«Ho fatto carriera, prof, ma vivo in un mondo di squali e temo di esserlo diventato anch’io»

Ragazzo triste manga

Ricevo da Paolo (nome di fantasia), che oggi ha trentaquattro anni e si laureò con me tanti anni fa, una mail che, pur coperta da anonimato, mi chiede di pubblicare perché molti giovani, mi assicura, vivono situazioni analoghe alla sua senza trovare le parole per raccontarle e forse senza nemmeno rendersene conto, ma non per questo, secondo Paolo, il loro disagio e in certi casi addirittura la loro sofferenza sono meno acuti:

«Cara prof, si ricorda di me? Mi laureai con lei tanti anni fa, con una tesi sul marketing esperienziale, una delle prime su questo argomento, che poi negli ultimi anni è andato talmente di moda da inflazionarsi. Lavoro nella sede italiana di una grande multinazionale del settore ICT, ho uno stipendio di tutto rispetto e posso dire di aver fatto una carriera rapida e brillante, essendo subito diventato responsabile di progetto ed essendo ora a capo, da sei mesi a questa parte, di un intero gruppo di lavoro. Ma non è per vantarmi dei miei successi che le scrivo (anche se di questi tempi potrebbero essere incoraggianti per molti laureati in discipline umanistiche come me), ma per raccontarle quanto mi siano costati e mi costino in termini personali, e quanto costino a chi, come me, si adatta in fretta alle regole aziendali pur di arrivare.

Ho fatto carriera, prof, lo riconosco, ma vivo in un mondo di squali e temo di esserlo diventato anch’io. Nella mia azienda c’è gente che ammazzerebbe la madre, anzi no, forse l’ha già ammazzata, pur di ottenere un premio di produzione a fine anno, uno scatto di carriera, una missione ritenuta più prestigiosa di altre. Pur di fare le scarpe al collega anagraficamente o professionalmente più anziano, pur di dimostrare – ai colleghi, agli amici, a se stesso – di essere capace di ottenere in fretta uno stipendio più alto e una posizione migliore di quel collega, quell’altro e quell’altro ancora.

Si dice sempre male delle nostre amministrazioni pubbliche, in cui niente funziona, i dipendenti lavorano poco e male, tutto va al rilento o resta immobile. Al contrario, siamo tutti pronti a tessere le lodi delle aziende che all’estero funzionano, quelle in cui c’è la cosiddetta meritocrazia, con i premi a fine anno, gli scatti di carriera legati alla produttività, la competizione a mille. Ebbene, cara prof, io lavoro da otto anni in una di queste meravigliose multinazionali che funzionano, accidenti se la mia azienda funziona: fatturati in crescita, assunzioni a gogò, una gerarchia che quando entri ti mostra subito – per allettarti – tanti bei gradini da poter scalare. Rapidamente, se sei capace e pronto a tutto.

Ma a quale prezzo, prof? Qui dentro è una guerra continua fra fazioni contrapposte, che seguono i vari capi in conflitto fra loro. Viviamo chiusi qui dentro dieci ore e passa al giorno e il nostro mondo comincia e finisce qui, un mondo che ci sembra grande perché l’azienda ha migliaia di dipendenti sparsi nei cinque continenti, perché ti fanno viaggiare molto, perché durante il giorno parli più in inglese che in italiano, ma in realtà è un mondo ristretto, asfittico. Così, in questo perimetro chiuso, un ostacolo (che magari, visto da fuori, potrebbe sembrare piccolo) è sempre vissuto come una montagna da scalare, lo sgarbo di un collega diventa un’onta da lavare col sangue, un premio semestrale è presentato (e vissuto) come fosse un Nobel per l’economia. Per di più, vivendo dieci o dodici ore al giorno chiusi qui dentro, è quasi impossibile avere una vita privata che non abbia a che fare con l’azienda, perché gli amici te li sei fatti in azienda, la fidanzata, la compagna o la moglie è una collega, e per quel che riguarda il tempo libero, be’, il bar è qui dentro, il ristorante, la palestra e persino il cinema sono qui dentro e… cosa vuoi di più dalla vita?

