Sentirsi falliti a trent’anni, ovvero: la crisi dell’editoria

Ragazza al computer

Dopo il racconto Cerchi di capire prof, sono vecchia. Ho 26 anni, ho ricevuto, oltre ai commenti, decine di mail private. Ne pubblico una, cambiando riferimenti e nomi per rendere irriconoscibile chi l’ha scritta, perché anche questa – come Anna – non racconta solo una storia, ma mille. E per giunta denuncia un problema di cui oggi si parla troppo poco: la crisi terribile in cui versa l’editoria italiana, che lascia precari e sottopagati i suoi giovani più capaci. Facendoli sentire così: falliti a trent’anni. Mi scrive Sara:

Professoressa Cosenza, non so se si ricorda di me. Molti anni fa ho seguito il suo corso in Semiotica del testo, poi ho fatto la tesi con lei. Non sono una che faceva tante domande a lezione – troppo timida, o forse un po’ pigra – e alla fine mi sono laureata fuori corso e senza lode. Eppure immaginavo per me un futuro grandioso.

Quando ho discusso la tesi mi ero già trasferita a XY, e avevo una sola certezza: lavorare con le parole. Perciò bussai alla porta di una casa editrice: mi sembrava il posto più giusto per il futuro che immaginavo. Avevo ventisei anni nel 2009 e non mi sentivo vecchia per niente, anzi: mi sembrava che la vita dovesse ancora iniziare. Prometteva così bene. Un lavoro che mi piaceva, uno stipendio da 1200 euro, vero e tutto mio, la possibilità di dire ai miei genitori «Grazie, adesso me la cavo da sola». Avevo un contratto a progetto ma la cosa non mi spaventava: non m’importava della stabilità perché era ancora tutto possibile, partivo da lì e chissà dove sarei arrivata. A nutrire le mie ambizioni c’erano le lodi dei miei diretti superiori: parlavano di sensibilità e di talento, mi definivano «una persona su cui investire».

Ora ho trent’anni. Lavoro ancora nello stessa azienda, ma da casa – una bella casa che abbiamo preso in affitto io e il mio compagno quando eravamo felici e che ora probabilmente dovremo lasciare, perché non possiamo permettercela più. Continuo ad accumulare contratti a progetto, ma il mio stipendio, che all’inizio cresceva, ora è più basso di quando ho cominciato. Le mie mansioni sono cambiate. Faccio due lavori in due settori diversi della casa editrice (un doppio part-time, lo chiamano), uno dei due me l’hanno affidato lo scorso maggio come fosse un premio, perché era la dimostrazione del fatto che «non vogliono rinunciare a me». La persona che c’era prima di me era assunta a tempo indeterminato e prendeva circa 1500 euro. Per fare lo stesso lavoro in metà tempo a me ne danno 400. Però mi dicono che non c’è bisogno che mi impegni così tanto.

Ho smesso di crescere. Non parlo solo di carriera, ma del fatto che ho smesso di imparare. Me ne sto tutto il giorno sola davanti al mio computer a scrivere testi che nessuno legge, sapendo che sono l’unica a cui interessi la qualità del mio lavoro.

C’è di peggio. Certo che c’è di peggio. Eppure ogni mattina mi sveglio e penso alla mia giornata, alla somma delle mie giornate. Penso che questa non è, non può essere la mia vita.

Giù dai miei, in Sicilia, quest’estate guardavo mia cugina Maria, che ha un anno più di me e aspetta il suo terzo figlio. Lei non lavora, suo marito ha uno stipendio poco più alto del mio, i genitori li aiutano come possono. Li osservo e mi chiedo se sono più fortunati di me, più felici. Si direbbe di sì. Almeno nella misura in cui sembrano perfettamente a loro agio con le loro scelte e le loro rinunce. Io invece mi sento sconfitta.

A febbraio scadrà il mio contratto. Mi dicono di stare tranquilla perché sarà riconfermato alle stesse condizioni, per altri sei mesi. Il mio capo, quello che voleva investire su di me, mi dice di stringere i denti, di resistere. Se gli chiedo per cosa, qual è il traguardo per il quale dovrei tenere duro, dice che in effetti non lo sa, non può promettermi niente. Però prima o poi le cose dovranno cambiare, migliorare. Per forza, dice.

Io come Anna non so che fare. Ieri mi ha telefonato una mia cara amica – anche lei lavora in editoria, da un’altra parte. Ha detto «La mia vita fa schifo», e io pure: «Anche la mia, anche la mia!». Per un attimo abbiamo riso. Solo che è vero. Conosco decine e decine di miei coetanei che si sentono esattamente così: falliti.

Di chi è la colpa? Di chi ci ha cresciuti ripetendoci che eravamo speciali e avremmo spaccato il mondo? Di chi ci ha formati con la convinzione che combinando tecnica, talento e disciplina saremmo potuti arrivare ovunque? Di chi ci ha detto che esisteva una cosa chiamata merito, di chi ci ha insegnato che il lavoro sodo sarebbe stato ricompensato? O la colpa è nostra?

A trent’anni ci siamo già arresi e siamo – adesso sì – terribilmente vecchi. Quando abbiamo capito che non c’era più niente da aspettare, che tenere duro, stringere i denti, resistere sono semplicemente una condizione di esistenza, quando il presente ha smesso di essere preparazione al futuro, allora ci siamo arresi, e siamo diventati vecchi.

Mi scusi per questa lunga mail senza vere domande né risposte, ma ho letto la storia di Anna, mi ha commossa e ho voluto raccontarle la mia. Le mando un abbraccio. Sara.

Cosa ho risposto a Sara resta fra lei e me. Cosa le diresti tu?

118 risposte a “Sentirsi falliti a trent’anni, ovvero: la crisi dell’editoria

  1. che mi viene da piangere. Perché di anni ne ho 29, ho iniziato a lavorare “seriamente” (non stagioni nei bar o nei negozi, ma in lavori coerenti con i miei studi) due anni e mezzo fa.
    Ho avuto contratti mai più lunghi di 6 mesi, e sono passata dal lavorare gratis, a 400 euro, a 850, a 1300 come picco, e poi di nuovo giù, 700 per sei mesi, da gennaio di nuovo guadagnerò 600 euro al mese, stesse ore.

    Come mai c’è questo boomerang, come mai non si riesce a rimanere stabili? Ti dicono che dovrai fare sacrifici, e li fai, ma come mai a un certo punto diventano permanenti?

  2. Frenz Quiz (@franzquiz)

    Da un lato non ci dobbiamo arrendere, anche se tutto sembra volgere al peggio, dall’altro sarà il caso che questa generazione, boicottata nell’anima, cominci a protestare come si deve. Un tempo, partiti di sinistra e sindacati non la avrebbero permessa, questa folle precarietà.

    Lavorare tutti, lavorare meno? Perché no?

  3. Io direi a lei Professoressa, che davanti ad uno sfogo come quello di Sara riesco solo ad intristirmi e preoccuparmi sempre più, perché anche io frequento Scienze della Comunicazione,anche io ho il sogno di lavorare nel mondo dell’editoria e anche io,per pura casualità, mi chiamo Sara. E l’immedesimazione, in questo caso, è davvero inevitabile e, senza dubbio, spaventosa.

  4. comunque, chiedo perdono per il doppio post, ci tengo a specificare. Non è una “questione di soldi”, è una questione di valore del proprio lavoro. Perché per lo stesso lavoro si va indietro? Che senso ha?
    Sembra di ricominciare continuamente da capo!

  5. Mi scuso in anticipo per il mio cinismo, ma “Sara” ha centrato il punto:
    “Di chi è la colpa? Di chi ci ha cresciuti ripetendoci che eravamo speciali e avremmo spaccato il mondo?”
    Si, anche se non si puo` dire. E` successo a tanti di noi, con genitori e insegnanti che ci dicevano solo : bravi.
    E bravi molti di noi non lo sono. Diceva il vecchio Mark Twain che con un rastrello poteva raccogliere cento persone piu` brave di lui in una sola strada. Cerco di ricordarmelo ogni giorno, per godere meglio dei mie pochi (e piccoli) successi, ed evitare di chiamare sconfitta quel che e` solo realta`. Un saluto a Sara, sperando che trovi la forza di ricominciare, una votla presa cosecienza dei suoi limiti.

  6. non è colpa della società se le aziende editoriali sono in crisi, e se nessuno legge piu libri e giornali. Cambia lavoro, torna in sicilia. Basta lamentarsi e dare la colpa alla società, delle proprie scelte sbagliate. Se oggi faccio la facoltà di filosofia per fare il filosofo e non trovo da filosofo sono l’unico responsabile del mio fallimento. Chi scrive da ragazzo voleva fare lo scrittore, poi doveva fare il magistrato, ed è finito a fare l’imprenditore.

  7. Risponderei di lasciar perdere, ma davvero. La felicità è più importante, e non necessariamente passa da una casa editrice. Ho resistito per anni in una radio locale, che alla fine – non polemizzo per questo – non poteva garantirmi un futuro stabile; all’alba dei trent’anni, con la mia ragazza ho pensato che la tranquillità fosse più importante che una vita spericolata (quella, per me, è andata bene per un po’, poi basta). Ora ho un impiego “normale”, un lavoro insomma, scrivo per diletto e per passatempo, vivo in campagna in un bellissimo appartamento e la mia vita è molto migliore.

    Non si lasci ingannare dal vortice dell’abitudine: anche a me pareva impossibile, impensabile lasciare la radio, invece non ci tornerei nemmeno se me lo proponessero.

  8. Non sei sola, purtroppo e per fortuna. Ho 31, sono giornalista professionista e video maker, sono a partita iva e faccio tre/quattro lavori contemporaneamente per pagarmi l’affitto di casa e la scrivania in uno studio con altre persone che saro’ costretto a breve a lasciare. Si lavora male, in modo frenetico e senza possibilita’ di crescita. Anche io mi sentivo speciale e pieno di talento, ora, pero’ mi sento solo facente parte di una categoria di lavoratori indefinita, una categoria senza diritti e disillusa. Di chi e’ la responsabilita’? Non so’ risponderti. Forse un po’ anche la nostra come generazione che non amo definire fallita, ma condannata a resistere e a cercare una nuova via per lavorare e per vivere seranamente. Con affetto e condivisione.

  9. Io mi trovo in una situazione simile, dopo una laurea a pieni voti e con lode, a 25 anni avevo un contratto a progetto da 900 euro al mese e mi sentivo fortunato, poi non me lo hanno rinnovato, ora a 26 anni lavoro in nero a 500 euro/mese, part time…. Io non so cosa dirle.. sono scoraggiato quanto lei, quello che penso di fare è seguire le mie passioni e con spirito imprenditoriale cercare di trasformarle in un lavoro autonomo, nel frattempo, però, (una cosa non pregiudica l’altra) perfezionare la lingua inglese e andare all’estero.

