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Le obiezioni che BarbieMovie sta suscitando dicono più cose su di noi che sul film o sulla bambola

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Ieri Milena Vesco e io abbiamo fatto una diretta su Instagram, per riflettere sulle principali obiezioni e critiche che il film Barbie ha suscitato finora. Perché lo abbiamo fatto?

Perché credo che il film sia molto interessante, non solo dal punto di vista cinematografico, per la splendida sceneggiatura di Greta Gerwig e Noah Baumbach, le fantastiche scenografie e altro che lascio a chi è più esperto/a di me commentare, ma come magistrale operazione di marketing da parte d Mattel, e soprattutto come specchio della nostra società, delle relazioni fra uomini e donne, della condizione femminile nel mondo occidentale, fortemente condizionato dalla comunicazione di massa, dalla spinta a consumare, fare soldi e competere, dall’ossessione per l’apparenza e l’immagine. Penso dunque che i fastidi e le antipatie che il film suscita, molto più degli entusiasmi, ci dicano molto su

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Godete!

In Italia le iniziative neofemministe degli ultimi anni sono state spesso tacciate di «moralismo» e «bacchettonismo». Accusa pretestuosa ma astuta, perché pare mettere le donne in contraddizione con se stesse: ma come – si dice loro – negli anni Sessanta e Settanta lottavate affinché il corpo fosse esposto e la sessualità liberamente esercitata, e ora vi arrabbiate perché si fa?

La differenza sta nel come, perché e in quale contesto si fa, naturalmente. Cosa che le neofemministe di volta in volta precisano. Ma che l’accusa sempre trascura.

È vero però che al neofemminismo italiano manca, oggi, una riflessione sulla sessualità che sia paragonabile a quella che avvenne negli anni Settanta, quando milioni di ragazzine crescevano prestandosi e scambiandosi Noi e il nostro corpo, tradotto in italiano da Feltrinelli nel 1974, e il Rapporto Hite, tradotto in Italia da Bompiani nel 1977. Il primo è stato riscritto nel 2006 dalle femministe americane (c’è anche il sito Our Bodies Ourselves), ma non mi risulta sia stato ritradotto in italiano. Il secondo è stato tradotto da Bompiani nel 2006, ma non mi risulta che da noi abbia avuto oggi l’impatto che ebbe ieri.

L’idea diffusa, credo, è che in Italia sul sesso non ci sia più niente da dire né imparare. E che le ragazzine e giovani donne di oggi siano molto più consapevoli e libere delle loro madri e nonne. Ma ne siamo così sicure e sicuri?

Lascio aperta la domanda e passo a una lettura che ho fatto in questi giorni. È Godete! della giornalista Alessandra Di Pietro, un libricino pubblicato da ADD Editore. Parla di orgasmo, chirurgia vaginale, erotic shop, pornografia femminile, sesso in gravidanza, sesso âgé, asessualità e altro, con leggerezza, semplicità e in poche piccole pagine. Un po’ come si fa nei giornali femminili (Alessandra scrive fra l’altro su Gioia), ma senza le banalizzazioni che spesso vi si trovano.

Godete! di Alessandra Di Pietro

Un libricino «pop» e «generalista» nel senso buono di queste parole: qualcosa che possono leggere le adolescenti coi morosi, le mamme e nonne coi mariti, i single e gli accoppiati. A destra come a sinistra, vivaddio. Niente a che vedere con le ponderose ricerche degli anni Settanta. Niente a che vedere con gli stereotipi che aleggiano attorno alla parola «femminismo», anche se alla fine (sorpresa!) l’autrice dichiara:

«Sono femminista, e non abbiate paura della definizione politica e morale più bella che io ho per ogni donna amante di se stessa, delle altre e degli uomini» (p. 91).

Insomma, per spolverare femminismo e neofemminismo dalla coltre di stereotipi, io partirei da questo libricino semplice semplice. Regalandolo a una coppia di adolescenti, per esempio. O di nonni. Ma anche a un ragazzino di 15 anni. Con una dedica personale, un sorriso e un ordine: godete!