Già, cosa voglio di più dalla vita? Non lo so cosa voglio, ma so che non ce la faccio più. Il problema è la tensione, la guerra, la continua competizione. Ed è una tensione talmente alta, prof, che ti accompagna sempre, anche quando dormi (da anni i miei sogni sono ambientati in azienda), anche nella vita di coppia (non le dico la competizione che c’è fra me e la mia morosa), anche nelle amicizie (non le dico quante delusioni ho ricevuto da chi mi pareva un amico e invece alla fine mi ha tradito, sempre per questioni di lavoro). Ma il problema peggiore è che ho paura di essere diventato anch’io come loro, come il peggio del peggio di quello che le sto raccontando. Qualche giorno fa si è licenziato Mario, un uomo di cinquantacinque anni, sposato, con due figli all’università, mille problemi in casa e, da qualche anno, mille problemi anche in azienda. Talmente tanti e talmente gravi i suoi problemi, in azienda, che è arrivato a dare le dimissioni spontaneamente. Che problemi aveva Mario in azienda? Scarsa produttività, lentezza, poca capacità di adattamento al nuovo, dicono i capi. Ma io lo so che non è così, cara prof, perché i problemi di Mario erano altri.

Il problema di Mario ero io, prof, io che in pochi anni ho ottenuto più riconoscimenti e uno stipendio più alto di lui, io che da sei mesi ero a capo del suo team di lavoro, per cui a cinquantacinque anni doveva prendere ordini da me, vent’anni più giovane, io che so essere duro, durissimo con me stesso e con tutti, io che lo sono stato anche con lui. Sono io la vera causa delle dimissioni di Mario, prof. Ho scritto prima che da anni i miei sogni sono ambientati in azienda. Non è vero, o almeno, non è più vero oggi: da quando Mario si è licenziato io non sogno più perché di notte non dormo più. Sono diventato anch’io uno squalo, prof. Uno squalo come loro.»

46 risposte a “«Ho fatto carriera, prof, ma vivo in un mondo di squali e temo di esserlo diventato anch’io»

  1. Il mio incubo peggiore. Altro che sogno. Solo che nelle aziende di un certo livello se non sei squalo, puoi essere solo sardina ed essere divorato da chi è “più bravo” di te. Poi ci sono gli sciacalli dalla lingua lunga ma quello è un altro paio di maniche. La società ci vuole così e, se non te la senti, molla tutto e vai per la tua strada.

  2. Più o meno la normale routine di ogni posto di lavoro. Mai visto un clima alla volemose bene da qualche parte. Gli uffici sono un posto dove ci si odia ma non si può darlo troppo a vedere, quindi nel farlo si usano le forme di cortesia.

  3. Ora, Giovanna, io ho letto e anche a me è presa la stretta di angoscia. Però, c’è un però. Nelle grandi multinazionali (un po’ dappertutto a dire il vero) ci sono vari livelli di corsa e di impegno. Vari percorsi di carriera. C’è la corsia veloce, quella degli squali con l’astrakan nello stomaco (o di quelli che si realizzano solo nella professione, fatti loro, non giudicherei). Ci sono anche quelle del lavoro attento, rigoroso, indispensabile, ma meno affannato. E non è vero che questo livello è quello dei reietti che via via vengono licenziati. Ora, il problema è quello del livello di competitività, e di alienazione. La fatica di trovare un equilibrio tra questi due parametri che spesso si accompagnano è notevole, ma è lì la chiave della soddisfazione personale. Che, del resto, non pervade l’impiegato o il funzionario dell’azienda pubblica, spesso preda di logiche altrettanto competitive e alienanti, solo un po’ più ingessate, a volte.

  4. Che tristezza. C’è da dire che almeno lui se ne rende conto e quando te ne rendi conto sei sempre in tempo per cambiare, se davvero è ciò che vuoi.
    E’ vero che l’ambiente di lavoro delle grandi aziende è così e purtroppo ci vogliono tanti requisiti per andare avanti, ma l’unico, il più importante, imprescindibile è: non avere cuore.
    Io, mentre ero disoccupata, ho fatto una sostituzione maternità per sei mesi, in un’azienda del genere, sostituivo la coordinatrice ufficio acquisti. Non so perché abbiano preso me, sinceramente mi è sembrato quasi assurdo, credo che la responsabile di settore lo abbia fatto solo per fare uno smacco ad altre dipendenti che aspettavano la maternità della collega per passare da impiegata semplice a coordinatrice e poter dimostrare le capacità, o forse perché le stavano sulle palle, cosa di cui non ha mai fatto mistero. Mi sono trovata a dover, sotto ordini diretti della responsabile, tartassare colleghe che conoscevo appena e avevano 15/20 anni più di me, persino per quanto erano lente a battere a PC.
    Quando sono finiti i sei mesi per cui avevo firmato il contratto ho avuto la possibilità di stare altro tempo perché la ragazza in maternità voleva stare a casa un po’ di più. Beh, nonostante il lavoro al giorno d’oggi sia cosa rara, ho rifiutato. Mi stava venendo un esaurimento nervoso. Non conoscevo quelle donne e non avevo rapporti d’amicizia con loro, tra le altre cose mi odiavano già per principio perché convinte che avessi avuto il posto perché figlia di qualche amica della responsabile, cosa non vera, mi ha mandata lì un’agenzia interinale e io prima manco la conoscevo quell’azienda, tra l’altro la responsabile anziché diminuire queste voci penso le alimentasse anche, penso proprio ci godesse a schiacciare quelle impiegate e per farlo spesso si serviva anche di me. Come dicevo, seppur non le conoscessi, dopo un tot di mesi era diventato terribile perché dovevo umiliarle di continuo e loro mi odiavano sempre di più e io mi vergognavo.
    Non vedevo l’ora che scadessero i sei mesi del contratto e quando mi hanno proposto di restare ancora un po’ ho rifiutato e ho preso la porta scappando.