  10. Cara, chi ti scrive lavora anche lui nell’editoria. Adesso a 46 anni. Ho iniziato a lavorare a 21 anni. Lavoravo in banca, mio padre andò in pensione e fece la scelta di far assumere il figlio….il posto fisso….ho lavorato in banca dal 1991 al 2002….in pochi anni, per mie capacità certificate, ero diventato direttore..nel 2001 dirigevo la mia agenzia nella zona di soccavo….nel 2002 con l’inizio delle privatizzazioni, è iniziata la cirsi anche in quel settore così caro ai nostri avi…..nel 2002 siamo stati licenziati in 750 direttori di banca giovani….era stato istituito appositamente questo ufficio per effettuare i licenziamenti….nessuno ne ha mai parlato abbastanza. Cosa ho fatto a quel punto? Avevo conoscenze nel settore finanziario e sono stato un anno in una compagnia assicurativa. Ma me ne sono scappato. Ho cominciato ad avvertire un odio per quel settore. Per mille coincidenze che non sto qui a spiegare nel 2005 sono entrato nel mondo dell’editoria in quanto ho usato il mio vecchio hobby, la fotografia, per farlo diventare un lavoro. Ci sono riuscito. Ma dopo due anni è iniziata la crisi. Ho licenziato tre dipendenti. Morale della favola ora lavoro da casa. Ho un contratto annuale con un gruppo editoriale importante che potrebbe non essere mai rinnovato o durare a vita. chi puo mai dirlo. Ma ogni anno si abbassa la cifra erogata. Sempre di più. Ma io non posso sopravvivere. Devo vivere. E cerco mille altre cose lavoro sempre in un settore che sento nelle mie corde, ma in pratica non riposo mai. Lavoro sempre.
    Morale della favola: il mercato del lavoro è cambiato e noi dobbiamo adeguarci il posto fisso non esiste più e non esiste più una società statica. Siamo in continuo movimento. Non dobbiamo cercare il certo. E’ inutile perchè nulla e nessunio può garantirci qualcosa. L’unica strada è proseguire e non fermarsi. Mi rendo conto che non è bello. Ma il mondo cambia ed i nostri genitori, i nostri anziani, faticano a caprilo. Cambiamo tutti mentalità e andiamo avanti. Se vogliamo le cose possono cambiare

  11. è finito a fare l’imprenditore…forse perché aveva i soldi per farlo!

  12. A volte penso che rimanere in un determinato settore lavorativo sia un dovere che ci si autoimpone, a prescindere dal sogno che ci guida. Che senso ha continuare a fare un lavoro se non dà soddisfazioni né gratificazioni né a livello economico né a livello professionale? Se non ci permette quasi di sopravvivere? Se la qualità di quello che dobbiamo fare si abbassa sempre di più? Se ci costringe a un isolamento malsano in cui la relazione più stabile l’abbiamo con il nostro pc e con le mura della nostra (piccola) stanza?

    Nel momento in cui ho capito che potevo fare a meno di impazzire tra comunicazione, giornalismo ed editoria (ambiti in cui ho lavorato quasi dieci anni) e stare bene, anzi meglio, ho provato un grande senso di liberazione. E la prima esperienza lavorativa al di fuori di quel settore è stata forse la migliore degli ultimi anni. Le parole, poi, possono essere coltivate comunque, anzi: meglio, una volta liberate dal gioco frustrante della pessima condizione lavorativa.

  13. cara Sara,
    la tua storia sembra la mia. Sentire che certe cose non stanno succedendo solo a me mi fa sentire più forte, e mi fa ricordare quel che penso quando l’angoscia non ha la meglio: non abbiamo una data di scadenza, per quanto ad altri faccia comodo farlo presente in ogni modo. Se i nostri sogni si sono infranti davanti a un mondo cui non eravamo preparate, pazienza: si lasciano i cocci lì per terra, si cambia il progetto, ci si adatta – come la natura ci insegna da sempre a fare. Sentirci fuori tempo massimo, vecchie e quindi perdenti, è comprensibile, persino antropologicamente giustificabile, ma, beh… non ci serve. Per quel che ne sappiamo, si vive una volta sola, e in barba a tutti dobbiamo trovare il modo di farlo. Solo noi possiamo.

  14. Scusi Enrico, quindi secondo lei il problema di Sara è che “deve prendere coscienza dei propri limiti”? e quali sarebbero questi limiti? perchè vede, io non ho ancora capito come funziona il sistema di selezione in questo paese.
    esistono “aziende” capaci di restare sul mercato esclusivamente sottopagando la forza lavoro. non interessa il lavoro di qualità, tanto non è sulla qualità che verrai giudicato. molte aziende rimangono sul mercato esclusivamente perchè hanno rapporti di lavoro con la pubblica amministrazione. peccato che siano le relazioni a farla da padrone in quel mondo, non la qualità. e peccato che le pubbliche amministrazioni stiano chiudendo i rubinetti e non pagano più come prima. risultato: c’è la crisi. ma questa crisi non la pagano tutti, la pagano solo i più sfigati, che – spiace dirlo – per la stragrande maggioranza sono i giovani che, nonostante le loro qualità, non riescono a emergere se non in rarissimi casi.
    il capo di Sara, quello che dice “la situazione deve migliorare per forza” spera che sia possibile ritornare a un passato che non tornerà. Il mio consiglio (per quello che conta) è lavorare in proprio per cercare di non dipendere più da capi come quello di Sara, quelli del “vorrei ma non posso”, quelli però che senza Sara o altre come lei non starebbero in piedi.
    Chi crede di essere meritevole deve rischiare. a trent’anni non ci si può considerare falliti. non senza averci almeno provato. l’esempio dei nostri genitori (per i più: dipendenti pubblici, what else?) non va preso come un esempio. mio padre mi ha avuto a 23 anni. a 22 aveva vinto un concorso a tempo indeterminato nella PA. mia madre a 22 insegnava in un istituto magistrale, lavoro che ha fatto per tutta la vita. io ne ho 33 e chissà quando avrò mai un figlio. ma le nostre storie non sono paragonabili.
    ognuno può cercare una propria soluzione personale, ma quello che manca è un filo unico (una volta l’avremmo chiamata politica) che cerca di tenere tutti e tutte insieme. non è che ci sono molte alternative: o quello, o la disperazione di una lettera come quella di Sara

  15. Precari dell’editoria unitevi, reagite, non sentitevi più soli e incapaci di reagire: c’è Rerepre! http://www.rerepre.org

  16. Io invece non lo so se sono giovane o vecchia, se ho “troppa” esperienza o non ne ho abbastanza.
    Ho 27 anni, lavoro full time in un’azienda e, mentre lavoravo, sono riuscita a studiare e a laurearmi. E’ lei, professoressa, che mi ha proclamato dottore e vado fiera di questo risultato ottenuto tutta da sola, studiando nei ritagli di tempo, in pausa pranzo, la sera dopo cena, la domenica mentre i miei amici uscivano.
    Come dicevo lavoro full time e sono una dei pochi giovani fortunati che possono dire di avere un contratto a tempo indeterminato.
    Detta così sembra tutto bellissimo: un lavoro fisso e una laurea conquistata con fatica ma soddisfazione.
    Il problema è che questo lavoro non mi piace… non è quello che voglio fare tutta la vita. La storia è lunga, ma credetemi sulla parola: non è il mio lavoro.
    Così ho cominciato a spedire il mio curriculum a destra e a manca per posizioni più pertinenti a ciò che ho studiato: organizzazione eventi, agenzie di comunicazione, uffici stampa, centri congressi di alberghi ecc.
    Non me l’aspettavo, ma sono stati parecchi quelli che mi hanno chiamato per un colloquio. D’altra parte, senza falsa modestia, so di avere un bel curriculum: ho già diversi anni di esperienza, qualche ruolo di responsabilità, una laurea.
    Ma il problema è che il mio contratto a tempo indeterminato, che ci crediate o no, mi penalizza: noi volevamo offrirti uno stage o un contratto di apprendistato, ma se hai un contratto a tempo indeterminato non possiamo farti rinunciare, oppure noi volevamo offrirti un tirocinio, ma ormai sei troppo qualificata…
    Io non sono stupida, non pretendo certo di trovare un altro lavoro, un lavoro che mi piace, dove mi venga subito offerto un contratto come quello che ho adesso, soprattutto visto che si tratterebbe di un lavoro nuovo di cui non so niente. So che dovrò adeguarmi sicuramente ad altre condizioni, ad un’altra retribuzione probabilmente, imparare un mestiere nuovo, ma non posso essere esclusa a priori dai processi di selezione perché ho un contratto a tempo indeterminato. Quello che dovrebbe essere un vantaggio si rivela un grosso ostacolo, e io mi chiedo se un contratto a tempo indeterminato valga il fatto di sentirsi così insoddisfatti e senza stimoli. Vorrei imparare il lavoro per il quale ho studiato, ma nessuno vuole investire su di me per insegnarmelo perché “ho già troppa esperienza”, “ho già uno stipendio buono e un contratto al quale non possiamo chiederti di rinunciare”.
    Mi chiedo se vale davvero la pena di continuare. Lo so che dovrei baciarmi i gomiti per quello che ho, ma mi sento totalmente insoddisfatta. Forse sono egoista, ma io vorrei fare un lavoro che mi stimoli, mi appaghi, dove posso realmente dimostrare ciò che valgo. Ma per trovarne uno devo veramente rinunciare a quello che ho adesso, per ricominciare da capo con, ad esempio, uno stage non retribuito e dove nessuno mi garantisce che poi, una volta finito, ci sia un vero contratto ad aspettarmi?
    Mi sento davvero frustrata, e mi sento egoista perché persone come Sara vorrebbero un contratto come il mio. Io invece vorrei fare un lavoro che mi piace, e cambiare lavoro dovrebbe essere una cosa normale; non è normale invece che oggi un contratto a tempo indeterminato, se vuoi iniziare una nuova esperienza, si riveli più un ostacolo che un vantaggio…

  17. io l’ho mandata al mio capo.

  18. non so. Lavoro nell’editoria, sono stata precaria per tanti anni e ora contratto indeterminato..anche se qualche mese fa sembrava dovesse finire tutto. Io ho pensato solo una cosa, che continuo a pensare anche oggi, dato che la sedia traballa sempre: perchè ostinarsi e aggrapparsi a un settore che è ormai una carcassa morente?
    la vita vera non viene forse prima? non sarebbe meglio fare altro, portare il pane a casa e, nel caso, coltivare questa passione con piccole collaborazioni?

    L’editoria è un settore che pretende di pagare in prestigio al posto che in denaro. è un settore per ricchi, che ti chiede di pagare per lavorare. è un settore fatto da famiglie di una certa estrazione sociale, per cui il lavoro è, di fatto, un hobby.
    Se venissi licenziata? se mi pagassero troppo poco per vivere?
    beh…bye bye editoria!

  19. A me manca poco per arrivare alla soglia dei trenta. La mia carriera universitaria è stata brillante a 23 anni ero laureata anche se non con la lode ma a dire il vero non me ne sono mai crucciata più di tanto. Sto per diventare pubblicista ed anche io vorrei lavorare utilizzando le parole ed invece sono disoccupato. O meglio scrivo per due testate importanti della mia città eppur non mi paga nessuna delle sue. Tu hai ragione è uno schifo lavorare così tanto per guadagnare così poco ma almeno a te quel poco arriva nelle tasche.. Lo vedrai andare via in un attimo ma continui a mantenere la tua indipendenza e a lavorare nell’ambiente che ami. Al momento mi accontenterei anche io di 400 euro ma potrei cominciare a dire sto lavorando, vengo retribuita male ma pur sempre retribuita ed amo il mio lavoro. Sono disperata e stanca a tal punto che proprio ieri ho consegnato un cv per diventare commessa facendo storcere la bocca a tutti i miei familiari.. ma io non posso continuare ad alzarmi la mattina senza sapere cosa fare o continuare a scrivere senza ricevere il giusto compenso.

