“Come non detto”, ovvero: come lasciare intendere, alludere, presupporre, dare per scontato, sottintendere (e altri impliciti)

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In questi giorni ho letto (e presentato in una libreria di Bologna) Come non detto. Usi e abusi dei sottintesi, di Filippo Domaneschi e Carlo Penco, due colleghi che insegnano all’Università di Genova. Consiglio vivamente di leggere (no anzi, studiare) questo lavoro a chiunque si occupi di comunicazione, in qualunque ambito e a qualunque livello, perché spiega con linguaggio chiaro e scorrevole i meccanismi attraverso i quali riusciamo a comunicare in modo implicito – a volte senza volerlo, ma spesso intenzionalmente – molto più di quanto diciamo in modo esplicito, aperto, diretto. E il “non detto” non è solo – sempre – quantitativamente superiore a ciò che viene detto, ma qualitativamente – spesso – molto più rilevante. Dal prologo “Attenti a quell’iceberg”:

«Stiamo guardando per la prima volta uno spot pubblicitario. A partire da una situazione totalmente ignota, in 30 secondi comprendiamo cosa accade e veniamo convinti ad acquistare un certo prodotto. Com’è possibile che tutto ciò si realizzi in soli 30 secondi? Dietro la comprensione di scambi verbali e di situazioni nuove c’è sempre un mare di sottintesi: ciò che si dice in modo esplicito rappresenta solo la punta visibile di un’enorme massa nascosta di informazioni comunicate in modo implicito. È l’iceberg della comunicazione.

Pochi minuti prima di sederci a scrivere questa introduzione, siamo scesi al bar a prendere un caffè. Di ritorno verso l’ufficio, Carlo ha estratto una sigaretta da un pacchetto e ha somandato a Filippo: “Hai ancora l’accendino?”. La frase di Carlo è la punta di un iceberg. Comprendere quanto detto da Carlo è come avvistare un iceberg in mezzo al mare: la punta è ben visibile, ma sotto v’è molto di più. Sotto la superficie di poche parole, infatti, si trova una montagna di informazioni nascoste. Vediamole.

Prima di tutto, Carlo condivide con Filippo un vasto terreno di credenze presupposte, ovvero, date per scontate: che l’accendino sia un dispositivo per accendere sigarette, che in Italia sia permesso fumare per strada ma non nei locali pubblici, che il fumo danneggi la salute, ecc. Inoltre, Carlo ha usato il termine “l’accendino” e utilizzando l’articolo “il” si è riferito non a un generico accendino, ma a un accendino specifico. Per comprendere esattamente quanto detto da Carlo, abbiamo dovuto innanzi tutto capire a quale accendino Carlo volesse riferirsi (quello che Filippo aveva in mano poco fa o quello che Carlo aveva prestato a Filippo l’altro ieri?). Egli ha inoltre utilizzato il termine “ancora” sottintendendo che Filippo possedesse l’accendino in un tempo precedente e che potesse oramai non averlo più (ad esempio, nel caso lo avesse perso o regalato).

È facile, inoltre, dare per scontato che quella di Carlo fosse una richiesta implicita per accendersi la sigaretta. Ma non è detto: Carlo avrebbe potuto utilizzare la stessa frase per lamentarsi del fatto che Filippo non gli avesse restituito l’accendino, per minacciare Filippo o per spiegargli qualcosa sugli accendini. […]

Del non detto si fa grande uso nella comunicazione pubblicitaria, giornalistica e, soprattutto, nella comunicazione politica. Perché? Perché un messaggio che passa come sottinteso non è facilmente opinabile o discutibile ed è quindi fortemente persuasivo. Compito di questo libro è introdurre con esempi e teorie il mondo sconosciuto e non visibile di ciò che è comunicato senza essere detto esplicitamente, e fornire una “cassetta degli attrezzi” utile per imparare a rendere esplicito l’implicito, in modo da aiutare gli ingannatori a ingannare meglio e tutti gli altri a non farsi ingannare.» (Come non detto. Usi e abusi dei sottintesi, pp. VII-VIII).

Sulla grandissima varietà di modi e mezzi per “non dire” qualcosa, ma implicarlo, alludervi, sottintenderlo, darlo per scontato, insinuarlo, lasciarlo intendere e così via, i filosofi del linguaggio, i linguisti, i semiologi, gli psicolinguisti hanno scritto libri e articoli per tutto il Novecento e tuttora ne scrivono. Filippo Domaneschi e Carlo Penco, che ben conoscono questa enorme produzione, sono riusciti offrirci una sintesi leggera e piacevole, a semplificare le teorie senza mai banalizzarle, a esemplificare ogni concetto con decine di casi tratti dalla pubblicità, dalla comunicazione politica, dalla vita quotidiana e, come tali, alla portata di tutti e tutte.

4 risposte a ““Come non detto”, ovvero: come lasciare intendere, alludere, presupporre, dare per scontato, sottintendere (e altri impliciti)

  1. Nel cinema moderno, il non detto nei dialoghi fa spesso la differenza tra il superfluo e l’essenziale – per capire, mettere in ordine, collegare gli intrecci di un plot. Può sembrare un paradosso altrettanto ovvio e determinante quanto lo sono le pause e i silenzi nella musica, il ritmo e le attese nei rapporti erotici oppure il kerning e l’interlinea nella typography di qualità. Nei film memorabili, il non detto ben mirato, calibrato e inserito, può diventare lo zero mutante e decisivo – esattamente come succede nel calcolo decimale.