  5. poi non aggiungo altro giuro, ma perché è un tabù avere un capo più giovane? A me non dà alcun fastidio, ci sono colleghi in grado più alto che hanno dedicato più tempo alla carriera o, semplicemente, sono più bravi. Perché la dobbiamo subire come un’onta o, peggio, come un’ingiustizia inaccettabile?

  6. La lettera è esemplare ma una domanda: cosa vieta a Paolo di provare almeno a cercare un nuovo lavoro – una nuova vita – che senta più rispondente alle propria etica e ai suoi sentimenti? Esperienza ne ha fatta, ha preso coscienza, ha dato testimonianza e un utile insegnamento – volente o nolente – soprattutto per i giovani. Può riprendere in mano alla sua vita e provare 🙂 Auguri sinceri

  7. Cara prof anch’io ho fatto una discreta carriera in una sorta di multinazionale con più di mille dipendenti nei cinque continenti. Si può fare carriera anche senza perdere o far perdere la dignità. Non si tratta di essere buonisti (quando c’è stato da rimproverare, criticare o anche licenziare l’ho fatto) ma di ricordare in ogni circostanza che gli altri sono persone e che il capo (ma anche il collega) è al servizio degli altri. Ricordare che non esistono solo la motivazione estrinseca o intrinseca ma anche quella trascendente (far qualcosa per un bene più grande o che ripercuota su altri). A me finora è andata bene anche così e l’ambiente è positivo, motivante e di collaborazione.

  8. E se fossimo “Squali” solo perché circondati da pesci rossi?
    Il signor “compitino” non mi è mai piaciuto, se solo ci fossero più aziende capaci di valorizzare le proprie risorse con benefits e riconoscimenti ad hocratici basati sul merito…

  9. Io lavoro da 20 anni nell’ITC, nessuno mi ha mai puntato una pistola alla testa per costringermi ad essere un pezzo di merda e se decidessi di comportarmi da tale sarebbe una responsabilità mia anche se probabilmente accuserei il sistema.

  10. Stiamo al gioco. Form follow finction. Facciamo finta che il raccontino da libro Cuore abbia una sua plausibilità e rispondenza quasi-reale.
    Paolo, guarda che la tensione, la guerra, la continua competizione la vedi solo tu. Non esiste se non nella tua testa bacata. E anche Mario, dai, non sei così importante. Sei una merdina che, ricevuti i giusti insegnamenti, ha fatto strada ed è diventata una cosa che, non preoccuparti, non va a fondo: si dice di essa che galleggia.
    Diversi anni fa ho avuto a che fare con un ometto tuo pari. Si faceva annunciare dai suoi sottoposti… il dottor M. le ha fissato un appuntamento per le.. mi raccomando puntuale! Cose così. Per un po’ abbiamo fatto finta che quello che facevo io lo aveva pensato lui. Sinché, un bel mattino, lo AD lo chiama e la sbatte fuori all’istante.
    Dopo qualche mese mi chiama: “Ciao, sono M., ti ricordi di me? Volevo dirti che ho lasciato l’azienda per incomprensioni, sto valutando diverse offerte… se, nel frattempo, avessi bisogno di una mia consulenza…” “Volentieri, dottore, le farò sapere!”.
    Questo per dirti, Paolo, che dovresti fare un piccolo sforzo e cercare di capire quanto vali tu, indipendentemente dall’organismo (proprio in senso biologico) nel quale sei immerso. Secondo me vali poco, diversamente non ti saresti lasciato plasmare in quel modo. Ma le feci, si sa, sono mollicce proprio per conformarsi al suo estrusore, lì dove trascorri la tua vita.