  20. Non so cosa dire, è un pugno nello stomaco.
    Professoressa, mi scusi se mi permetto di dirlo, ma a questo punto non so quanto possa essere utile pubblicare queste testimonianze, se non far scoraggiare ancora di più noi studenti, ex-studenti, futuri lavoratori.
    Io sono quasi alla fine del mio percorso di studi (magistrale), e non passa giorno in cui non mi chieda per quale assurdo motivo io stia continuando ad andare ancora all’Università. Ormai siamo sempre più preparati (con questo intendo dire che ormai c’è molta gente che s’iscrive all’Università e consegue la laurea rispetto a molti anni fa), studiamo e studiamo ma il nostro impegno non porterà a nulla… come può uno studente essere cosciente di tutto questo e continuare a studiare con lo stesso impegno e la stessa passione di una volta? Io non ci riesco più. Ho amato tantissimo quello che studio e che ho studiato, ma purtroppo l’amore (vagliami ‘l lungo studio e ‘l grande amore, scriveva Dante) non serve, è inutile, corrode, inganna. Ogni giorno io vado a studiare in biblioteca, e le biblioteche sono sempre pienissime di gente che studia per davvero, con passione e interesse… io guardandoli (e guardandomi) ogni volta mi chiedo: ma che ci stiamo facendo ancora qui? Davvero ci vogliamo prendere in giro in questo modo? Siamo coscienti che saremo (o già lo siamo?) uno stuolo di insoddisfatti cronici e depressi?
    Io non saprei cosa rispondere a Sara, perché io ormai sono arrivata a non credere più a nulla. Non vedo l’ora di finire l’Università per chiudere definitivamente con un mondo che credevo mi avrebbe portato un po’ di libertà in più, mentre invece ora mi sento molto più invischiata di prima in un marchingegno che sembra non avere porte d’uscita.
    Che fare? Me lo chiedo ogni minuto.

    Ogni giorno penso a questo, e ogni sera vado a letto con la testa che mi scoppia.

  21. La lettera di Sara mi deprime, specie considerando che pure io spero, prima o poi, di riuscire a trovare il mio posticino nel mondo dell’editoria.
    Ma alcuni commenti mi spiazzano ancora più della condizione di Sara.
    La colpa non è ‘soltanto’ della celeberrima crisi ’07-’08. La crisi per noi disgraziati – leggesi ‘italiani’ – è iniziata intorno al 2001-2002, quando il governo ha sfracellato i diritti dei lavoratori e ha permesso che tornassero in auge i contratti-porcata che impediscono a un lavoratore serio e preparato di vedersi riconosciuto il proprio lavoro. Il fatto che ci sia chi tenta di ignorare questo semplice ed evidentissimo fatto, sperando magari che la colpa sia di Sara che non si impegna abbastanza o si illude troppo, è veramente squallido.
    Che poi la crisi dell’editoria in Italia sia più grave che dalle altre parti, beh, questo è vero. Si chiama ‘mancanza di investimenti’. O ‘abbiamo fatto salire ai vertici delle case editrici degli incapaci a forza di calci e nepotismo e adesso non c’è più nessuno abbastanza in alto che abbia idea di come uscirne’.
    Almeno, questa è la mia personalissima impressione.
    Spero che Sara trovi il modo di far valere le proprie competenze in questo brutto mondo. Buona fortuna.

  22. Teresa: porta pazienza. Su questo blog pubblico di continuo soluzioni e incoraggiamenti. Al punto che c’è pure chi mi prende un po’ in giro per questo, tipo Enrico Marsili. 🙂 Se questa volta ho voluto dare spazio a testimonianza negative c’è una ragione.

    Concreta. Per quel che riguarda la storia di Anna, non è un dialogo vero, ma la ricostruzione di decine di dialoghi, in cui finisce sempre che il/la ventenne di turno mi dice che è troppo vecchio/a per questo e quello.

    Per quel che riguarda la mail di Sara, l’ho pubblicata perché voglio mettere il dito nella piaga attuale dell’editoria italiana, e voglio che chi sta studiando ora non si faccia illusioni. Sappia cosa lo/la attende.

    Dopo di che, pubblicherò anche qualche proposta di soluzione, fidati. Tornerò a farlo. Se selezioni la categoria “Stage e lavoro” e la percorri all’indietro, è pieno di testimonianze di ragazze e ragazzi che lavorano e stanno benone… pur laureati in Scienze della comunicazione e in Semiotica. Solo che in certi settori, in questo momento, conviene NON indirizzarsi. Fare altro, sempre lavorando con le parole, e farlo al meglio si può. Come qualcuno fra i commentatori, più sopra, ha già osservato.

  23. In risposta a Enrico Marsili: in parte hai ragione, ci sono molti coetanei miei e delle ragazze di queste storie che sono cresciuti nell’illusione di essere destinati a spaccare il mondo, circondati anche da persone (genitori e insegnanti) che glielo hanno lasciato credere. Quindi è vero: molti bravi non sono. Eppure anche quelli che lo sono, e lo sono veramente, stanno tutti i giorni a ricevere sprangate sui denti. La ragazza di questa storia dovrebbe “accettare i suoi limiti”, ma che ne sai delle sue capacità professionali? L’avessero lasciata a casa, o demansionata, perché poco competente, poco utile all’azienda per cui lavora, potrei anche capire, ma qui siamo davanti a una persona che fa (o faceva) il suo lavoro con perizia e con passione. Oppure vogliamo credere che il primo stipendio gratificante lo abbia preso perché ha accavallato bene le gambe al colloquio. No, suvvia.
    A me brava non lo hanno mai detto se non quando me lo meritavo (se arrivavo a casa tutta contenta di un 29 mio padre era il primo a chiedermi “perché non 30?”, mi son trovata un relatore che mi ha detto “la sua tesi fatta così è una schifezza” e aveva ragione) e francamente me lo sono sentita dire tante volte negli anni dei miei studi quindi sì, sono convinta di essere brava in quello che faccio e sono convinta che saprò esserlo quando avrò chiuso con gli studi e intrapreso una professione. Avere le competenze ma un lavoro al di sotto di esse, anche sotto l’aspetto retributivo, può essere colpa di tanti fattori, ma non certo nostra perché non sappiamo accettare presunti limiti.

  24. Scappa Sara, se non proprio dall’Italia, scappa dall’editoria,

  25. Be’, io Sara la capisco. E non ho parole che la possano aiutare a stare meglio. La cosa che, personalmente, mi fa impazzire -a me che cerco con testardaggine di seguire sempre e comunque un sogno, che quella è l’unica cosa che ti può tenere a galla- è il fatto che mi sento incastrato in un buco troppo stretto per uscirne.
    A noi, al nostro talento, ci hanno presi all’amo e lì ci tengono. Non ci tirano mai su. Ci danno 400 euro al mese ma lavoriamo, e così ci sembra che tutto il mondo sia a un soffio, a portata di mano. Che da un momento all’altro, oh, la botta di culo arriverà pure a noi, no?
    Se solo ci dicessero che non migliorerà, che cadrà tutto a picco. Se solo non ci avessero fatto sentire l’odore del nostro sogno, sarebbe stato tutto più facile. Ecco perché resistiamo con quattro lire, pur di poter vedere il mondo di cui vorremmo fare parte dal buco della serratura.

  26. Qui io leggo di gente che si dispera per 500 euro al mese… io invece invidio voi che li guadagnate! Dopo 4 anni di servizio onorato in una radio locale per la bellissima cifra di 600 euro lorde al mese (a partita iva), il 2 settembre, al ritorno dalle vacanze, la mia ormai ex direttrice mi ha detto: “te ne devi andare perchè il tuo stipendio lo devo dare a un opinionista che parla di calcio”.
    Fidatevi, io ci metterei la firma su 500 euro al mese part time… la situazione è molto più tragica di quella che pensate. Quotidiani locali che pagano gli articoli dopo un anno (!!!), collaborazioni saltuarie che terminano quando finisce l’evento. E’ vita questa?

  27. Sono, così mi definiscono, un piccolo imprenditore (meglio artigiano) della comunicazione. Una persona fortunata che vive del proprio lavoro e che ha ottimi collaboratori. Leggere una lettera con quei contenuti fa male. Prima di tutto per lo spreco di sogni e capacità dei nostri giovani che non sono altro – necessariamente – il futuro di questo paese. Mi permetto di offrirvi il mio punto di osservazione. Per me dare spazio ai giovani è una sorta di religione (ho due socie, una ha meno di 30 anni ed è entrata dopo un tirocinio), però …

    No, non sto per dirvi che i giovani oggi sono pigri, poco volenterosi, poco inclini al sacrificio. Come in ogni macrocategoria c’è di tutto. Io sto provando ad inserire una nuova persona, utilizzando gli strumenti che il diritto ci mette a disposizione. Possa assicurarvi che gli strumenti compatibili con le risorse di una micro azienda (in totale, soci compresi siamo 6), sono pressochè inesistenti. Vi potrà sembrare paradossale ma anche questo è frustrante.

  28. Scusami, ma che discorso è? Prima vai due anni fuori corso senza alcun motivo (non avevi figli, non lavoravi), poi ti lamenti? Smettila di piangerti addosso e vai a lavorare! Ma cosa credi, che i nostri nonni avessero la pappa pronta? Perché non vai a fare la badante a 1000 euro al mese con vitto e alloggio interamente pagati, in regola, come le moldave assunte da mia nonna, che ci hanno svaligiato la casa e lasciato un conto aperto di 20.000 euro in un negozio? Magari avessimo trovato un’italiana al posto di quelle due delinquenti! [Dico italiane perché almeno avremmo avuto accesso a dati pubblici come residenza (per le notifiche) e beni intestati (per recuperare i soldi dovuti), e avremmo chiesto il certificato del casellario giudiziale (per essere sicuri che non avessero precedenti), invece che assumerle ad occhi chiusi sulla base di false referenze].
    Perché non vai a fare la segretaria a 1500 euro al mese, sempre in regola?
    Perché non fai la receptionist come Anna, che ha sale in zucca?
    Perché non vai all’estero?
    Perché non impari uno dei mestieri storici che stanno scomparendo (calligrafia, stampa a mano, pizzo veneziano, restauro, intaglio, ceramica, intreccio di vimini, lavorazione dei metalli, ecc)?
    Ci sono imprenditori che si ammazzano, gente che non riesce a mantenere i tre figli, è un periodo difficile PER TUTTI, non sei mica l’unica laureata che non trova lavoro. O ti rifiuti di essere schiavizzata scegliendo un lavoro diverso, oppure smetti di lamentarti. Tutti abbiamo dovuto fare sacrifici e cambiare i nostri obbiettivi, perché questo è il periodo storico in cui viviamo.
    Lamentati se ti passano davanti i raccomandati incompetenti o se ti discriminano perché sei donna (cosa che succede tutti i giorni, comunque), ma non rimanere lì inerte a scrivere, piuttosto fa’ volontariato!
    Cosa farai quando avrai dei figli? E se dovessi trovarti anche tu nel mezzo di una guerra, con la casa distrutta? Rimarresti lì impalata oppure ti renderesti conto che nel mondo degli adulti le passioni vanno relegate al tempo libero? Puoi scrivere tutti i giorni dalle 17:00 in poi e nei weekend, non mi sembra una tragedia.

  29. ma come fate a dare addosso a questi giovani, se fossero nati in Svezia, in Danimarca o in Svizzera, in Francia che so..avrebbero una loro indipendenza, una vita dignitosa e potrebbero fare dei figli
    non è questione di pensare di spaccare il mondo, se ormai spaccare il mondo vuol dire accedere a “privilegi” che dovrebbe essere il minimo per una persona che ha investito nella cultura

  30. Storia simile alla mia, solo che io sono arrivata alla fase successiva ed ho perso il lavoro 8 mesi fa. Essendo a partita iva non ho diritto a disoccupazione e tfr. E mi chiedo perché mi sono laureata in ingegneria, visto che potevo fare la disoccupata studiando molto meno.