🙂

 

Vu cumprà, dentisti e donne: razzismo, sessismo o corporativismo?

Dopo il post Vu curà? Quando la campagna per il dentista si fa razzista, mi ha scritto Gianluigi, che non condivide il fatto che per quel manifesto io abbia parlato di «razzismo». La riflessione di Gianluigi riguarda i nessi fra razzismo, sessismo e corporativismo in Italia. Ho deciso di pubblicarla – con l’autorizzazione di Gianluigi, che ringrazio – perché credo sia utile per tutti (me per prima) approfondire questi nessi:

Vu cumprà Dentista Se non ora quando

«Tu dici: “La parola «razzista» sembra pesante? E come chiamare chi mette in un unico calderone i dentisti di altre nazionalità per il solo fatto di essere di altre nazionalità? Trovatemi un’altra parola.”

La parola è “corporativo”. Il punto è che quel manifesto è al 100% corporativo, con una possibile sfumatura di razzismo, ammesso che “vu cumprà” abbia una connotazione razzista.

Anche il nazionalismo è secondario. I dentisti non vogliono la concorrenza di chi fa prezzi più bassi a parità di prestazione. Punto.

Il tema è generale e cruciale. Secondo me in Italia non c’è razzismo (o quasi); col che voglio dire che solo minoranze irrilevanti di italiani, se pur ci sono, si considerano razzialmente superiori ad altri – che è la sostanza del razzismo.

I leghisti peggiori difendono interessi corporativi territoriali: priorità ai residenti, nulla importa della “razza” degli altri. Fossero svedesi invece che marocchini, non farebbe differenza. I torinesi che scrivevano “non si affitta ai meridionali” non erano razzisti, facevano i loro interessi corporativi di proprietari di appartamenti.

Per il sessismo è un po’ diverso, ma non tanto. I maschilisti, quelli che ‘sentono’ le donne come inferiori, sono meno rari dei razzisti. Ma sono molti di più i maschi che difendono privilegi acquisiti, anche sapendoli ingiusti: meno lavori domestici e di cura, più carriera. Io stesso l’ho fatto, negoziando duramente con mia moglie interessi conflittuali. Corporativismo di genere.

Poi ci sono altri corporativismi pesantissimi in Italia. I lavoratori iper-garantiti contro i giovani precari. I pensionati cinquantenni (adesso meno, ma quanti erano 20 anni fa?) contro tutti quelli che gli pagano una grossa parte della pensione. I dipendenti statali inutili (pensa solo ai forestali siciliani) contro chi li mantiene pagando tasse esorbitanti. L’eccesso di personale politico. Le corporazioni di notai, avvocati, commercialisti, ecc., con tutte le loro tutele statali. I dirigenti super pagati, supergarantiti e superpensionati. Dico ovvietà, scusami. Ma è quello che blocca la crescita economica e restringe il futuro ai nostri ragazzi.

Ecco perché il razzismo (e in parte il sessismo) mi sembra tutto sommato un falso problema, rispetto al corporativismo: difesa di privilegi acquisiti, rigetto delle parità di opportunità e della libera concorrenza (regolata con criteri universalistici), a livello nazionale e globale. Vale per le donne, per i giovani, e anche per gli immigrati, neri e bianchi, anche super qualificati (cui si impedisce di accedere).»

La mezza novità di Irina Shayk per Intimissimi Uomo

Dai primi di agosto Calzedonia ha tappezzato le città italiane con la nuova campagna Intimissimi Uomo.

Per fare qualcosa di nuovo, invece di mettere canottiera e mutande da uomo su un maschio lucido, palestrato e ammiccante al mondo gay, li hanno messi sulla modella russa Irina Shayk, testimonial di Intimissimi Donna dal 2007 (clic per ingrandire):

 Intimissimi uomo, formato verticale Intimissimi uomo, formato verticale 2 Intimissimi Uomo, formato orizzontale

Il caso potrebbe essere liquidato come l’ennesimo uso pubblicitario del corpo femminile. La discussione, allora, si potrebbe svolgere più o meno così:

  • «Invece di usare il corpo maschile per l’intimo uomo, mo’ i pubblicitari sfruttano quello femminile pure per questo! Ma che si mettano le loro mutande da soli, ‘sti maschilisti insopportabili!»
  • «Ma no, esagerata, guarda meglio: è meno grave di altre volte, perché pubblicizzano un prodotto per cui il corpo è pertinente. Inoltre la ragazza è più vestita che nella media di pubblicità per intimo. Dunque…»
  • «Vabbe’, ma che palle lo stesso!»

