagiate (ammalati, disabili, anziani), ma sia a sostegno della famiglia (e qui io intendo «lavoro delle donne», ma lui purtroppo ha parlato di «famiglie monoreddito»);
(3) di giovani e fiducia nel futuro.
È chiaro: Fini si ispira alla destra tradizionale che condivide, come tutti sanno, questi temi col socialismo tradizionale.
E tuttavia, tornando all’attualità, il punto non sono i temi, ma il modo in cui vengono comunicati. E cioè: anche i leader del Pd (Bersani, Veltroni, Franceschini) parlano di lavoro precario, scuole, welfare, giovani e compagnia bella.
Ma la retorica del Pd è: «Cari precari, cari giovani, cari disagiati, siamo con voi perché siamo come voi». Non credibile, detto da anzianotti (di mente, prima che anagrafe), che guadagnano un sacco di soldi al mese e hanno stili di vita totalmente diversi da quelli della gente a cui pretendono di assimilarsi.
La retorica di Fini invece è: «Cari precari, cari giovani, cari disagiati, io sono con voi anche se non sono affatto come voi (per esempio io sto in Parlamento e voi no). Ma vi prometto che mi occuperò di voi come un buon padre di famiglia, perché è giusto farlo e perché sono abbastanza competente e affidabile per farlo».
In altre parole, Fini promette cose, mentre a sinistra si piange e ci si compiange assieme al pubblico. Inoltre, la promessa non suona ipocrita in partenza, perché non si fonda su una falsa assimilazione. Last but not least, è rassicurante, perché è comodo pensare che qualcun altro più capace e potente di noi si occupi di risolvere i nostri problemi. Non male, eh?
Ecco il passaggio «più a sinistra» del discorso di Mirabello:
YouDem, la tv ufficiale del Pd ha deciso di trasmettere il dopofestival di Sanremo, al grido di «Gliele cantiamo noi» (grazie ad Angelo per la segnalazione). «Un partito popolare deve andare dove sta la gente», ha detto Pier Luigi Bersani per spiegare l’operazione.
Sacrosanto il principio. Non credibile il modo. E ridicolo in senso letterale: fa proprio ridere.Ma si ride del Pd, non dei suoi avversari politici. E non è autoironia. È autogol.
Quei brillantoni della comunicazione del Pd hanno infatti pensato di accoppiare a ogni uomo o donna di partito un cantante, chiedendo agli spettatori di YouDem e ai navigatori del sito di «votare la coppia».
La maggior parte delle coppie (con tanto di & commerciale) sono già risibili in sé: Melandri & Arisa, Marino & Povia, Veltroni & Malika Ayane, Finocchiaro & Valerio Scanu, Fassino & Fabrizio Moro, Vendola & Marco Mengoni, Franceschini & SonHora, Letta & Simone Cristicchi, Bonino & Nino D’Angelo, Marini & Toto Cutugno, D’Alema & Pupo, Emanuele Filiberto e Luca Canonici (l’elenco completo QUI).
Ma con la presentazione visiva la parodia è completa: facce degne di un tiro al segno del luna park, in una combinazione scontornata che ricorda certi ninnoli gommosi che i preadolescenti attaccano al cellulare, o certi magneti da frigorifero. Con tanto di fiorellino colorato.
Avevo già notato l’anno scorso l’inclinazione del Pd all’autoparodia: ricordi il celebre «I am Pd»? Ricordi il rap che alcuni sostenitori di Rosy Bindi le dedicarono a Pisa? (vedi Credevo fosse una parodia, Un’altra parodia che non lo è).
Ormai la tendenza è sistematica, istituzionale.
Idea per una tesi: le produzioni autoparodistiche del Pd da un paio d’anni a questa parte. Un’analisi retorico-semiotica dei dispositivi visivi, verbali e audiovisivi.
Dopo ogni manifestazione di piazza, scattano puntuali le polemiche sulle cifre: due milioni di partecipanti, un milione, 300mila… bah. Non ho occhio per queste cose: a malapena riesco a distinguere se nell’aula in cui faccio lezione ci sono 50 o 100 presenze, dopo anni di didattica. 😮
Con numeri più grandi, poi, l’impresa per me si fa impossibile.
Mi conforta il fatto di non essere l’unica, a non esser capace. Perché è su questa specie di cecità che fanno leva i leader politici dopo ogni evento di piazza: gonfiano (o sgonfiano) i numeri – a seconda delle convenienze – da poche centinaia di migliaia a milioni (o viceversa).
NELL’ARENA 300MILA POSTI: I MILIONI SONO SOLO LEGGENDA
di Marco Ludovico
La gara a chi la spara più grossa trova sempre un nuovo vincitore, se si tratta delle cifre sulle manifestazioni politiche e sindacali. Aspettiamo, dunque, i numeri di oggi. Sorridono intanto sotto i baffi i dirigenti del Viminale: da tempo hanno deciso di non dare più le loro stime, per non entrare nel conflitto politico. Ma la matematica non è un’opinione.
Il Circo Massimo, in base alla sua estensione (72mila metri quadrati), calcolando un massimo di quattro persone a metro quadro – ed è già tanto – contiene al massimo 300mila persone. Nel 2002 Sergio Cofferati, contro il terrorismo e le modifiche all’articolo 18, portò un mare di persone anche oltre la piazza, ma i tre milioni dichiarati dagli organizzatori erano evidentemente sopravvalutati. Il successo di quell’evento è incontestabile, ma da allora è partita una rincorsa nelle stime senza limiti.