  31. Cara Sara, biglietto sola andata e passa la paura. Ma so che questa non è la risposta giusta, è solo la mia.

  32. io di anni ne ho 37
    scrivo da quando ne avevo 10
    mi occupo di musica e voli pindarici
    in realtà ho dovuto occuparmi di vendita di pc, abbigliamento, portare a spasso cani, badare a qualche bambino…credo che per il futuro dovrò anche cominciare a valutare il lavaggio stoviglie in qualche ristorante estero.
    se mi arrendo sono morta
    e non voglio morire due volte in una vita…ne basta una.

    mi rendo conto che per fare questo però ho dovuto rinunciare alla “normalità” della vita…
    dove per normalità intendo la vita allegra degli anni ’80 …quella che abbiamo vissuto e che forse ci ha viziato la crescita.
    abbiamo avuto tutto e la possibilità di fare tutto… ci hanno raccontato che con l’impegno e il talento si arriva sempre
    hanno dimenticato di dirci che però devi essere figlio/nipote/amico/lontano parente di qualcuno.

    questa mia per dirvi che tutto ciò che è basato su intelletto e creatività è in crisi non solo l’editoria..tutto ciò che spinge a pensare non è consono a questo modello di società.
    è in atto un processo di desensibilizzazione cerebrale…ci stanno facendo diventare degli automi che devono lavorare in condizioni di schiavitù per non uscire dai binari.
    il percorso che fanno i nostri binari è circolare noi dobbiamo guadagnare per vivere e per vivere siamo costretti anche a guadagnare poco e se guadagniamo poco allora non riusciamo a vivere

    io non mi sento una fallita. lo sono forse per questa società di mediocri in cui viviamo.
    non ti arrendere.

    non vi arrendete

    non dategliela vinta.

  33. Io mi sono laureato a 22 anni, laurea triennale in psicologia. Ho iniziato come tanti con una stage gratuito nel campo delle risorse umane, poi contratti a progetto a 500 €. Poi ho deciso di gettare la spugna, ho iniziato a fare il commerciale e ad essere assunto con contratti a tempo indeterminato. Ora ho 27 anni, non sono ricco ma guadagno 2000 € al mese + bonus in una delle multinazionali internet più importanti del mondo. Ho messo i sogni nel cassetto e ho buttato via la chiave, il mio lavoro non mi piace ma mi hanno concesso un mutuo. Ho una compagna splendida (disoccupata da qualche mese, ormai) e un bimbo di 2 anni meraviglioso. Bisogna adattarsi. Adattarsi a questo mondo che dei nostri sogni se ne frega.
    Un saluto a tutti e: coraggio!

  34. Suggerisco a tutte e tutti la lettura del post di Christian Raimo sul Linkiesta.it che si chiama “I precari avranno mai una coscienza di classe?” e il post di jacopo Galimberti su alfabeta2.it che si chiama “Per un micromaterialismo della vita precaria”. Mi sa che hanno ragione quelli che dicono che da soli non ci si salva. O iniziamo a metterci in testa di educarci alla politica, o in tanti, a parte quelli che si salveranno, finiremo nella merda, tutti insieme a recriminare (dal salotto) contro il “il sistema” cattivo, “la casta” corrotta che ci ha tolto i sogni. I diritti non si acquisiscono per discendenza, si conquistano con la lotta collettiva, come hanno fatto le generazioni che ci hanno preceduto. E sennò, biglietto di sola andata per un posto lontano.

  35. Finché i precari continueranno a lamentarsi da soli saranno degli eterni sconfitti. Certo il Sindacato ha perso molto del suo lustro, rimane però ancora l’unica alternativa allo strapotere padronale. Lo Statuto dei Lavoratori ( sono abbastanza vecchio per averne seguito in diretta la nascita) non è piovuto dal cielo. I lavoratori dell’epoca se lo sono guadagnato combattendo contro Valletta e la sua “polizia” interna della FIAT, contro le cariche della polizia. Non ho visto i precari scendere in piazza dopo la legge Fornero.
    Scusate la franchezza: o i precari si battono come hanno fatto gli operai alla FIAT o è meglio che pensino ad emigrare. Non esistono alternative, la legge del liberismo è questa!

  36. Quoto Teresa e il suo commento in risposta, professoressa.
    La mia posizione è un bilanciamento tra le vostre opinioni.

    Aggiungo:
    Sara dovrebbe valutare la prossima stesura di contratto.
    Io andrei via da una casa editrice che mi ha logorato abbastanza. Sentirsi dire “sei brava, hai le carte, vogliamo investire su di te”, e non vedere concretamente ripagati tutti gli sforzi fatti, non basta.

    Lo farei la mia dignità, e la volontà di cercare un mestiere che sia in grado di ripagare dignitosamente ciò che sono, il cammino fatto, quello stesso che mi ha portato fin lì.

    Le alternative si trovano: esistono. Magari per un momento ci si adatta a fare altro, ma se si persegue con costanza un obiettivo, prima o poi si arriva a sfondarlo.

    Voglio ancora crederci.

  37. comunque complimenti per il titolo cosenza, come se una situazione simile fosse un problema dell’editoria! pure in banca fanno i contratti a progetto ora!

  38. Io le direi che è in buona compagnia e che, come lei, non ho molte speranze nel futuro. Vivo alla giornata e ringrazio di aver un contratto. Per ora. Fino a dicembre. Poi chissà.
    Sinceramente non riesco a essere positiva. Ormai la disillusione mi fa compagnia ogni santo giorno.

  39. Per favore, non piangerti addosso. È’ la cosa peggiore che tu possa fare a trentanni.
    Fai la tua vita, stringi i denti se serve ma sempre col sorriso.
    Siamo tutti sulla stessa barca e non si può incolpare nessuno dei propri fallimenti e tanto meno un mercato che non tira o l’azienda che si barcamena come può.

  40. A tutti coloro che accusano i precari di non lottare: penso che non ci siano le condizioni. I lavoratori che scioperavano per ottenere lo statuto dei lavoratori, i contratti nazionali ecc. avevano potere, il potere di ricattare (col loro sciopero) i “padroni”. I precari che potere hanno di ricattare? Zero, dato che sono loro i primi a essere ricattati e sono considerati intercambiabili (tu scioperi/protesti? Vabbe’, ciao, tra tre mesi ti scade il contratto e assumo un altro). Sul precario un’azienda non investe in formazione, aggiornamento ecc. perché ci perderebbe. Quindi davvero uno vale l’altro. C’è un bel libro di Luciano Gallino, su questi temi: “Il lavoro non è una merce”. Ne consiglio la lettura, è davvero illuminante, anche perché comunque non è pessimista in modo totale, cioè non è deprimente come questa lettera di “Sara”. Venendo a Sara, cosa dire… concordo con chi le consiglia di non intestardirsi. Torna in Sicilia se pensi che sarai più felice tra i tuoi affetti, oppure resta a Milano o dove sei andata a vivere, ma facendo altro. Magari scopri anche che fare altro ti piace. Per me e per tanti trentenni (o poco più) miei coetanei è andata così. Siamo quelli che alla domanda “cosa fai nella vita?” rispondono: “Di lavoro [se in quel momento c’è] faccio X, però il mio vero lavoro – anche se è una passione e non ci guadagno – è Y”. Giusto? Sbagliato? Questo mondo è così e adattarsi, trovando comunque il modo di coltivare i propri affetti e le passioni, non è necessariamente rassegnarsi e arrendersi; per me lo è di più insistere su una strada chiusa come tu stessa trovi ormai la tua. Scrivere, puoi continuare a farlo in mille modi; io stessa scrivo, collaboro con riviste, ma il mio lavoro è altro, non mi manterrei mai con la scrittura.

  41. E’ uno dei motivi per cui non cambio lavoro. Fin che posso. Ad avere coraggio (e bravura) ci sarebbe da ampliare i nostri orizzoni. Laggasi: tentare all’estero. Che altro? Ah, sì. Dire qualche volta “no” fa bene. (No a contratti da schiavi, no a lavori di emme.) Non so se faccia bene al portafogli, ma all’anima di sicuro.

  42. Cara Sara,
    non ho avuto tempo di leggere i commenti, temo che il mio sia dissonante. Ti chiedi giustamente “Di chi è la colpa?”. La risposta è semplice: dei milioni di persone che in Italia frenano lo sviluppo, a loro vantaggio. In parte ricchissimi, in parte benestanti, in parte poveri diavoli.
    I rimedi ci sarebbero, li trovi ben scritti in buona parte degli editoriali del Corriere e de La Repubblica.
    Il problema è che la maggioranza degli italiani, forse (FORSE) te inclusa, o non li conoscono o non li vogliono.

  43. Meno male che c’è ancora qualcuno che non è disposto a farsi mettere l’anello al naso dicendo “no”. Ad Ilaria rispondo che nelle fabbriche degli anni ’50 e ’60 c’erano ancora meno condizioni di quelle che lei lamenta per i precari. Quegli uomini e quelle donne pur non avendo studiato avevano una alta considerazione della dignità della persona e del lavoro. Le vessazioni, i turni massacranti, i licenziamenti in tronco perché eri un compagno non sono condizioni più agevoli di quelle dei precari di oggi. Quei lavoratori, gli stessi degli scioperi del ’43, non si vergognavano di aderire ad un sindacato, non importava quale, per far capire al “padrone” con chi avesse a che fare. Quanti precari hanno provato ad aggragarsi sindacalmente anche in un sindacato autonomo? Nessuno. Quanti hanno in tasca una tessera di un sindacato di quelli storici? Nessuno. Quando vi anno detto che potevate conquistare il mondo (ed anno fatto bene a spronarvi in quel senso) non vi anno detto però che abitavate su Marte e il normale rapporto dialettico (così si chiamava una volta eufemisticamente la lotta di classe) fra datori di lavoro e lavoratori in una società capitalistica non esisteva. La mia percezione è che avendo studiato vi siate sentiti dalla parte dei “padroni”, il sindacato o comunque una forma organizzata di difesa dei vostri interessi non fosse necessaria perché vi sentivate sulla sponda giusta. Visto che avete studiato leggetevi un po’ di storia del movimento operaio e cercate di imparare come si fa a conquistare il proprio posto al sole perché nessuno, proprio nessuno ve lo regala!

  44. Ivan, hai ragione. Io non mi stavo lamentando a dire il vero, stavo proponendo un’analisi con punto interrogativo. A dire il vero a volte ho anche l’impressione che da un lato ci si lamenta per la situazione descritta nel post ma non so quanta voglia ci sia veramente di lottare. Per conquistare cosa? Anche tra i commenti a questo post, come anche nel mondo là fuori, ci sono persone che si lamentano (poiché si sentono “strette”) anche del lavoro a tempo indeterminato. Quindi cosa vogliamo? “Realizzarci nel lavoro”; ma a volte ho l’impressione che non si sappia bene cosa sia questa realizzazione, e comunque non si è mai contenti. Poi c’è il problema del dover mangiare/pagare le bollette che ci riporta terra terra, ma lasciandoci quel senso di frustrazione. Probabilmente questa generazione (di cui faccio parte) è stata molto viziata, questo sì; poi dall’altro lato c’è comunque un dato di fatto che è un mondo del lavoro che ti tratta come merce e per il quale vali solo il tempo di essere sfruttato.

  45. “La gente vive per anni e anni, ma in realtà è solo in una piccola parte di quegli anni che vive davvero, e cioè negli anni in cui riesce a fare ciò per cui è nata. Allora, lì, è felice. Il resto del tempo è tempo che passa ad aspettare o a ricordare. Quando aspetti o ricordi non sei né triste né felice. Sembri triste, ma è solo che stai aspettando, o ricordando. Non è triste la gente che aspetta, e nemmeno quella che ricorda. Semplicemente è lontana.” (Alessandro Baricco – Questa Storia)

    Cara “Sara” ho rifiutato l’ennesimo contratto a progetto dalle condizioni inaccettabili. Perché chi non ha diritti, non ha nemmeno il diritto di decidere di “licenziarsi”. Sono sempre piena di speranza quando qualcuno mi offre un lavoro, ma ormai non lo cerco più. La società per cui lavoravo, la Terminal Production, casa di produzione bolognese, imposta la sua esistenza esclusivamente sulla speculazione economica di chi lavora per due soldi. E’ lì che guadagna. E guadagna tanto, ma si mette tutto sotto il materasso-che-non-si-sa-mai-la-crisi. Non guadagna sulla qualità o sui risultati, ma sull’inganno, sulla furberia. E’ un inceneritore di esseri umani. E si vede. I suoi prodotti sono pessimi. Ma che importa? L’importante è vendere tutto e subito e se puoi fregare qualcuno è meglio.
    Non bisogna avere paura di denunciare delle aziende umanamente fallite. La questione non è la crisi dell’editoria. E’ la crisi della dignità umana.