Ma vorrei fingere per una volta di non essere in Italia, dove siamo ormai ossessionati da sesso, sessismo e antisessismo. E vorrei guardare oltre.

La pubblicità indubbiamente colpisce. Se non altro perché, la prima volta che la incontri, all’inizio ti paiono strani quei mutandoni grigi e alti sulla ragazza, poi leggi Intimissimi Uomo (uomo!) e finisci per tornare sui tuoi passi, a controllare se non hai sbagliato.

A quel punto, qualcosa ti scatta in testa. Non è chissà che, intendiamoci, ma qualcosina in più rispetto al piattume delle solite pubblicità per intimo. Qualcosa che scatta indipendentemente dal tuo genere sessuale:

  1. Maschio etero. Vabbe’, è la storia più semplice: state giocando e le hai chiesto di indossare la tua bianchieria. Donna travestita da uomo, Nove settimane e mezzo, uauh, che sesso. È ciò che avevano in mente i pubblicitari.
  2. Donna etero: mi piace la tua biancheria, è comoda, me la sono comprata e la metto. Che te ne pare?
  3. Donna lesbica: vedi maschio etero e donna etero, mescola e aggiungi altri ingredienti se ti va.
  4. Maschio etero attratto da transessualità e androginia: pensaci, ce n’è anche per te.
  5. To be continued (grazie a Sandro per le utili osservazioni).

La novità più interessante delle affissioni (e insisto: solo di quelle) sta nel fatto che la modella allude a qualche forma di attività: gli scatti fotografici sono infatti interpretabili come fermi immagine di una storia più ampia, in cui la ragazza non è immobile, non è passiva, non si limita a farsi guardare – come fanno tutte le modelle – ma è un soggetto attivo dotato di volontà e addirittura intraprendente.

Ma è solo mezzo spunto, purtroppo.

Infatti nello spot la modella torna passivissima. La fantasia dei pubblicitari è stata insomma, come al solito, molto più limitata e piatta di come avrebbero potuto. A questo proposito, leggi anche il post di Giulia, su Un altro genere di comunicazione.

Studenti&Reporter 4 – Il femminismo, che roba è?

Oggi l’inchiesta di Studenti&Reporter su Repubblica Bologna verte su donne e femminismo, collocandone i problemi fra la realtà economica del paese e gli stereotipi negativi che gravitano attorno alla parola «femminismo».

Questa è l’inchiesta di Daniele Dodaro, Valentina Scattolari, Aura Tiralongo, che hanno intervistato ragazze e ragazzi di tutto l’ateneo bolognese:

“Il femminismo? Roba anni ’70”. Anche le ragazze lo rifiutano

Questo è il mio pezzo introduttivo, un po’ più lungo di quello apparso su Repubblica:

Si avvicina l’8 marzo e come sempre si parlerà di donne. Ma quest’anno a Bologna c’è stato il cosiddetto Cinzia-gate, che è arrivato all’attenzione nazionale mescolandosi alle vicende del premier in modi spesso fuorvianti e vischiosi. Il che ha prodotto più gossip e curiosità morbosa che analisi lucide, equilibrate.

Parlare di donne in questo contesto è più difficile, perché da un lato si presta a strumentalizzazioni politiche che non c’entrano nulla con i problemi delle donne, i quali stanno a destra come a sinistra. D’altro canto si presta a stupidaggini del tipo: stai con Cinzia o Flavio? Che non hanno nulla a che vedere, ancora una volta, con i problemi reali.

Vogliamo contribuire alla riflessione in due modi. Innanzi tutto riportando il discorso sulle donne all’ambito economico, che spiega molte cose.

