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Le donne e «le loro cose»: totem o tabù?

Il 20 settembre scorso abbiamo parlato di una campagna della Fondazione Italiana Endometriosi (vedi Non era nevrosi, era endometriosi). La discussione è stata, come per mia fortuna spesso accade in questo spazio, vivace e ricca di spunti.

In quei giorni avevo appena visto lo spettacolo di Marinella Manicardi «Corpi impuri» (bello! se ti capita, vale la pena), che parte da queste considerazioni:

«Come mai le protagoniste di romanzi, pièce teatrali, film o telenovelas non hanno mai “le loro cose”? Mia madre non faceva la conserva “in quei giorni”, diceva che il pomodoro inacidiva, e se non eri “a posto lì” non potevi neanche fare la comunione. E perché la pubblicità degli assorbenti mostra sempre un liquido azzurro. Azzurro?! Possiamo descrivere e rappresentare il sangue delle ferite, delle trasfusioni, del cuore di Gesù, di Biancaneve, mangiare carne “al sangue”, ma “quel disturbo” rimane un tabù, anche nelle parole. Non si rappresenta e non si dice. Gli esempi sono rarissimi. Perché? Non ci sono nemmeno barzellette. O quasi», Marinella Manicardi.

Perciò nel mio post dicevo, fra l’altro, che tutto ciò che riguarda il ciclo femminile è, in Italia, ancora un tabù: si usano allusioni, espressioni indirette, metafore («le mie cose», «il ciclo», il «marchese»); le industrie colorano di blu, verde o bianco le confezioni di assorbenti femminili per allontanarle il più possibile dalla gamma cromatica del sangue; le donne accettano, oggi come ieri, i dolori mestruali come fossero un atto dovuto, una pena da scontare.

Dopo qualche giorno una mia ex studentessa slovena, Gora Sumuc, mi manda una riflessione molto interessante, il cui succo è: non è meglio parlare di totem, invece che di tabù? E il tema si allarga a tutte le pratiche di igiene, manutenzione e controllo del corpo femminile. Touchée, mia cara Gora, hai proprio ragione.

Resta vero che, mentre nel caso dell’alimentazione, della bellezza e cura del corpo i totem sono giganti, in tema di mestruazioni il totem mi pare monco, parziale. Come tu stessa rilevi, infatti, la disinvoltura è solo apparente. E il silenzio cala subito dopo lo spot. Ecco la mail di Gora:

Sai cosa penso, dopo anni di promiscuità sessuale? Che l’insicurezza femminile sia perseguita e sfruttata con altri mezzi, se vuoi non con dei tabù ma con dei totem.

Sono sicura che avrai un sacco di amiche che ti parlano delle loro cose, con disinvoltura magari, ma che tuttavia non ti convincono, non ti danno la sensazione di una reale emancipazione di una sessualità vissuta con la scioltezza di un gesto come è il fare la pipì o bere un bicchier d’acqua.

I nuovi totem, castranti come lo sono i tabù, ma attivi invece che passivi, consistono nell’inventare orgasmi multipli o vaginali, in generale imponendo alla donna di sentirsi tale solo con una sessualità irreale, vissuta sovente solo all’interno di una cornice estetica di corpi che passino l’esame, e che poi alla prova dei fatti non mantiene ciò che promette.

Ma che finisce per moltiplicare l’insicurezza femminile costringendola nel frattempo a mille acquisti, da una maniacale igiene intima a tutto lo studio dell’alimentazione light o bio (intere sezioni dei supermercato solo per quelle lei), dalla pratica sportiva ma vissuta come un surrogato soft da elettrostimolatore del caso o da crema anticellulite, arrivando alla lettura quotidiana della rubrica sessuale, presente in ogni settimanale, e semanticamente pensata per lei, non certo per lui.

L’uomo aveva il tabù dell’impotenza; oggi col viagra questo tabù è crollato con il problema, ma il sistema ha sostituito al tabù il totem della virilità mandrilloide (e guarda tutte le pubblicità a tema erezione, dalla lettera scritta al medico al cane che guarda) e un sacco di amici sani prendono questi farmaci perché sottilmente l’introduzione del viagra ha insinuato che fisiologicamente un’erezione debba durare ore o che un amplesso si debba declinare in tanti coiti possibili.