  11. “Ognuno è figlio del suo tempo
    Ognuno è complice del suo destino
    Chiudi la porta e vai in Africa, Celestino! “
    Recita una vecchia canzone di de Gregori

    Se Paolo si è accorto di questo , buon segno : non è ancora uno squalo..
    Questa malattia è un po’ come l’AIDS : se lo conosci , lo eviti.. Non ti uccide

    Con l’esperienza che Paolo si ritrova può cercare un’azienda a dimensione più umana . Ci sono., per fortuna Potrà anche capitargli di trovarne una, magari meno importante ma più intelligente , in cui ascolteranno la sua esperienza ed i suoi suggerimenti.
    E’ successo a me e con l’ultima azienda ho lavorato fino alla pensione .
    In ogni caso ci sono dei “trucchi” per sopravvivere fra gli squali : dare ossigeno alla propria vita interiore mantenendo spazi personali e periodicamente monitorare questi nostri progressi.
    “Brodo caldo per l’anima “ si diceva una volta.
    Utile-necessario , per Paolo , coinvolgere la morosa . Se la morosa non ci sta , cambiare la morosa .
    Se Paolo riesce a mettere insieme il cambio di lavoro ed il cambio di “morosachenoncista” il Bingo è assicurato.
    Sempre per citare la stessa canzone di de’ gregori :
    “ “ ognuno è figlio della sua sconfitta
    Ognuno è libero col suo destino
    Butta la chiave e vai in Africa , Celestino !,

  12. Guydebord, dall’alto di cosa giudichiamo con tale ferocia gli altri? Dall’alto di un nome preso indebitamente in prestito?

  13. Il problema della gerarchia capitalista é figlia di quest’ epoca. È un identitá sociale che va smantellata e riscritta come Silvano Agosti in alcuni passaggi sottolinea:” siamo schiavi di noi stessi e del lavoro. Viviamo per lavorare e non lavoriamo per vivere.”

  14. Lettera molto intensa, davvero e pone un problema che chi ha l’età di chi scrive (che più o meno è la mia) sente molto se fa lavori di un certo tipo. Detto questo, credo – e vi giuro: non voglio buttarla in caciara, né offendere nessuno, è solo una provocazione – sia un esempio di come la nostra generazione abbia vissuto un’infanzia-adolescenza-prima giovinezza in un’epoca (forse) economicamente irripetibile e del fatto che vogliamo tutto, non solo il pane, non solo le rose, ma pure il Mac Book Pro gratis.

    Cioè, tornando alla lettera, non è un po’ ingenuo pensare di avere il lavoro importante e poi lamentarsi se questo comporta delle responsabilità?

    Ho passato anni a sentire che la mia generazione è destinata al call center, poi uno che ce la fa e arriva in posizioni alte e si lamenta del fatto che ha responsabilità?

    Ma allora, che vogliamo: stipendi da capogiro, super bonus, e nemmeno un briciolo di obblighi?

    Possibile che il nostro (parlo ovviamente a grandi linee, sto generalizzando e – volutamente – provocando) unico orizzonte sia una sorta di “adolescente con stipendio” riassumibile nell’ormai stucchevole parodia del grafico italiano a Berlino? Quando diventeremo grandi, con tutti i bocconi amari da ingoiare che questo comporta?

  15. Nel mondo dell’ICT c’è una terza via tra l’azienda a conduzione familiare alla “volemosebbene” e la multinazionale di squali.
    C’è l’azienda grande o piccola che riconosce il valore delle persone e impiega principi lean e agile nell’organizzazione dei team.
    Parlo di Google, LinkedIn, Spotify e di migliaia di altre startup o aziende in giro per il mondo che adottano questi modelli e ne sperimentano di nuovi.

    L’Italia è come al solito indietro di almeno 10 anni nell’ambito della cultura manageriale e chi ha sempre vissuto e lavorato solo in Italia tente a non pensare che esistano “altri” modelli.
    In letteratura si trovano invece, storicamente, almeno 3 stili di leadership:
    1) il leader eroe, che lo devi seguire e basta senza fare tante domande. E’ il modello più primitivo e – in Italia – ancora il più diffuso.
    2) il “servant leader”, metafora nata negli anni ’70, il cui il leader é colui che serve il resto del team.
    3) il “leader ospite”, metafora elaborata molto recentemente, in cui il leader si comporta come l’ospita che organizza una festa a casa propria.

    Non voglio entrare nei dettagli, ma sono convinta che il terzo stile di leadership sia il migliore.
    Unito a team agili in cui il team si autoorganizza e non esistono gerarchie.
    In Spotify, ad esempio, i team non hanno project managers o responsabili. Hanno solo una missione (es: raddoppiare il numero di brani ascoltati da un utente in un mese) e poi devono essere loro a trovare, sperimentare e validare la soluzione.
    Lo stesso modello è usato da Google e da tante delle aziende di maggior successo in ambito ICT.