Se le donne vendono il corpo a uomini di potere, e se per le più svariate ragioni – inclusa la vendetta e il risarcimento – chiedono soldi agli uomini più spesso che viceversa, è perché lavorano meno e hanno meno soldi degli uomini.

Nell’agenda di Lisbona del 2000, l’Unione europea si proponeva di portare al 60% l’occupazione femminile; ma i dati Eurostat sull’Italia a marzo 2009 parlavano ancora del 46,3% di occupate, contro il 68,5% di uomini: quasi 14 punti sotto la soglia di Lisbona e circa 12 sotto la media europea.

Vale inoltre la pena ricordare che ogni anno il World Economic Forum classifica 134 paesi sulla base delle differenze di genere in quattro ambiti: economia, politica, educazione, salute. Ebbene, nel Report 2009 l’Italia è al 72° posto. Il che significa non solo che stiamo dietro a Islanda, Finlandia, Norvegia e Svezia, che occupano le prime 4 posizioni, ma dietro a paesi che forse non avremmo detto: dall’Argentina (24°) alla Namibia (32°), dalla Thailandia (59°) alla Romania (70°).

In secondo luogo abbiamo cercato di rispondere a una domanda che ultimamente si sente spesso: se è vero che in Italia le donne sono subalterne, perché non si ribellano come fecero le femministe? Le possibili risposte sono molte. Una radice del problema, credo, sta negli stereotipi negativi che molti oggi associano alla parola “femminismo”. È proprio per snidarli che abbiamo chiesto ai ventenni: “Se dico la parola femminismo, o femminista, cosa ti viene in mente?”. Li abbiamo lasciati parlare.  L’idea di femminismo che emerge non è incoraggiante.

Questo il pezzo su Repubblica:

L’8 marzo degli stereotipi che taglia fuori i veri problemi

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Qui le puntate precedenti di Studenti&Reporter:

Studenti&Reporter 3 – Insicurezza reale e precepita, 17 febbraio 2010

Studenti&Reporter 2 – La movida Made in Bo, 3 febbraio 2010

Studenti&Reporter 1 – Presentazione, 20 gennaio 2010

L’appello delle donne su Repubblica

Venerdì 9 ottobre Michela Marzano, Barbara Spinelli e Nadia Urbinati hanno lanciato su Repubblica l’appello «Quest’uomo offende noi donne e la democrazia, fermiamolo» . L’ho letto velocemente e firmato.

L’ho fatto per ragioni analoghe a quelle per cui avevo sottoscritto l’appello dei tre giuristi in difesa di Repubblica, pur riconoscendo – come avevo notato QUI – l’ambivalenza di una posizione del tipo «conosci-il-gioco-ma-ti-presti-al-gioco»: poiché in Italia, al momento, non sono possibili giochi alternativi né meta-giochi, stare da una parte ha pur sempre un valore.

Detto in altri termini, piuttosto che niente è meglio piuttosto.

Stavolta, però, devo fare una precisazione. Più urgente – dal mio punto di vista – di quella che avevo fatto sull’appello dei tre giuristi, perché in questo caso è in gioco il corpo delle donne, come dice Lorella Zanardo. E l’appello delle donne può trasformarsi in un boomerang nel giro di pochi giorni. Anzi, temo lo sia già diventato.

Innanzi tutto, la questione delle donne non riguarda solo le donne, ma gli uomini e tutti i generi sessuali. Eppure – leggevo su Repubblica ieri – alla Casa delle donne di Roma, in nome di quell’appello, si è registrata «su 400 presenze una disciplinata decina di uomini, tra cui Valentino Parlato, direttore del Manifesto».

E gli altri uomini dove sono? Gli altri generi sessuali? E perché l’appello è lanciato solo da tre donne? Vogliamo chiusure, ghetti, barriere? Vogliamo riprodurre gli errori del femminismo storico?

Inoltre, legare troppo strettamente i problemi delle donne italiane alle uscite infelici del premier è:

  1. a ben pensare, miope;
  2. a mal pensare, cinicamente strumentale.