Per gli organizzatori scendere sotto il milione è ormai sinonimo di insuccesso. Ecco allora che si è arrivati anche a duplicare le stime. Nel 2006, a piazza San Giovanni, Silvio Berlusconi dichiarò «due milioni» di manifestanti: peccato che, con lo stesso inattaccabile criterio di calcolo della questura di Roma usato per il Circo Massimo, in quel luogo ce ne possono stare al massimo 150mila. Lo ha fatto Rifondazione l’anno scorso nella medesima piazza romana («Siamo un milione!» ma erano 150mila), lo ha fatto poco prima An al Colosseo («Siamo mezzo milione» in realtà circa 60-70mila).
Dirigenti del dipartimento di Pubblica Sicurezza, come Carlo De Stefano (oggi capo dell’antiterrorismo) o Nicola Cavaliere (vicecapo della Polizia), quando erano giovani poliziotti in ascesa hanno contribuito più di ogni altro a raffinare i metodi di calcolo. Ma allora si aveva a che fare con bugie più soft. Come quando negli anni Ottanta del secolo scorso piazza del Popolo era appannaggio della Destra, in testa il segretario Msi Giorgio Almirante. Mentre il piazzale davanti alla Basilica di San Giovanni rimaneva per tradizione della sinistra. Si faceva a gara, in quel caso – specie se c’erano due manifestazioni in contemporanea – a dire qual era la piazza più affollata. Peccato che piazza del Popolo può contenere al massimo 60mila persone: il Msi non avrebbe mai potuto vincere.
Sempre in quegli anni la Polizia ricorda le angosce della sinistra, quando a San Giovanni si temeva un afflusso inferiore al previsto: con la corsa affannosa a posizionare il palco dei leader al centro della piazza, per mostrare alle telecamere il tutto esaurito. Dietro, però, c’erano centinaia di metri quadrati deserti.
Scrivendo ieri della “manifestazione semplice, solare e bella” di Veltroni, mi sono ricordata di una conversazione che qualche anno fa ebbi con Maria Luisa Altieri Biagi, grandissima linguista e splendida persona che per anni ha onorato della sua presenza il Master che dirigo. Parlavamo di parole logore ed espressioni abusate, e per un po’ ce le siamo scambiate come figurine.
All’epoca la professoressa teneva una rubrica sul Resto del Carlino e La Nazione. Ho trovato in rete la puntata che emerse dalla nostra conversazione.
“Complicità” cercasi
di Maria Luisa Altieri Biagi
Giovanna Cosenza – che insegna Semiotica a Scienze della comunicazione, nell’Università di Bologna – mi segnala per posta elettronica l’ultima vittima del bla-bla universale: è la parola “complicità”, “…logorata da usi e abusi televisivi e non. Nel mondo degli annunci personali tutti cercano complici e complicità…”.
Per averne conferma, basta assistere, su Canale 5, alla trasmissione “Uomini e donne”: rappresentanti dell’uno e dell’altro sesso si corteggiano e si esibiscono per individuare “a pelle” un compagno che sia “solare” ma, al tempo stesso, “intrigante”; insomma “una bella persona, fuori e dentro”, con cui realizzare un rapporto di “complicità”.
Che due persone siano sentimentalmente “complici” è accettabile se si vuol sottolineare la confidenzialità di un’intesa che esclude tutti gli altri. Ma il trasferimento di “complice” dalla sfera del crimine a quella dell’amore dovrebbe rimanere scelta episodica, di tipo espressivo, come è negli Indifferenti (1929) di Alberto Moravia: «Cercò sotto la tavola il piede della fanciulla e lo premette come per invitarla a ridere con lui; ma come prima ella non rispose a questo suo confidenziale e complice contatto».
Il guaio è quando “complice”, “complicità” si irrigidiscono nell’uso espressivo e diventano tessere pronte all’uso (“stereotipi”), sostitutive di parole che potrebbero dire la stessa cosa con più semplicità o con maggiore aderenza: cercare un’ “intesa”, un rapporto di “confidenza”, di “intimità”, di “comprensione reciproca”, di “alleanza sentimentale”, di “partecipazione emotiva”, ecc. Senza escludere parole ed espressioni ancora più semplici, che sarebbero le più giuste in una trasmissione che vuole sostituire la “realtà” quotidiana alla “finzione televisiva”.
Ma “Uomini e donne”, davanti alle telecamere, cercano di impreziosire il loro discorso: «Il modo in cui “ti poni” mi “urtica”» – ha detto una signora del pubblico a un “corteggiatore” che le stava antipatico! E voleva dire: il tuo modo di fare mi “irrita”, mi “dà noia”, mi “dà fastidio”, mi “indispone”, non mi “piace”, non mi “va giù”, non mi “va a genio”, non mi “sfagiola”, ecc.; ma è stata rimproverata dalla conduttrice e ha rinunciato alla sua perla. Ha invece attecchito “prototipo”, in un dialogo in cui la parola giusta sarebbe stata “tipo”: «Sono il tuo “prototipo” d’uomo?» // «Sì, sei il mio prototipo!».
Perché “Uomini e donne” preferiscono “urtica” a “irrita”, “prototipo” a “tipo”, “complicità” a “intesa”?
Perché credono che queste parole “riempibocca” siano eleganti, nobilitanti; non si rendono conto che invece – quando non siano sbagliate – sono solo più pretenziose delle parole semplici, quotidiane (ma ricche di linfa), che “incantavano” Umberto Saba, uno dei più grandi poeti del Novecento: “Amai trite parole che non uno/osava. M’incantò la rima fiore/amore,/ la più antica difficile del mondo”.