    Riguardo all’autore della lettera l’unico commento che mi sento di fare è che una scelta esiste sempre. Puoi rifiutarti di diventare uno squalo. Uno stipendio uguale – o migliore – lo puoi ritrovare. In Italia o all’estero. E comunque nessuno stipendio vale la tua dignità e la tua umanità. Ti sei reso conto del problema e questo è un primo, ottimo passo. Adesso devo continuare sulla strada del cambiamento. Per riappropriarti della tua vita 🙂

  16. Pingback: Caro Paolo, non sentirti in colpa! |

  17. Questo è anche un po’ il mio incubo, e lo è già da tre anni. Perché tre anni fa? Perché questa atmosfera da homo homini lupus l’ho percepita per la prima volta ai test d’ingresso alle facoltà universitarie.
    Nelle due ore abbondanti in cui i ragazzi aspettano l’inizio della prova, le chiacchiere nervose fra perfetti sconosciuti non si liberano mai di sguardi attenti e leggermente sospetti, che neanche un cervo nel territorio di caccia di un lupo.
    Durante l’università ce ne dimentichiamo, la competizione c’è ma si sente di meno, ma la verità è che i denti snudati li vediamo fin dall’inizio. E fa male, sì, ed un po’ paura.

  18. Beh, Paolo (?) se tutto è tarato sul profitto e se in più lavori come esperto di marketing cosa ti aspettavi di trovare?

  19. @anna muchi
    Dal basso, dal basso, non dall’alto. Perché credo che “Paolo” non esista come persona e che Giovanna Cosenza ricomponga in un modello esemplificativo più tipi che, in forme forse meno prototipali, esistono davvero. O, almeno, questo è il mio intendere il disambiguare.
    Il rampantismo becero che pervade l’ambiente del lavoro e non solo è, per sua natura, conservatore e totalmente anti-progressista anche se si veste di modernità.
    Il nostro Presidente del Consiglio ne è un bell’esempio. (Letta come Mario?). In questo blog buonista e sempre più simile a “la posta del cuore” la provocazione verbale può forse favorire il dubbio e generare contromisure per non diventare come il pentito Paolo o come una delle sue componenti.
    Una delle migliori aziende al mondo, la Olivetti, non favoriva minimamente il rampantismo e gli sgomitamenti ma elegeva il talento. Un altro modo può esistere.
    In quanto a Guy Debord, come vede lo scrivo tutto attaccato e vuol essere una citazione de La società dello Spettacolo. Ed è un modo di rispettare un artista e la sua volontaria uscita di scena.

  20. Caro Paolo,
    le tue sono lacrime di coccodrillo e ora vuoi lavarti la coscienza con queste quattro righe strappalacrime.
    Almeno risparmiacele. Buon lavoro.

  21. Sì s’era capito, guydebord, ma lei deve sempre rovinare le feste degli altri. E francamente il suo linguaggio in stile da verismo intestinale non l’ho gradito neppure io, anche se per fiction. Spero nella sua comprensione per le prossime feste 🙂

  22. Commento raramente post o blog, e lo faccio per la prima volta in questo, perché l’argomento mi riguarda direttamente. Sono un 53enne lasciato a casa da una multinazionale americana nel 2014 che, volontariamente (nel senso che ho scelto di scegliere), si è reimpiegato in una sede meno prestigiosa (dalla grande multinazionale americana alla piccola multinazionale italiana), con uno stipendio minore e con un capo di 20 anni più giovane. Da una posizione di direttore di divisione, gestivo una trentina di dipendenti, a quella di uno specialist in un campo peraltro nuovo per me, che negli ultimi 15 anni mi ero occupato di Medical Device. La mia precedente azienda, aveva tutte le caratteristiche descritte da Paolo… carrierismo alle stelle, competizione, fazioni, ricatto esplicito – non ottieni nessun aiuto se non dimostri prima all’ennesimo comitato di valutazione di aver dato il 150% – ma a quel punto potresti essere morto, non frega niente a nessuno, iper valutazione dei giovani (anche perché in proporzione costano molto meno e ovviamente hanno più energie)…
    Cosa ho trovato qui? un ambiente decisamente più umano, dove l’ “anziano” è la persona con esperienza, cui magari affidare il compito di parlare con i clienti più senior, con maggiore spessore professionale. Cui affidare il settore più nuovo dell’azienda, dove è necessario studiare e aver studiato molto per raggiungere un livello di conoscenza che consenta di rapportarsi ad interlocutori molto specialistici, nel loro settore, ma poco tecnici (luogo che i giovani tradizionalmente prediligono). Dove bisogna aver pazienza, dove le cose maturano pian piano. Il capo di 20 anni più giovane? Dipende dalla cultura aziendale che ha respirato. Certo, spesso va più veloce di me, ma non è assolutamente detto che non si trovi un equilibrio, un ragionevole compromesso dove ognuno, sia libero di esprimere il meglio delle proprie capacità nell’interesse complessivo dell’azienda. Una cosa non ci possiamo scordare: siamo uomini e uomini sono quelli che abbiamo davanti. Se percepiamo che l’azienda ci chieda di considerarli altro da ciò, siamo nel posto sbagliato. Marco

  23. sono d’accordissimo con guydebord, al 100%, e personalmente invece apprezzo molto i suoi azzeccatissimi riferimenti alla merda.