    Smetti di lavorare dove non impari più, o dove non hai mai imparato, o dove non imparerai mai. Smetti di fare una vita che non ti piace. Non fidarti delle persone fallite, le vere persone fallite, intendo. Le riconosci dall’olfatto, sanno di rancido e stantio. Cerca persone balsamiche, che sappiano di salubre e di fresco. Continua ad inseguire te stessa, “ciò per cui sei nata”. Lo puoi trovare fino in capo al mondo, o anche dietro l’angolo di casa. Questa è la vera bellezza. Basta saper cercare la cosa giusta. E continuare a cercarla.

  46. Cosa le direi?

    Sono coetaneo della ragazza che Le ha scritto.

    Le direi che sta facendo il possibile per cambiare le cose nel suo settore.
    Che i concorsi di dottorato, le borse di studio, tutto ciò che Lei può avere modo di controllare e che si muove all’interno della Sua università, si svolgono tenendo conto del principio della trasparenza e del merito o che, comunque, lei combatterà contro ogni sorta di clientelismo e iniquità.

    Questo mi basterebbe per sentirmi meglio.

    Cordiali saluti,

    Dario

  47. Sottoscrivo il commento di Nubiblu. L’editoria è in gran parte un settore per ricchi figli di papà, oggi più che in passato; un ambito in cui s’impiega chi non ha bisogno di denaro per vivere. La pretesa è per tutti di sentirsi ripagati UNICAMENTE dal prestigio di operare in ambito culturale e dalla fortuna di svolgere un lavoro che è una passione. Ma, parliamone, di quale prestigio si tratta, in fondo? Ho l’impressione che il mondo editoriale ormai abbia le fattezze di una specie di triste massoneria, in cui se la cantano e se la suonano sempre gli stessi quattro fighetti (o sfigati?). E la passione? Come a Sara, accade che, dopo qualche anno passato a scrivere testi che nessuno legge, ci si inizi a chiedere se era veramente quella, l’aspirazione originaria. Tenetevi pure il presunto prestigio e la presunta passione per il lavoro culturale. Personalmente, preferisco vivere. Ho abbandonato la zattera (per certi versi tardi e a fatica – era pur sempre il mio obiettivo postuniversitario! – per altri in tempo, prima di essere spremuta, sfruttata e buttata via) quando ho capito che non c’era serietà, né sostanza; e che non ci sarebbero state speranza né continuità.

  48. sara vive la crisi di un settore che è forse il più penalizzato,sta subendo un cambiamento profondo del modo di comunicare e la crisi ora del sistema economico.Lei è nell’occhio del ciclone, c’è chi ha perso tutto con questa crisi c’è chi si è addirittura suicidato perche non sapeva a che santo votarsi. chi ha organizzato questo ambaradan ha fallito! Sarà no! ha creduto in una professione ma questo è normale ed auspicabile, i tempi però sono oscuri e non glielo consentono. ciascuno deve trovare una strada sua, rimaneggiando e rivedendo il panorama che ha davanti, poichè nessuno è in grado di indicarle una via, al più proporle una soluzione.In bocca al lupo.

  49. Dalla società del capitale non c’è nulla di che aspettarsi, è una società di scontro, di guerra, di lotta. Se non ti fanno “lavorare con le parole”, coi numeri, lo zucchero, il torchio o quant’altro è segno che l’attuale società non ha bisogno al momento di servirsi di te. È il dominio del capitale che si servirebbe delle parole in cambio di quell’obolo per tenerti alle sue totali dipendenze non saresti di sicuro tu a usarle. È riprovevole sentire belle addormentate nel bosco, col loro spregevole egoismo, rivendicare la propria e, ancor più, l’altrui schiavitù salariale, in più nel demenziale ambito della “cultura”, nel settore più odioso della divisione del lavoro boghese, il più maligno: quello dell’ideologia. Percui rigetta la tua dottrinetta specialista e attendi brindando felice alla naturala estizione delle case editrici, sintonizzati con la realtà oggettiva. Svegliati, non è più l’ora di dormire !

  50. Io di anni ne ho 35 e ho lo stesso fagotto in spalla: la mia vita sembra fare schifo, secondo certi parametri basilari, ossia lavoro/stipendio/qualità della vita.
    L’editoria è stata la mia passione fin dai 26 e ho lavorato e sudato per anni, fino al fatidico contratto a tempo indeterminato che, però, mi ha lasciato magicamente senza niente (ho lavorato gratis per un anno e non ho avuto liquidazione, ora sono in causa ma dubito che riavrò i miei soldi).
    È l’editoria il problema? Sono le leggi che permettono lo sfruttamento dei lavoratori? Siamo noi il problema, che sogniamo un lavoro creativo e siamo troppi? Sono gli editori, che non hanno scrupoli e se ne fottono della qualità, perché l’importante è guadagnare sui salari?
    È un insieme di cose. Sta di fatto che questa NON È VITA. Possiamo raccontarcela quanto vogliamo, possiamo fare i sognatori, gli illusi, quelli che tengono duro ecc. ma la verità è che se non si ha un partner ricco o dei genitori che ci passano la “paghetta” anche a 40 anni (ossia ci coprano le spalle) le nostre vite continueranno a fare schifo.
    Forse dobbiamo svegliarci davvero…

  51. “Anche la mia, anche la mia”.

  52. Purtroppo le condizioni di lotta dei precari di oggi non sono le stesse di chi lavorava in fabbrica un po’ di anni fa: loro condividevano spazi e tempi di lavoro, lavoravano insieme, gomito a gomito; noi, invece, siamo isolati, atomizzati, individualizzati non solo come luoghi e tempi di lavoro ma anche come forme contrattuali. In queste condizioni manca prima di tutto la condivisione e, di conseguenza, la capacità di percepirsi come unità, come classe. Non riusciamo davvero a unire le forze e restiamo ognuno con il proprio disagio, nel proprio isolamento. Se non riusciamo a uscire da questo, non ci sarà lotta di massa del precariato possibile, temo.

  53. Cari ragazzi,

    non prendetevela con voi stessi. Io abito da 26 anni a Londra. Vi posso garantire che qui ci sono ancora molti posti a tempo indeterminato, e gli stipendi tendono ad aumentare con il tempo e la maggior esperienza, non il contrario.
    Non fatevi prendere in giro dai politici Italiani, loro sono I peggio al mondo e allo stesso tempo I piu’ pagati. Qusto e’ il vero problema in Italia. Posso solo incoraggiarvi a scendere in strada uniti per protestare contro di essi. Non prendetevela con I vostri genitori che almeno vi amano e vi supportano.
    Combattete come leoni come fecero nel dopo Guerra I nostri cari. Non mollate ma non siate punching balls. La dignita’ va protetta anche con mezzi estremi. Il future dei vostri figli e’ nelle vostre mani.
    Herbert

  54. La vera domanda è: ‘fallito’ rispetto a chi? A che cosa? Smettila di confrontarti con gli altri in chiave competitiva, lo so che è proprio questo ciò che ti hanno insegnato all’Università, purtroppo erano cattivi maestri. Guarda un po’ anche al resto del mondo e della vita, c’è tanta gente che ha sogni e ambizioni e non per questo si sente ‘fallita’ se per una serie di circostanze non riesce a realizzarsi. Barattare la propria dignità per pochi spiccioli, per un titolo o per scampoli di successo e celebrità, quello è l’unico fallimento dell’essere umano, il fallimento della sua umanità.

  55. Continuiamo a cercare un mondo che non esiste più, fatto di illusione. Ci identifichiamo con quello che facciamo ma non siamo realmente quello..le passioni mi sono reso conto che bisogna saperle controllare altrimenti sono loro che controllano te..nel senso che se non riesci a realizzarle traendone profitto allora ti senti un fallito..ma la vita può essere solo questo? io penso prorio di no..dobbiamo cercare di scollegarci da tutta questa materia e ricollegarci ad essa in maniera più sana e consapevole, altrimenti si rischia di creare un cortocircuito di depressione collettiva..ritroviamoci coraggio siamo molto di più di quello che ci fanno credere..

  56. Tra qualche mese avrò quarant’anni e lavoro nell’editoria “ufficiale” da dieci.
    Dopo i primi anni di precarietà, tra stage non retribuito, collaborazioni esterne e contratti a progetto, sono stata assunta
    a tempo indeterminato.
    Faccio parte, credo, di una delle ultime annate che ce l’hanno fatta a sfuggire alla precarietà.
    Tuttavia la mia situazione rispecchia molto da vicino quella descritta da Sara. Lascio da parte la considerazione
    che un contratto a tempo indeterminato, in un settore travolto dalla crisi economica e dopo la legge Fornero, vale poco più di niente,
    e anche la circostanza che il mio stipendio in questi anni è cresciuto di pochi euro e vale oggi meno che all’inizio della mia “carriera”…
    Quello che che mi accomuna a Sara è soprattutto la mancanza di prospettiva, la perdita di senso,
    il senso della sconfitta di un’ex brillante e molto preparata promessa dell’editoria, che già da qualche anno ha rinunciato a trovare
    una motivazione nel proprio lavoro e ha cercato altrove stimoli e gratificazioni.
    Di chi è la colpa?
    Io la attribuirei anche, in buona misura, a quella generazione ben descritta da Loredana Lipperini in “Non è un paese per vecchie”,
    quella delle/dei cinquanta/sessantenni che hanno occupato con una certa facilità venti o trent’anni fa i vertici delle aziende
    (in alcuni casi si tratta di persone non laureate) e che non hanno alcuna intenzione di far crescere professionalmente le/i più giovani,
    né tanto meno di cedere loro il posto, visto che, per scelta o per legge, andranno in pensione tra parecchi anni.
    Al contrario, temono spesso una concorrenza che quasi sempre è molto più qualificata e aggiornata, e tendono di conseguenza a dequalificare
    il lavoro dei loro collaboratori, quando non a renderlo invisibile.
    Così, a quarant’anni, non copro un ruolo di responsabilità, ma nemmeno di visibilità, non ho uno stipendio adeguato alla mia qualifica
    ed esperienza né alle mie esigenze personali,
    la prospettiva più rosea è quella di aspettare una decina d’anni prima di avere una promozione,
    mentre nel frattempo ho smesso di imparare da un po’ e mi sto arrugginendo dietro a un lavoro sempre
    più routinario e banale, della cui qualità, come nel caso di Sara, pare che importi solo a me.

    Ringrazio Sara per avermi dato l’opportunità e la voglia di fare outing su questa condizione in apparenza quasi privilegiata,
    in realtà profondamente frustrante.
    S.P.

  57. Frenz Quiz (@franzquiz)

    I precari dovrebbero farsi sentire? Sìììììììììììììì!!!

    Ma voi scrivete giustamente che sono atomizzati, scarsamente organizzati, non sanno nemmeno da dove iniziare.

    E allora non è che forse la protesta dovrebbe paradossalmente iniziare dall’alto, magari con un qualche “testimonial” credibile che si prenda carico di ciò? Abbiamo tante persone note che – giustamente – appoggiano nobili cause di ogni genere.

    Cosa succederebbe – chessò – se un Jovanotti o un Vasco scendessero in piazza insieme ai precari per chiedere un vero cambiamento?

