Qualche giorno fa abbiamo discusso se Google News fosse di parte, se cioè selezionasse o meno le notizie in base a qualche valutazione dei loro contenuti. Lo so che di solito leggi i post ma trascuri i commenti, nell’idea che siano meno rilevanti. (A meno che tu non abbia commentato a tua volta, nel qual caso vai a vedere se ci sono reazioni.) Stavolta ti suggerisco di tornare comunque sui commenti: ne vale la pena.
Ma se proprio non ce la fai, ecco come una studiosa del gruppo Ippolita – che di Google, come si dice, ne sa a pacchi (vedi anche questo post) – ecco come riassume per noi la faccenda:
“Se vogliamo capire il fenomeno Google dobbiamo capire come ‘pensa’. Per farcene un’idea dobbiamo ragionare sia in termini squisitamente tecnici, che ricercare la sua identità culturale.
Non credo che il problema sia la ‘credibilità’ di Google. Google risponde a precise regole tecniche e precisi dettami ideologici. È coerente prima di tutto con se stesso, non rispetto a ciò che io o il New York Times pensiamo che sia l’obiettività. Google risponde a un’ idea propria di ciò che è considerabile autorevole.
La vera forza del Colosso di Mountain View sta nell’aver affermato la sua struttura matematica nonché configurazione filosofica come contenitore universale.
Ci rivolgiamo a Google perché implicitamente lo accettiamo come il miglior strumento tecnico e il più neutrale dispensatore di informazioni.
Il modo più lineare di procedere verso un disvelamento dell’oggetto digitale Google è cercare di comprendere come pensa, cosa desidera, come guadagna. Certamente questi elementi saranno fattori determinanti sui risultati che il motore di ricerca ci propone. In fondo Google ci sta solo vendendo un punto di vista, siamo noi ad aspettarci erroneamente che contenga tutto il web (o peggio ancora che debba contenerlo)
Off topic (ma non troppo), consiglio la lettura di Zero Comments. Teoria critica di Internet di Geert Lovink” (firmato: hy di Ippolita).
Internet è globale?
Dipende da cosa intendiamo per globale. Se ci limitiamo a pensare a una infrastruttura di reti informatiche che si estendono su (quasi) tutto il pianeta, possiamo dire che è globale (quasi). Se vagheggiamo una comunicazione trasversale fra culture, etnie, religioni, lingue diverse, allora togliamoci ogni illusione: Internet non è globale.
Nelle parole di Geert Lovink, teorico dei media olandese:
«Per la cultura dominante anglo-americana la “globalizzazione” di Internet è stata più evidente a causa della sua ignoranza, voluta e organizzata, e della sua scarsa conoscenza delle lingue straniere. Non tutti colgono il significato del fatto che i contenuti in inglese siano scesi ben al di sotto del limite del 30 per cento.
Inoltre la crescita ha portato a un’ulteriore “nazionalizzazione” del cyberspazio, soprattutto attraverso l’uso delle lingue nazionali, in contrasto con la presunta assenza di frontiere della rete – che forse non è mai esistita: le aziende occidentali di information technology sono più che felici di aiutare i regimi autoritari con i firewall nazionali. Come si suol dire, il mondo è grande.
Oggi la maggior parte del traffico Internet è in spagnolo, mandarino e giapponese.
Questa fotografia si complica ancora di più se si prende in considerazione il potenziale di convergenza di due miliardi di utenti di telefoni cellulari, della blogomania in Iran, del fatto che la Corea del Sud possiede una delle più dense infrastrutture broadband, e della crescita della Cina.
Chi mai direbbe che Polonia, Francia e Italia sono fra le nazioni europee con più blog?»
(G. Lovink, Zero Comments. Teoria critica di Internet, trad. it. Bruno Mondadori, Milano, 2008, p. 5).
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