  24. Buongiorno.
    Sono una cinquantaquattrenne che lavora a tempo pieno da trentuno. Sono laureata e per studiare ho sempre dovuto lavorare. Sono sposata, ho tre figli. Questo tanto per inquadrare il soggetto che scrive.
    Ho letto la lettera di Paolo e lquella di Ignoto che risponde “…caro Paolo non sentirti in colpa…..”.
    Illuminante. Davvero. Credo la stamperò per farla leggere anche ai miei figli di ventuno, ventitré e venticinque anni, perché possano abbeverarsi alla fonte della saggezza…..
    Credo che il senso di colpa di Paolo dimostri che non ha ancora completato la trasformazione in uomosqualo, mentre il giovanotto che vuole fungere da dotto ansiolitico, non solo mi spaventa un po’, ma soprattutto dimostra l’autore non ha capito niente. E non a causa dei suoi ventitré anni, piuttosto di una presunzione che, spero, imparerà a mitigare perchè potrebbe incontrare dei cinquantacinquenni come Mario che, non solo non si dimetteranno a causa della sua supponenza, ma saranno in grado di fargli capire come gira il mondo, cioè non intorno a lui!
    Tanti auguri a tutti, ai Paolo, ai Mario, ma soprattutto ai tanti Ignoto che ci illuminano con le loro riflessioni.
    Rosanna

  25. Signora Rita, contenta lei. Non so se esprima altrettanti apprezzamenti fuor di metafora nella realtà. Si vede che il verismo non era poi così ben costruito, ma tant’è, me ne farò una ragione. In ogni caso una persona non fa media ma due sì. E l’educazione non si contabilizza.

  26. … ovvero stiamo sempre uno a uno.

  27. Grazie Paolo e alla prof per aver condiviso queste riflessioni. Le quali rappresentano uno dei maggiori motivi per i quali la Sinistra, compresa la FIOM di Landini, nella quale mi riconosco per altro, è oggi del tutto fallimentare. Perché non si occupa di queste cose, del lavoro come strumento di conquista, insieme agli altri, della propria felicità.

    PS: non c’è da sentirsi in colpa per Mario, casomai da fargli leggere questo post e invitarlo a prendersi un caffé. Se Mario si è licenziato perché non ne poteva più degli squali, è da comprendere. Se Mario si è licenziato perché non può accettare un capo di 25 anni più giovane di lui, non condivido il giovanilismo e la stupidità di buttare via gli anziani, ma Mario in questo ha molto torto.

  28. Lucia, qui non c’entra l’educazione: la merda si chiama appunto merda intanto, poi perchè, come puntualizza guydebord, “la provocazione verbale può forse favorire il dubbio e generare contromisure per non diventare come il pentito Paolo o come una delle sue componenti”.
    Concordo nel pensare che servono a poco questi tardivi piagnucolamenti, nel momento in cui ci hanno plasmati perchè l’abbiamo permesso. Per questo motivo ho anche apprezzato l’utilizzo di esempi e linguaggio del tutto schietti.
    Alla domanda se anche nella realtà io esprima altrettanti apprezzamenti fuor di metafora, rispondo sì, ma solo da qualche anno, da quando cioè ho superato i 50 … prima non lo facevo, ma non per questo ero più educata, ero solo più timorosa….

  29. Senta, personalmente a me non piace immaginarmi intestini tenui mentre leggo di tutt’altro argomento, né ho intenzione di leggermi le sue cinquanta sfumature di grigio. Vedo solo che si rimprovera gli altri di usare stereotipi poco riusciti usandone di scadenti, anche dal punto di vista formale oltre che sostanziale; e non ci accorge che anche per descrivere noi stessi usiamo meri stereotipie. Questa è vera mancanza di onestà intellettuale e, per me, vera maleducazione.

  30. Marco Brandizi, l’unico caso che lei non contempla per le dimissioni di Mario è una blanda ma costante operazione di mobbing.