    E’ simile a quanto accaduto con Grillo, ma questa sarebbe una battaglia circoscritta, generazionale e non politicamente schierata.

  58. che il lavoro non è la vita, non sempre è la carriera ad attribuire significato a ciò che siamo. A volte è necessario trovare la propria dimensione di senso fuori dal lavoro. E’ difficile, è faticoso. Quando si torna a casa la sera non ci si butta sul divano, soddisfatti, a rilassarsi. Quando si torna a casa la sera, stanchi dopo un lavoro brutto inutile e sottopagato, si inizia a scrivere, a leggere, a dipingere. Sta lì, secondo me, la possibilità di riscatto 🙂
    _filosofa che vende borse_

  59. E’ la prima volta che lascio un commento su un blog, perdonatemi in anticipo per la lunghezza ma non sono riuscita a trattenere le lacrime, leggendo il racconto di Sara. Dopo avere superato maturità classica e laurea di vecchio ordinamento entrambi con il massimo dei voti e lode, aver imparato 3 lingue, iniziato un dottorato tra Italia e Spagna (lavorando contemporaneamente, ovvio), non sono nemmeno mai riuscita a lavorare nell’editoria, nonostante fosse il mio sogno già da prima di laurearmi. E so che tantissimi altri hanno provato, anche con competenze superiori alle mie, ma la verità è che non importa quanto sei bravo, motivato, “titolato”: il lavoro non c’è. Di anni ne ho 36 e mi sveglio ogni giorno senza alcuna voglia di cominciare la giornata. E non perché non abbia voglia di lavorare, ma perché la vita che questo paese mi ha permesso di costruire è talmente distante da quella per cui ho studiato e lottato che non la riconosco. E’ il frutto di scelte fatte per necessità e paura di non avere uno stipendio, nemmeno quello precario e ottenuto svolgendo un lavoro che detesti. Castrare i propri giovani nelle loro aspirazioni è una sorta di violenza psicologica che questo paese ci ha imposto. L’autocritica non mi manca, così mi dico ogni giorno che ho fallito e che la responsabilità è mia. Ma, come scrive Sara, siamo in tanti. Forse in troppi a sentirci così. Una generazione intera. E chi non ha sufficiente aggressività o fiducia in se stesso, qualità che non hanno a che fare con la competenza professionale, perde l’entusiasmo e si adatta a una vita che sente estranea. A 36 anni vivo senza aspettative: in famiglia la malinconica sono io in confronto ai miei genitori ultrasessantenni, che hanno più entusiasmo di me. Questo è un paese al contrario, che ha avuto l’ardire di non rispettare i tempi naturali e biologici degli individui: la maternità, per dirne una, è un lusso che non ci si può concedere prima di un’età impensabile in altri paesi europei, che all’estero è considerata “avanzata”. Ma la cosa peggiore è che a 36 anni tante scelte sono ormai precluse e nessuno mi/ci ridarà questi anni trascorsi. Scusate davvero per la lunghezza e in bocca al lupo a Sara: se anche uno solo di noi si sveglia un po’ più felice, è una vittoria di tutti. Teniamo duro.

  60. Jovanotti o Vasco? Cosa c’entrano coi precari? Secondo te adesso per fare uno sciopero bisogna avere i testimonial e gli sponsor giusti? “Ci meritiamo tutto”…

  61. Beh, anche io, stessa età di chi scrive mi sono trovata a fare le sue stesse osservazioni e a provare lo stesso dolore.
    Però dico che non siamo una generazione di “già arresi” perché a noi non è mai stata data la possibilità di combattere: e che possibilità ho avuto io che, a nemmeno 2 mesi dalla laurea, il mio primo passo nel mondo del lavoro è stato un ripiego? Perchè, da neolaureata, come primo passo ho dovuto rinunciare su tutta la linea alla carriera accademica per un praticantato forense che MAI avevo pensato, né programmato di fare?
    Come se, uscite dall’università, il nostro castello fatato, siamo state prese a schiaffi e burlate. Umiliate e mortificate.
    E, dopo il primo impatto bruciante, l’umiliazione continua ancora.
    Poi ti trovi sola, a 30 anni, senza aver accumulato nessuna esperienza di lavoro (stage su stage, si, però!) a pronunciare le parole più brutte di questo mondo :- era meglio se avessi smesso di studiare.

    Nelle lettere, esperienze e testimonianze che leggo, vedo solo una cosa: la sconfitta di un paese. Non sarà la crisi, la BCE, la Germania o l’Europa a farci fuori, saremo noi italiani, perchè italiani lo sono anche i politici che stanno sbranando questo paese.
    Ma,in fondo, cosa sarà mai? l’ennesima laureata che lascia l’Italia (ingrata!), l’ennesimo ragazzo che si vede perduto e si perde nei pericoli della vita, l’ennesima storia di depressione? L’ennesimo bambino che non nascerà perché i suoi genitori non possono averlo? L’ennesima casa che non si comprerà?
    Ebbene cosa sono queste piccolezze di fronte al pericolo che corre un delinquente e i suoi amici, di finire in galera dopo una condanna in terzo grado.

    UN PAESE E UN GOVERNO CHE SI AFFANNA A LIBERARE CHI DEVE ESSERE CONDANNATO, MENTRE FUORI C’E’ UN POPOLO CHE STA MORENDO, è UN PAESE CHE HA RINUNCIATO PER SEMPRE ALLA SUA DEMOCRATICITA’ E ALLA SUA LIBERTA’.

  62. Salve Giovanna, è la prima volta che intervengo in questo forum ma queste e-mail hanno toccato un mio nervo scoperto e volevo dare il mio contributo. Ho 34 anni e sono laureata in Scienze della comunicazione con lode, a 25 anni sono partita e ho passato due anni all’estero per studio e per lavoro, sono rientrata in Italia a 27 anni. Volevo fermarmi un momento per riflettere sul mio futuro per poi ripartire per nuove avventure. Ma un’offerta di lavoro arrivò da una piccola azienda di provincia che aveva bisogno di qualcuno che si occupasse del commercio estero.
    Accettai per mettere da parte qualche soldo, contratto indeterminato, ambiente di lavoro piccolo, poco “creativo” e molto industriale. Decisi di lavorare anche la sera e durante i weekend per portare avanti alcuni progetti di comunicazione come professionista autonoma con l’intento un giorno di mollare il lavoro nell’azienda. Purtroppo il lavoro in comunicazione andava a singhiozzi, mentre quello in azienda continuava ad essere fisso. Molti pianti, molta crisi, molta rabbia verso me stessa per non essere riuscita ad essere ciò che avrei voluto. Molta frustrazione per gli anni che passavano e quel “sentirmi sempre più vecchia” senza avere il coraggio di mollare il lavoro sicuro per il sogno.
    Ho tenuto duro fino ad oggi, il settore dell’azienda per la quale lavoro ormai da 6 anni mi ha offerto quest’anno un’ottima opportunità di crescita. Dopo anni di doppio lavoro, doppia vita e vane speranze, sto abbandonando totalmente la comunicazione per dedicarmi ad un settore industriale per il quale mai avrei immaginato di poter lavorare. Non era il mio sogno. Ma in questi anni quel brutto lavoro mi ha permesso di viaggiare per il mondo, di fare investimenti, di vivere la mia vita, di essere indipendente dalla mia famiglia.
    Spesso mi sono rimproverata di averlo accettato anni fa, ma mi sono anche chiesta: sarei riuscita a vivere ogni giorno a progetto? Senza soldi, senza sicurezza, senza futuro? Sarebbe stato giusto verso me stessa?
    Queste cose dico ai miei amici che, superati i 30 anni, non riescono ad essere gli avvocati, i comunicatori, gli ingegneri che avrebbero voluto essere.
    Si, siamo vecchi. Per quanto sembri crudele non possiamo pensare di laurearci a 30 anni, e trovare un lavoro soddisfacente quando ci sono fior di 24enni dietro di noi più freschi ed altrettanto preparati a combattersi i pochi posti disponibili.
    Dobbiamo svegliarci, ci hanno illuso che avremmo potuto avere tutto e non era vero. Ma ci hanno anche istruiti, e quindi dobbiamo essere in grado di capire che la vita è nostra e non dobbiamo passarla “nell’attesa” che qualcun altro sistemi le cose, perché gli anni passati ad attendere non torneranno. La domanda che mi guida è: è giusto verso me stessa?
    (scusate la lunghezza del commento)

  63. Frenz Quiz (@franzquiz)

    @Ilaria
    Noi precari ci meritiamo semmai che qualcuno “di importante” si occupi di noi! Che qualcuno che è visibile abbracci la nostra causa. Del lavoro, di come il lavoro sia diventato “un piccolo inferno” per tanti giovani non ne parla nessuno! Eppure mi sembra un tema più cruciale della Concordia o di Silvio. Ma parlarne darebbe troppo fastidio, in primis alle aziende.

    E allora, purché se ne parli, mi va bene anche il Blasco!

  64. Io me ne sono andato dall’Italia.
    Dopo 5 anni di partita iva, dopo altri 5 anni di contratti a progetto, dopo mesi steso sul divano ad aspettare un lavoro.

    Me ne sono andato e in 3 giorni ho trovato un contratto a tempo indeterminato in uno studio a Londra, ottimamente pagato.

    È difficile andarsene, ma qui ho un futuro per me e nel caso per dei figli.

    Però basta lamentarsi.

  65. Deve occuparsene la politica e dobbiamo occuparcene noi stessi (i precari non sono dei panda da proteggere)… siamo in democrazia e sono i cittadini a essere “importanti”. E poi importante secondo te chi è? Chi canta, chi balla, chi urla in tv? Questa è una mentalità da “Barbara d’Urso”, dai… 😉

  66. Frenz Quiz (@franzquiz)

    La nostra politica è popolata prevalentemente da cialtroni, e ogni sfiducia è immeritata. I precari non sono dei panda, ma non mi risulta che siano mai state intraprese forti azioni di protesta che abbiano portato a una legiferazione meno ingiusta.

    Ricordiamo anni fa come Jovanotti si impegnò per la cancellazione del debito dei paesi poveri, tanto che lo andò a cantare a Sanremo.

    Ribadisco che questo tema è cruciale per il nostro paese, e ogni strada deve essere tentata, anche andare da Barbara D’Urso. Altrimenti, silenzio e status quo.

  67. Gentile Sara,

    ho 22 anni e sono una studentessa all’ultimo anno di specialistica. Non ho alle spalle un passato e un presente lavorativo come il suo, ma le scrivo perché si ricordi della passione che aveva (e che ha, mi sembra!) quando era ancora una studentessa, quando le sembrava che sarebbe arrivata dappertutto e immaginava per sé “un futuro grandioso”. Oggi, dopo tanta strada e tante difficoltà, vede addirittura la mancanza di un futuro alla quale si aggiunge un presente che la schiaccia -o che lei lascia che la schiacci. Il problema più grande risiede sicuramente nella società della precarietà, un modello del tutto nuovo per noi europei, ma che rappresenta la normalità per milioni di persone: negli Stati Uniti una famiglia media cambia casa e stato ogni 5/6 anni. Più spaventosi dell’affrontare la precarietà che ci aspetta e che lei già vive sono però la rassegnazione e la marcia autoconvinzione di non poter fare più niente per migliorare la propria condizione. Accetti l’amarezza che deriva dal trattamento riservatole dal suo superiore e si reinventi se necessario: impari una lingua straniera e scriva per l’estero, diventi una blogger, diventi un’insegnante, una cameriera se servirà a farla sentire meglio, a ritrovare la gioia nel lavoro e una maggiore tranquillità economica. Le auguro il meglio per la sua vita futura e per quella del suo compagno: siete giovanissimi e potete certamente avere dei figli se è quello che desiderate.
    Cordialmente,

    Carlotta

  68. Ilaria, forse sono stato più crudo del dovuto, confesso che sto fisicamente male nel leggere la rassegnazione che emerge dagli scritti in questo e tanti altri post. Una generazione acculturata, una generazione che Gamsci avrebbe voluto già negli anni Venti per cambiare il mondo, che per una mal interpretata lezione non vuole comprendere che la lotta o la si fa assieme o è persa in partenza. Gli operai, quelli che non hanno studiato, che faticano a leggere un libro perché non sono abituati a queste cose, sono riusciti però a diventare un soggetto politico che osa persino portare in tribunale Marchionne e a vincere. Mi dispiace dirlo, ma i servi della gleba di oggi non sono gli immigrati ( loro non hanno nulla da perdere), sono i precari di cui tutti parlano e tutti sistematicamente ingannano. Mi piacerebbe sapere quanti fra i precari alle recenti elezioni hanno votato uno dei partiti che meno di un anno prima aveva votato la riforma Fornero, e qualche anno prima una delle innumerevoli riforme del lavoro che avevano l’unico obiettivo di trasformare il lavoro in merce, a dispetto dell’articolo 1 della Costituzione. Quanti di loro hanno seguito le battaglie sulla modifica dell’articolo 18?
    Perché non combattete per la vostra dignità di persone e di lavoratori? Perché non fate sentire la vostra voce? Perché non cominciate a dire dei no alti e forti? Certo ci saranno delle “vittime” ma la strada è obbligata, altrimenti sarete solo merce e non persone.