    A parte la mimica e la dizione di matrice palesemente teatrale, il continuo over acting e i dialoghi meccanicamente sequenziali, il cinema italiano di questi anni è quasi sempre sopra – e non dentro – le righe. Gli esempi più lampanti (leggi: lampeggianti), sono i film dei vari Benigni, Castellitto, Martone, Moretti, Muccino, Tornatore, Verdone… dove il glossario narrativo è ancora troppo spesso speziato, annunciato ed evidenziato dal Magic Marker di Bruno Bozzetto, dai primi piani di Gian Luigi Bonelli e dalla macchina della verità di Herr Bertold Brecht. Strabuzzare, piangere, sghignazzare, corrucciare, bestemmiare e svenire… sono arnesi che in quei nostro kit di smontaggio peninsulare non mancano mai.

    Per farmi capire anche da chi stravede per Abatantuono, Andreotti e Fellini, cito una scena di un film americano del 2011 dove il non detto la dice lunghissima su cosa voleva dirci l’autore (sia sceneggiatore che regista) di “Margin Call”, J. C. Chandor:

    Due top executive di una banca d’affari che sta per fallire (Simon Baker e Demi Moore) chiamano l’ascensore per scendere dai piani alti del grande capo, verso i loro uffici di lusso situati qualche livello più giù. Quando si apre la porta scorrevole, in mezzo all’ascensore si vede un’addetta alle pulizie, minuta, silenziosa, di mezza età, con il suo carrello pieno di detersivi, secchi, stracci, carte e scope. I due pescecani in tiro, entrano senza degnarla di un solo fugace sguardo e continuano tranquillamente a minacciarsi e insultarsi su ciò che da lì a poche ore sarebbe successo a quella merchant bank, a loro stessi… e a milioni di risparmiatori: il collasso di un sistema. I due non si guardano mai. Dopo pochi piani, si riapre la porta e la donna delle pulizie esce dall’ascensore. Nessuno dei tre dice una sola parola. Per i due mostri, quella donnina non è una persona, ma al massimo una sorta di app che fa parte del sistemone. Per contro, quella donna delle pulizie sa benissimo quale tipo di non-rapporto intercorre tra i comuni mortali come lei e chi gestisce il potere.

    È forse la scena più potente del film, fa rabbrividire. Il dialogo tra i due executive in realtà non è un dialogo, ma solo un appostamento delle loro batterie per capire in che direzione spareranno quando la battaglia decisiva sarà in pieno svolgimento. I loro botti a monosillabi, associati al mutismo della donna delle pulizie, esprimono in modo quasi shakespeariano a quale tipo di manovra non verbale, ma sociale ed esistenziale, stiamo assistendo.

    È un esempio di comunicazione implicita, di rara e potente efficacia. In quel film i dialoghi sono tutti quanti strepitosi. Certo, non vi recitano Kim Rossi Stuart, Alessandro Haber, Riccardo Scamarcio e Silvio Orlando, ma Kevin Spacey, Paul Bettany, Stanley Tucci e Jeremy Irons… e ciò che lo sceneggiatore/regista Chandor fa dire a Irons e a tutti gli altri, rimarrà nella storia di come si possa scrivere cose enormi, quasi epiche, terribili e pesanti, senza andare, sempre e per forza, fino in fondo. In un fondo che non si trova sempre e per forza, scritto su un foglio di carta… ma laggiù in quello spiraglio che alcuni di noi si ostinano testardamente a chiamare immaginazione – e partecipazione.

  2. Bella la scena della donna delle pulizie. Non rivolgere la parola (e nemmeno l’attenzione dello sguardo) comporta uno di sfondo di presupposizioni (noi siamo superiori; tu non esisti per noi; questo tipo di discorsi passa sopra la testa dei microbi umani che ci girano attorno….).Qui è un “non detto” in senso un po’ diverso da quello presentato nel libro. Tillneuburg, l’autore del post, si riferisce al non detto come silenzio (e letteralmente ha ragione: “un bel silenzio non fu mai detto”). Però c’è tanto non detto che viene “attivato” dalle parole che usiamo. L’analisi fatta della scena del film “Margin Call” riguarda la scena come *sintomo* di una situazione; la nostra analisi riguarda ii meccanismi che attivano ciò che si vuole *intenzionalmente* far capire senza dirlo. E’ interessante fare questa distinzione:
    nella scena i due “pescecani in tiro” non vogliono far capire alla donna che non vale niente; è il regista che intende farci capire che, per quei, due la donna delle pulizie non vale niente.
    Ohi. Spero di essere stato chiaro. Se no, come non detto.
    Grazie Giovanna dell’ospitalità sul tuo blog. E’ un onore e un piacere.

  3. Spero che anche questo libro diventi la punta di un icerberg: se la lingua è un sistema che fa economia, e dice meno per significare di più (basti pensare al potenziamento di questo principio nei nuovi media), in futuro ci si dovrà sempre più rivolgersi allo studio del non detto. Insinuare, alludere, lasciar intendere, far capire, rinviare, sottintendere, intendere. Non oso immaginare l’utilità pratica di uno studio del non significato di mole pari a quella del significato… in termini legali e giornalistici per dire? Saluti

  4. Pingback: L’eloquentissimo potere del non detto | Il blog del mestiere di scrivere

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