  31. @Lucia
    Ludovico Quaroni, in una delle sue ultime interviste ha sostenuto che, con la morte di Adriano Olivetti, l’urbanistica in Italia ha subito un forte rallentamento per oltre vent’anni. E Adriano Olivetti non era un urbanista ma un industriale metalmeccanico.
    Questo per dirle che l’agire delle persone ha risvolti sociali oltre il loro ambito ristretto. I numerosi “Paolo” non sono solo causa del licenziamento di Mario ma influenzano l’andamento della società tutta, noi compresi.
    Che un imbecille, per mire idiote e false, determini anche il mio futuro (ma io ho raggiunto la maggiore età, mi resta solo un, spero abbondante, margine residuale) e quello delle nuove generazioni, mi infastidisce oltremodo.
    Mi spiace aver suscitato in lei il guardare il dito invece che la Luna. Il rifermento fisiologico capisco possa essere sgradevole, ma non più di certi comportamenti. Comunque mi scuso e, come lei mi chiede, avrò cura di non rovinarle le prossime feste. Se mai ci saranno avvenimenti da festeggiare.

  32. L’ha ribloggato su Amo…la…noia.

  33. Considerando l’evidente autocompiacimento dell’autore della lettera (autore “inesistente”, nel senso che poi queste lettere sono rielaborazioni di Giovanna), trovo il commento come di guydebord decisamente appropriato… tranquilli, “Paolo” non si offenderà 😉

  34. P.S. c’è un “come” di troppo…

  35. guydebord, se lei ben crede che un signor Paolo, esista o no, possa influenzare così tanto la sua vita, potrà ben credere che quanto lei afferma e fa – anche se quest’ultimo non mi compete ai fini di questa discussione – possa influenzare quella degli altri. Di quest’ultima evenienza dovrà perciò rendere conto, per modo di dire, lei, altrettanto di quanto ne chiede conto agli altri. Prendo dunque atto delle sue scuse, noto tuttavia che per lei l’insulto è consustanziale al suo pensiero (senza insultare lei non può pensare) e spero nella sua coerenza di pensiero per le prossime volte.

  36. Caro Paolo, io quelli come te li detesto. Se non fossi una persona perbene vi prenderei a legnate. Personalmente preferisco non fare carriera se questo significa far del male al mio prossimo e diventare corrotta. Meditaci sopra. Se è dura per te che scendi a compromessi, figuriamoci per me!

  37. Questa lettera, e il fatto che venga pubblicata in un blog affinché sia argomento di discussione, mi pare un’operazione squallidina di accusa di un sistema creato e mantenuto in vita proprio da chi lo accusa. Il signor Paolo, se esiste e se davvero si sente in colpa di essere diventato uno squalo, ha tre opzioni davanti a sé: cambiare lavoro, magari rassegnandosi a un’occupazione (e uno stipendio) più umile; restare al suo posto e assumere degli atteggiamenti più umani; oppure restare al suo posto e continuare a fare lo squalo, magari facendo qualche volta pubblica ammenda, come in questo caso, per lavarsi la coscienza sporca con le sue lacrime di coccodrillo. Perché la verità è che non si può dare la colpa alla società o al lavoro se ci si comporta da str*nzi. Ne conosco tante di persone così: il lavoro è solo una scusa per fare gli str*nzi, salvo poi sentirsi fintamente in colpa perché, oh, la coscienza è importante, ma pure i fringe benefit. Anzi, forse i fringe benefit di più.

  38. Non è certo il primo né l’ultimo nella posizione di decidere se continuare ad “eseguire ordini” o procedere altrimenti. Rammento che il posto di capo-azienda è per definizione unico e raraemnte si esaurisce in un lasso di tempo breve quindi non è il caso di illudersi che prima o poi nell’arco di una vita lavorativa almeno 40nnale non si subisca altrettanto.
    E’ una scelta da che parte stare.
    Se il pay off è passare per uno Steve Jobs o un dr Schweitzer posso capire la foia ma qui si parla di molto, molto meno.
    Consiglio misura e niente svendite.

  39. guydebord: guarda che la retorica dell’intransigenza ha fatto passi da gigante nelle menti deboli nel nuovo secolo… ed è talmente potente che nemmeno davanti ai fallimenti più eclatanti ed evidenti – hanno solamente fatto implodere il sisrema finanziario globale senza nemmeno saper spiegare come e perché – riescono a mettere in dubbio i dogmi che hanno introiettato.
    Poi se la contano su come fosse una raffica di battute al bar…
    Sai che brutto risveglio?

  40. Sono d’accordo con chi dice che i personaggi di questo racconto sembrano romanzati, ipercaratterizzati. E’ una tecnica anche quella: il realismo in letteratura non esiste e se esistesse non è detto che servirebbe di fronte ai pregi di figure un po’ piattine ma memorabili. Non si dica però che è un’analisi a tutto tondo!