  69. Carissima Sara, mi dispiace molto che ti senti una fallita. Vorrei poterti aiutare ma mi sento impotente. La colpa é di questo sistema, che sfrutta il precariato, tiene sotto ricatto e non permette di fare progetti per il futuro. Gira la tua lettera al ministro del welfare, solo lui può fare qualcosa per te.

  70. Ma cosa è il merito e chi lo stabilisce? Perché ci scandalizziamo se poi ci vogliono più giovani, con più master, superaggiornati, competitivi e a basso prezzo? E quando un giorno riconosceremo di essere vecchi e stanchi, che ne sarà di noi? Quando finiremo di imparare e l’azienda col cazzo che vorrà investire sul nostro aggiornamento? O speriamo a quell’ora di essere tutti comodi dietro una scrivania? Siamo al doppio part-time e ai 400 euro al mese e ci incastriamo a parlare di qualità e di merito? Ma è sottostima del merito? Really? Che invece sia sfruttamento? Che sia ora di parlare di diritti prima che di merito? Diceva bene Twain, uno migliore di te c’è sempre. Non per questo si deve crepare. La flessibilità è stare pronti ad essere scansati. E allora io direi che è ora di cambiare parola d’ordine. Anche per chi non è un genio, per chi non ha potuto dimostrarlo e magari tira a campare facendo un lavoro dove il merito c’entra il giusto.

  71. Le direi che ho 40 anni e che, pur con dieci anni di più, la mia vita non è molto diversa… E a 40 anni è peggio. Volevo fare la scrittrice, volevo passare la vita a correggere bozze o a fare comunque cose che riguardassero l’editoria. Sul fatto di scrivere nutro ancora speranze, su tutto il resto un po’ meno. E intanto, cambio provincia ogni mattina per lavorare in un call center, ma non so mai per quanto tempo ancora e ogni giorno sembra essere l’ultimo, e alla sera studio per laurearmi in letteratura inglese. Almeno quest’ultima cosa, fra poco più di un mese, l’avrò portata a compimento. Ma per il resto la mia vita, anche e soprattutto privata, è il nulla assoluto. Non è vita questa…

  72. Cara alessandradn, comprendo la tua scelta, anche perché è stata anche la mia. Ho già scritto stamattina omettendo, però, che da quando ho 27 anni mi mantengo totalmente da sola, facendo il lavoro “brutto”, per poter tentare parallelamente con l’editoria nel week end e la sera. Da quasi dieci anni. E questa scelta l’ho fatta per gli stessi tuoi motivi: indipendenza dalla famiglia, orgoglio, realismo. Eppure, come ho già scritto, la mia risposta alla domanda che poni alla fine del tuo commento è : NO. Non è giusto verso se stessi. Almeno, questa è quella che ti darei e che do anche a me. Se fosse giusto mi sentirei in pace, rasserenata. E invece non lo sono affatto. Entrambe abbiamo fatto una scelta che penso dall’esterno si possa definire razionale, matura, forse addirittura coraggiosa da certi punti di vista (così mi dicono le persone attorno a me). La scelta fatta di rendersi indipendenti economicamente e di confrontarci con la realtà del lavoro, senza restare attaccate a mamma e papà che pagano le spese mentre si tenta di realizzare i propri sogni – sempre che possano permetterselo – è stato da parte di entrambe un atto di maturità. Ma quanto è costato caro? A che prezzo, mi chiedo? Non è stato forse ingiusto verso quella parte di me, di te, magari meno razionale ma luminosa, viva, quella che ci fa svegliare un po’più “noi” ogni mattina? Io credo non sia stato giusto, nonostante le buone ragioni, nonostante tutt’ora penso fosse l’unica cosa da fare data la situazione del paese. Però non riesco a rispondere SI’ alla tua domanda. Comprensibile, forse, ma non giusto. Spero e ti auguro di cuore che la tua scelta ti/ci porti serenità.

  73. Vogliono farci credere che la colpa è nostra, che siamo schizzinosi, che non ci vogliamo adattare, che il mondo è cambiato perché doveva, ma non ci scordiamo che questa crisi non è nostra, viene dalle banche. E la paghiamo noi. Ci manipolano dalla mattina alla sera per convincerci che tutto questo è inevitabile, mentre stiamo solo vivendo una schiavitù moderna. Vogliono che diventiamo come i lavoratori cinesi, gente che lavora 24 ore su 24 per pochi soldi che se ne vanno subito. Ci costringono a non comprare una casa, a non potere pagare un affitto, a non essere mai indipendenti, a non andare a convivere, a non potere fare figli se li vogliamo. E scusate se una persona uscita dall’università (dopo aver speso fior di quattrini) non ha voglia di andare a fare la badante o lavorare in un call center!
    Cara Sara, il problema è che siamo abituati a subire, e siamo andati già troppo oltre. Dobbiamo arrabbiarci, ma sarà difficile cambiare se nessuno dice nulla e si continuano ad accettare situazioni con stipendi da fame ben sapendo che non ci sarà nessun futuro, nessuna evoluzione per noi, per la nostra carriera e la nostra vita. Troviamo un po’ di rabbia per reagire a questo vicolo cieco, non si può morire dentro a trent’anni. Non possiamo permettercelo, la vita è una sola, non hanno il diritto di portarcela via.
    Al tuo posto minaccerei di andarmene per vedere se la situazione si smuove un po’. Se poi ti dicono che dietro di te c’è la fila che aspetta, comincia seriamente a guardarti intorno, anche all’estero. Forse non in tutti i paesi chiedono la flessibilità “a novanta gradi”.
    Coraggio! In bocca al lupo.

  74. Cara SilviaG, sono d’accordo: non poter fare ciò che si è sognato è un’ingiustizia. Un’ingiustizia sociale.

    Ma se ci facciamo rubare la vita sulla base di questa considerazione noi diventiamo complici e corresponsabili di chi ci ha illuso. E poi… l’illusione da abbattere non è proprio questa? Farci credere che siamo falliti anche se facciamo un lavoro dignitoso e conduciamo una vita dignitosa e indipendente?
    Provo a vederla al contrario: se avessi perseguito i miei sogni? Farmi sfruttare per pochi euro, vivere sotto ricatto per poter avere un bambino oppure lavorare gratis, sentirmi depressa e presa in giro sarebbe stato più giusto? Questa vita si, sarebbe stata la più grande ingiustizia che forse avrei potuto fare a me stessa, in nome di aspettative false che hanno costruito altri per me. Parliamoci chiaro, è una società ingiusta… ma già ci hanno fatto questo, non è troppo regalargli anche il nostro tempo, le nostre depressioni, il nostro futuro?

    Quando mi viene qualche dubbio ripercorro il passato: non darei mai indietro i bellissimi viaggi fatti grazie al mio lavoro dignitoso; e ringrazio per aver potuto coltivare i miei hobby, e potermi, sempre grazie ad esso, occupare di comunicazione per alcune associazioni di volontariato nella mia piccola città (un modo come un altro per rimanere sempre un po’ vicina alla creatività che mi stimolava tanto).

    Oggi parlo con più facilità e meno punti interrogativi che in passato (eppur come vedete ne rimangono tanti nelle mie parole!) perché fortunatamente, come ho scritto, ho fatto un salto di qualità che mi soddisfa, e così ho potuto trasformare anche il lavoro “brutto” in una grossa opportunità.

    Se ora un giovane mi chiedesse un consiglio, gli direi di vivere con passione nello spazio e nel tempo in cui il fato ha voluto che nascesse (qui e ora!), utilizzando le opportunità reali di crescita e realizzazione della propria vita. Questo augurerei a quel giovane, di regalarsi l’opportunità di esplorare il mondo e scoprire che possono esserci altri sogni che ci faranno felici, oltre a quelli che hanno preconfezionato già per noi
    Ti ringrazio per l’augurio Silvia, e lo ricambio con grande affetto e solidarietà.

  75. Leggendo tanti commenti, oltre alla storia di Sara, quello che mi colpisce è anche la solitudine che emerge; e sono soprattutto commenti femminili. Un paio di settimane fa leggevo che le ragazze inglesi stanno cambiando tendenza rispetto a prima: invece di puntare su una carriera che spesso poi delude (non crediamo infatti alla favola che all’estero sia tutto fantastico, ho esperienze orribili del mondo londinese da raccontare), posticipando la maternità a 40 anni, decidono di diventare mamme a 24, 25 anni e di assicurarsi prima una bella vita familiare e poi eventualmente la carriera. Datemi pure della retrograda ma penso che piuttosto che schiattare da schiave dietro una scrivania a scrivere roba che nessuno leggerà per ritrovarsi sole e inacidite a 40 anni, sia più arricchente puntare sugli affetti, che poi sono anche un trampolino per buttarsi con più fiducia nel lavoro: non ti sentirai mai un fallito/a se non sei solo/a, anche se al lavoro ti trattano come una schifezzina, e avrai più coraggio di osare perché sei sostenuta dall’affetto di chi ti ama.. io questo lo sperimento nella mia vita. Molto spesso penso che se non avessi gli amici e l’affetto della mia famiglia, tanto varrebbe buttarmi da un ponte, se dovessi guardare solo alla dimensione lavorativa. Io non ho ancora figli ma ho puntato e punto molto sui rapporti affettivi, nei quali includo anche gli amici… e mi sento serena. In questa dimensione dell’ “affettività” inoltre io includo anche esperienze come il volontariato, il fare politica, l’impegnarsi assieme ad altri per una causa. Cose che non ci portano soldi in tasca ma grazie alle quali non potremo mai sentirci dei falliti, anche se non abbiamo il lavoro dei nostri sogni.

  76. Cara alessandradn, grazie per la tua risposta e per l’augurio ricambiato! Sul “qui e ora” sono d’accordo, certo, e in parte anche sul resto.