Ma l’uomo ha solo questo problema. La donna è ben più sfruttabile nell’insicurezza. Fai la prova del nove, rompi questo di tabù: chiedi a quante di quelle amiche che sembrano sessualmente emancipate dai loro aneddoti di spiegarti quanti sono gli orgasmi femminili o cosa per loro sente un uomo durante l’amplesso.

Non credi che il controllo della femminilità e tutto ciò che ne consegue, non ultimo il suo sfruttamento commerciale, possano passare dall’introduzione di nuovi totem piuttosto che dalla riproposizione di vecchi tabù?

Lines è:

Lines Seta Ultra – Area Stop:

Non era nevrosi, era endometriosi

L’endometriosi è una malattia che colpisce, secondo alcune stime forse riduttive, il 10% di donne in età riproduttiva. La maggior parte di loro non sa di averla e convive con il cosiddetto «mal di pancia» ogni volta che arrivano le mestruazioni, come fosse un sacrificio dovuto.

Come tutto ciò che riguarda il ciclo femminile, la malattia è infatti un tabù: non se ne parla, le donne non se ne lamentano, i medici non la riconoscono.

Pregevole è dunque l’iniziativa della Fondazione Italiana Endometriosi e del Ministero per le pari opportunità, che quest’estate hanno promosso uno spot per parlare di endometriosi.

E tuttavia lo spot ha diversi problemi, che ben sintetizza Monica, che me l’ha segnalato:

«Senza giri di parole: mi disturba, e molto, il “lieto fine” legato alla maternità. E questo perché:

  1. È riduttivo: l’endometriosi è una malattia infida che, nelle forme più gravi, riduce notevolmente la qualità della vita; questi aspetti vengono menzionati nello spot (“il ciclo fa malissimo”, “fare l’amore è un tormento”, “sogno solo un giorno senza dolore”; si fa riferimento a psicofarmaci e a licenziamenti) e poi (mi pare) completamente oscurati dalla conquista della maternità, che tuttavia non è una soluzione, perché non è guarigione, né cura. Anche ammesso che si possa portare a termine felicemente una gravidanza, la malattia resta, con tutto quello che ne consegue.
  2. Implica una valorizzazione della donna-madre, penalizzante per chi non vuole o non può avere figli: e vissero tutte felici e contente, avendo procreato? È così difficile ipotizzare che una donna malata possa avere come priorità quella di non soffrire di dolori cronici, o di non doversi sottoporre a interventi chirurgici periodici, o di non essere discriminata sul lavoro, o di avere una vita sessuale appagante con il proprio partner, prima che fare un bambino? Non posso evitare di chiedermi: se si fosse trattato di una malattia “maschile”, il finale sarebbe stato lo stesso? O ci avrebbe mostrato un uomo che può finalmente affrontare il mondo senza paura, senza sentirsi inferiore o incompreso, senza essere più piegato in due per il dolore davanti alla scrivania del proprio ufficio?
  3. È, temo, fuorviante: l’endometriosi è spesso causa di sterilità. Il che non significa che sia impossibile, per una donna che ne soffre, avere un bambino; ma può essere, e spesso è, molto difficile. La mia impressione è che lo spot tenda a nascondere questo aspetto della malattia, concentrando l’attenzione su un finale rassicurante che può però non essere quello della storia di tutte (e neanche di molte). Dato il messaggio sotteso che si potrebbe riassumere in “non siete sole, noi possiamo capirvi e aiutarvi”, mi chiedo: che effetto farebbe questo spot a una donna effettivamente sterile a causa della malattia? Non aumenterebbe la sua frustrazione e il suo isolamento?

Questa è la mia opinione, che naturalmente riguarda solo l’efficacia comunicativa dello spot e non (ci mancherebbe) il prezioso lavoro di ricerca della Fie e il suo impegno nella campagna di sensibilizzazione nei confronti di questa malattia ancora poco conosciuta eppure molto diffusa.»

Condivido la tua opinione. Grazie, Monica.