  41. Io mi trovo d’accordo con@Alessandra Serra e anche con l’ultimissimo commento di Marco, senza voler nulla togliere al realismo della lettera.
    E poi, per me, il protagonista ha una via d’uscita: se questa vita non gli piace, se questo modo di fare carriera non gli piace, perchè non molla tutto? non credo abbia problemi di denaro, stando a quello che dice lui. è ovvio che è diventato uno squalo anche lui, ma forse inconsciamente ha accettato questo suo modo di essere.

  42. Marco ma infatti il realismo in letteratura non esiste se non in quanto stile, modo di scrivere, effetto di scrittura, mondo possibile costruito eccetera eccetera eccetera. Per quanto riguarda le iper-caratterizzazioni siamo d’accordo e infatti si è parlato di stereotipi apposta, realismo e stereotipie non sono due cose che non possono convivere, anzi. Poi dire che uno non riconosce una realtà personale o sociale in ciò che viene descritto è un altro paio di maniche ancora.
    Il mio discorso era sulla, diciamo, qualità degli stereotipi usati e sulla presa di consapevolezza che anche quelli che usiamo noi, anche per descrivere noi stessi, non sono sempre chissachè. A me è bastato leggere il modo in cui si descrive la gente su twitter in qualche pay-off di apertura del profilo (non so come cavolo si chiamino). A volte limitativi, che prediligono un aspetto di sé piuttosto che un altro, a volte inventati, altri esagerati, poi quelli che ci tengono a dire che sono un ex-qualcosa e affermano per rinnegare. Certo le righe sono poche ma anche quelle un blog lo sono.
    Beato mondo!

  43. Prof, le scrivo in diretta da davanti alla tv, Gramellini e Fazio hanno letto e commentato in diretta questo post! 🙂

  44. Caro Paolo, cara Giovanna,
    ero all’estero per un altro viaggio umanitario e leggo solo ora questo post. Come ti capisco Paolo, io ora ho quasi sessant’anni, sono donna e ho fatto una carriera fulminea negli anni Ottanta in grandi e medie aziende. Ne ho cambiate quattro. Fino a 40 anni per via del lavoro ho avuto una vita privata scarsa e dolorosa direi. Ho incontrato squali ma soprattutto iene che mi hanno fatto del male ma io ho tirato dritto. Non sono mai stata in una multinazionale ma anche nelle aziende italiane non si scherzava con i ritmi. Sono diventata un po’ stronza in quegli anni per sopravvivere ma non sono mai riuscita a scavalcare i cadaveri come si dice in gergo aziendale. A un certo pnto qualcosa si è rotto dentro di me e ho cercato di capire cosa mi stava succedendo: non ci stavo più lì dentro non per i ritmi o a causa di un capo più giovane (io ero il capo) ma per un malessere sottile che avvolgeva le mie giornate. Ho resistito, lottato, il lavoro mi piaceva ma sempre meno, ho così cambiato mestiere: ho scelto la docenza, la libera professione, il sociale e la vita nella natura. Tu sei ancora giovane ma pensaci bene se non dormi perché hai sulla coscienza il dolore di Mario
    Gli squali non pensano, non sognano, mordono. Se tu soffri prova a visualizzare a medio termine un cambiamento. Se ti farà sentire meglio, segui quella strada. Non si può vivere una vita andando contro sé stessi. Oggi guardo gli alberi in fiore che ci sono dappertutto e ricordo quando andavo al lavoro camminando in via Gustavo Modena a Milano e non mi accorgevo in aprile di quella meravigliosa fioritura dei ciliegi selvatici in quella via. Passavano le stagioni, gli anni, e io quei ciliegi li vedevo appena. Però mi sentivo spesso una ganza ad avercela fatta ad avere la dirigenza a 31 anni, e gli altri mi vedevano come “arrivata”. Ora in anni diversi mi godo una vita più serena, me la godo perché allora ho combattuto per stare vicino al “soffitto di cristallo”, quello che ancora oggi è difficile da raggiunge per le donne. Tu cerca la tua mediazione e se non la trovi, progetta il tuo cambiamento. Buona fortuna

  45. Anche gli squali piangono, ma siccome lo fanno nel mare non si vede. Fra i vari commenti noto quello di Eleonora sulla scarsa cultura aziendale italiana.
    Un esempio non fa statistica, ma mio marito ha collezionato due pessime esperienze in due grandi aziende italiane di cui una semi-pubblica, in cui c’era una sorta di “nonnismo” – anche in senso anagrafico – e due ottime esperienze in due multinazionali americane in cui il capo e il presidente sono più giovani di lui ma non hanno mai cercato di umiliarlo come succedeva in Italia. La differenza la fa la persona e il clima aziendale.

  46. Pingback: Studenti bravissimi, animali braccati | Pietroalviti's Weblog

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