Miope perché, invece di parlare di donne, si sta mettendo ancora una volta Berlusconi al centro del discorso. La solita questione dell’elefante di Lakoff (ancora, ancora e ancora!). Basta rileggere l’appello per vedere quanto sia grosso l’elefante al suo stesso interno: comincia col premier («È ormai evidente che il corpo della donna è diventato un’arma politica di capitale importanza, nella mano del presidente del Consiglio») e finisce col premier («Quest’uomo offende le donne e la democrazia. Fermiamolo»).

Ma legare la questione femminile al destino del premier può anche essere cinicamente strumentale, perché tutti coloro che vogliono eliminare Berlusconi dalla scena politica ora possono usare il corpo delle donne come un’arma in più.

Credi che, se Berlusconi si dimettesse davvero – o fosse costretto a farlo (certo non grazie ai suoi guai con le donne) – le discriminazioni di genere in Italia sparirebbero per incanto? Io penso di no, perché riguardano la destra come la sinistra, i ceti intellettuali e quelli meno alfabetizzati, i ricchi come i poveri.

Dice l’appello su Repubblica – giustamente – che il corpo delle donne è usato dal premier «come un dispositivo di guerra». In realtà ora il dispositivo è rivolto contro di lui.

Ma è sempre uno strumento. Da usare finché serve. Da gettare nel dimenticatoio quando non servirà più. Comunque vada a finire.

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Abbiamo già parlato della rilevanza della questione femminile per tutti i generi sessuali:

Non solo donne per le donne

I generi nell’orto

La Banca d’Italia e le donne

Sull’elefante di Lakoff:

Lakoff applicato a Veltroni

Un’alternativa alle Bratz e Winx?

La californiana OHC Group LLC ha creato nel 2004 la serie di bambole The Only Hearts Club™, progettandole come «real dolls for real girls», e cioè con proporzioni, tratti somatici e vestiti più vicini – dicono – a quelli delle ragazzine in carne e ossa.

Così l’azienda le presenta sul sito:

«The toy industry’s hottest new dolls, the Only Hearts Club™, is a content-based brand of real dolls for real girls that is drawing raves for combining beautiful, real-looking dolls, with content that delivers a much-needed, positive message to girls. Only Hearts Club™ dolls look and dress like real girls, and they deal with the same experiences and issues as well.»

Con le bambole, una serie di libri:

«Most importantly, through a series of books, the Only Hearts Club™ delivers a very positive message and image – namely, that it is good to “listen to your heart and try to do the right thing.”»

Sono sette le «vere amiche » che compongono The Only Hearts Club:

«A group of bright, cute and energetic young girls – Taylor Angelique, Olivia Hope, Lily Rose, Briana Joy, Karina Grace, Anna Sophia, Kayla Rae and Hannah Faith – who formed the Only Hearts Club™ in a bond of true friendship. They are a fun-loving group of friends who are always there for one another. They laugh, share secrets and have the greatest adventures together. Most importantly, they encourage one another to think with their hearts and to try and do the right thing

Le bambole sono – implicitamente e ovviamente – proposte come alternativa alle Bratz e Winx che, per contrasto, non rispecchierebbero costumi, esperienze e corpo delle «real girls». E pare stiano avendo un discreto successo negli Stati Uniti. (Non ho trovato numeri, ma il fatto stesso che sopravvivano dal 2004 è un buon segno).

Eccole (clic per ingrandire):

onlyheartsclub

Encomiabile l’intento, visti i problemi di Bratz e Winx che stiamo ancora discutendo QUI.

Però sono perplessa.

Ai bisogni di quali e quante «real girls» le bambole rispondono? Chi sono, come sono, quanti anni hanno le bambine che ci giocano? E quelle che ci giocano le desiderano davvero, o lacrimano d’invidia per le coetanee che hanno le Winx, chiaramente molto più «cool»?

Inoltre, sono davvero alternative le storie e i valori «very positive» che esprimono, o si limitano a confermare certi stereotipi femminili, però mascherandoli a uso e consumo di una nicchia di famiglie presuntamente più illuminate e colte?

Cercasi tesi di laurea. (I dettagli, a ricevimento.)