    Mi colpisce anche l’ultimo commento di Ilaria. Condivido che il senso profondo dell’esistenza sia l’amore nel senso più ampio del termine, a maggior ragione in una società frammentaria, tendenzialmente individualista come la nostra. L’avere qualcuno accanto che ti supporta e ti fa sentire amato e di cui avere a tua volta cura ha un valore inestimabile, ma non credo che questo e le aspirazioni professionali siano in conflitto. Non parlo di fare carriera e acquisire un posto di potere, ma semplicemente di lavorare in un settore che ti appassiona.
    Possibile che desiderare una famiglia tradizionale e un lavoro non da schiavi in un settore verso il quale si ci si sente portati sia qualcosa di assolutamente impensabile?!
    Non parlo di fare carriera, acquisire posizioni di potere e al contempo avere una famiglia “Mulino bianco”, parlo di un’aurea mediocritas fatta di affetti sinceri e di un lavoro che ti piace. Per questo motivo l’Italia mi sembra assurda e inadeguata ai propri giovani: io non avrei voluto una carriera al top, ma semplicemente fare un lavoro che mi piace; non avrei voluto guadagnare molto, ma semplicemente non essere sfruttata (7 euro lordi a cartella per un lavoro editoriale è essere sfruttati); non desideravo una casa super lusso ma semplicemente, dopo 35 anni di studio e formazione con ottimi risultati, poter accedere all’idea di comprare una casa qualunque con mutuo ventennale. Questo è il problema.

  77. carissima Sara, mi dispiace molto per la situazione in cui ti trovi. il mio percorso è stato simile al tuo, se non per il fatto che io non sono riuscito a laurearmi (non ancora) perché non ho potuto pagarmi le tasse universitarie, dopo aver con grande sforzo finito gli esami di Lettere. per diversi anni ho tentato di raggiungere un lavoro che mi piacesse, ho fatto una scuola professionale per diventare videomaker, ma anche quello è un mercato spietato, e alla fine ho deciso di mollare perché il mio sogno mi stava facendo male, e un sogno che ti fa male cessa di essere tale.
    a 28 anni, avendo bisogno di mangiare, ho iniziato a fare un lavoro stagionale, che dopo 4 anni sta per diventare ufficialmente il mio lavoro, a tempo indeterminato. ti dirò: quello che faccio non mi piace per niente, è molto burocratico, esattamente l’antipoesia, esattamente quello da cui cercavo di tenermi lontano. quando me l’hanno proposto avevo già deciso di andare a vivere all’estero, in Argentina, dove mi trovo adesso in visita ad alcuni amici. non avevo nessuna paura, nessun rimpianto, mi rifiutavo di stare in un paese che ti toglie l’entusiasmo, la voglia di ridere, la speranza in un futuro migliore. ma credo che la possibilità di crescere, di continuare ad imparare, sia un diritto che soltanto noi possiamo difendere. se questo significa allontanarsi dai propri cari e andare all’estero, allora DOBBIAMO FARLO per rispettare noi stessi. perció, se posso darti un consiglio, cambia: cambia lavoro o vai lontano, ma non restare a guardarti invecchiare. l’autocompassione non porta da nessuna parte. scuotiti e manifesta la tua voglia di vivere in un modo che ti corrisponda.
    io ho iniziato a lavorare a 14 anni; di lavori ne ho fatti tanti e diversi; alla fine ho capito che ciò che rende bello un lavoro non è il lavoro in sè, ma le persone con cui condividi il tuo tempo per buona parte della giornata. questo mi ha spinto a restare. cambia, perché ti vuoi bene; datti la possibilità di sorprenderti. le soddisfazioni nella vita possono arrivare dalle direzioni più impensate. e a quel punto scrivere potrebbe essere davvero un piacere che dedichi a te stessa, e chissà una fonte di guadagno a sorpresa.

    ciao Sara. ti mando un abbraccio e un augurio di buona fortuna. che il tuo cammino possa essere gioioso e intenso.

  78. In molti commenti ricorre lo stesso motivo “Possibile che desiderare … un lavoro non da schiavi in un settore verso il quale ci si sente portati sia qualcosa di assolutamente impensabile?!?”

    Risposta: sì, con un debito pubblico del 130% sul PIL e una decrescita economica che dura da anni e che ci sono tutte le condizioni perché continui, è possibilissimo, purtroppo.
    Il fatto che non sia stato così per i vostri genitori e per i vostri nonni, non comporta che non sarà così per voi.

    Pretendere che non sia così, non serve a nulla. Quello che serve è capire le cause, trovare i rimedi, a livello di politica economica, e votare chi li propone.
    Non sarebbe difficile, se si volesse.
    Invece, i pochissimi politici che indicano le vere cause e propongono i rimedi efficaci, vengono generalmente osteggiati e derisi, anche da parte di molti partecipanti a questo blog. Perché, quando la malattia è grave, la medicina è amara. Ed è comprensibile che si preferiscano elisir miracolosi.

  79. @Ben: a quali politici ti riferisci per es.?

  80. Frenz Quiz (@franzquiz)

    @Ben
    Ci sono in realtà due strade percorribili dalla politica.

    Con il debito pubblico a 130% sul PIL e una decrescita economica che dura da anni può essere necessario tagliare drasticamente la spesa pubblica, ove si intende welfare, sanità e previdenza, in particolare.

    In alternativa, euro o lira che sia, l’Italia dovrebbe recuperare la propria sovranità monetaria, persa a inizio anni ’80. Sembra incredibile a dirsi, ma la BCE è una banca privata di proprietà di banche private.

    Da ciò deriva il super-indebitamento dello Stato, costretto a imporre una tassazione elevatissima, che impone alle aziende, editoria compresa, di tagliare drasticamente le spese per il personale…

  81. Ilaria mi chiede “a quali politici ti riferisci?”
    Andando da “sinistra” a “destra”, per il poco che vale questa distinzione nella particolare situazione italiana attuale — di nave che affonda lentamente per una serie di falle la cui riparazione non è tanto questione di destra o sinistra:
    Fabrizio Barca, Matteo Renzi, Pietro Ichino, Michele Boldrin, Mario Monti, Benedetto Dalla Vedova, Giuliano Cazzola.
    Tutti costoro concordano largamente sulle cause del declino italiano e sui rimedi necessari, nonostante le loro diverse appartenenze politiche.
    Ma sono per ora in netta minoranza. Tranne, in prospettiva, Renzi, se manterrà le idee e le proposte che condivide con Barca, Ichino, Boldrin, Monti, Dalla Vedova, Cazzola, e pochi altri.

    Va aggiunto che la maggioranza degli economisti italiani, accreditati internazionalmente, condivide queste idee e proposte, anzi ne è la fonte.
    Mi riferisco, ad esempio, a Tito Boeri e Alberto Bisin (che scrivono su Repubblica), Alberto Alesina, Francesco Giavazzi e Andrea Ichino (che scrivono sul Corriere), Roberto Perotti e Luigi Zingales (Il Sole 24 ore).

  82. Frenz Quiz,
    il super-indebitamento dipende solo dal fatto che per 30 anni lo Stato italiano ha speso più di quel che incassava. Si è indebitato per questo, fin qui lo si capisce col semplice buon senso, senza bisogno di competenze economiche specialistiche.
    Incassava moltissimo (tasse alte), ma riusciva a spendere ancora di più, senza peraltro fornire (mediamente) servizi pubblici di qualità accettabile.

    Il recupero della sovranità monetaria è uno degli elisir che promettono di risolvere miracolosamente il problema, ma in realtà aggraverebbero la malattia.

    Uno degli ostacoli principali al risanamento è che troppi politici (da Vendola a Berlusconi passando per Grillo) promettono l’uno o l’altro di questi elisir miracolosi, e troppi italiani ci credono.

  83. Frenz Quiz (@franzquiz)

    @Ben
    Non metto in dubbio i motivi dell’indebitamento, mentre metto in dubbio che, ogniqualvolta lo Stato ha bisogno di denaro, debba mettere sul mercato titoli di debito (BOT e CCT) che dovrà poi ripagare con gli interessi. Il nostro debito è superiore ai 2.000 miliardi e gli interessi annui da pagare intorno ai 100 miliardi. Ciò significa che siamo virtualmente falliti, o che in alternativa dovremo smantellare il nostro stato sociale, diventando di fatto una nazione “privata” (dei diritti).

    Non sono un economista e non conosco se la verità sia la tua o la mia, ma a tal proposito è possibile leggere i libri di Alberto Bagnai o Marco Della Luna.

  84. Caro Ben, visto che mi hai citata ti rispondo (e grazie in ogni caso per la tua attenzione). Sapevo anch’io che la risposta alla mia domanda è sì, ma il fatto che questa sia la verità ci mette comunque di fronte a un fatto grave: se la risposta è evidente, non vuol dire che non sia sconcertante.

    Questo paese non offre prospettive NON a chi vuole vite competitive, ma nemmeno a chi cerca di realizzare con onestà e impegno aspettative legittime e, ripeto, basiche. Solo che quel basico, in Italia, non è più basico.

    E certo che l’indebitamento pubblico c’entra, ma a mio avviso la politica dovrebbe tendenzialmente scegliere COSA e COME tagliare, QUALE categoria di cittadini e contribuenti preferisce sostenere e QUALI settori. E avrebbe potuto farlo da decenni, inserendo ad esempio processi di valutazione e meritocrazia nelle strutture pubbliche, portando avanti una lotta seria contro gli evasori e non “a scoop”: fare controlli in massa a Cortina a Capodanno non risolve una piaga che questo paese ha da sempre quale è l’evasione fiscale. Forse il debito pubblico non sarebbe quello che stiamo pagando noi con le nostre vite e la risposta che io e te ci saremmo dati sarebbe stata diversa. Un saluto.

  85. Frenz Quiz,
    tagliare la spesa pubblica è ovviamente la via obbligata per ridurre il debito pubblico, che pesa come un macigno sul futuro dei giovani con le inevitabili conseguenze lamentate in tutti questi commenti.
    Ma si può tagliare drasticamente la spesa pubblica senza ridurre la qualità della scuola e della sanità, e senza affamare i pensionati. Basta eliminare le immense inefficienze e ridurre le rendite di milioni di parassiti, grandi e piccoli.
    Ad esempio, gran parte della mia pensione di 3500 euro mensili è pagata, e sarà pagata finché campo, da voi giovani precari, essendo solo in parte basata sui contributi da me versati durante la mia vita lavorativa. Ci sono mezzo milione, vado a braccio, di pensionati benestanti e privilegiati come me, i cui agi contribuiscono a bloccare lo sviluppo economico italiano, e quindi il futuro dei giovani.
    I politici che ho menzionato sono a favore di una riduzione drastica di queste pensioni. E’ solo un esempio, per quanto importante.

    Se voi giovani preferite votare i politici che si oppongono a tagli drastici di questo genere, e a tutti i tagli della spesa pubblica che segano i rami su cui sono felicemente appollaiati, peggio per voi.

  86. Cari tutti,
    anch’io laureata (nel 2000) in SdC, ora di anni ne ho 38, voglio solo confermare la situazione critica dell’editoria, e confermare che, purtroppo, sta iniziando a travolgere anche chi, come me, è entrato nel mercato del lavoro un po’ prima di Sara ed è riuscito ad assicurarsi un po’ di anni di lavoro decente nel settore. Sono ancora assunta (ma ho lavorato anche a progetto, quando ancora poteva valerne la pena), ma, come altri che hanno scritto qui, in un’azienda che ora è traballante, causa crisi.
    Non ho soluzioni per me, figurarsi per gli altri, quello che posso dire è che condivido il parere di chi consiglia a) di emigrare da un paese dove la meritocrazia è solo un termine astratto e assai bistrattato e b) di non accanirsi su un settore che, obiettivamente, sta morendo. O per lo meno si sta trasformando in qualcosa di molto diverso da quello in cui pensiamo di voler lavorare.
    Io ho lavorato due anni all’estero dopo la laurea. Perché sono ritornata? Perché qui mi si offiriva un bel lavoro, perché volevo tornare. Ma non esiterei a ripartire, se necessario. Credetemi: è più difficile pensarlo che farlo. So bene che famiglia e contingenze varie possono ostacolare l’impresa, che non tutti possono farlo. Ma chi può, ci pensi, seriamente, adesso. E chi non può, creda a chi lavora già da un po’ in questo settore e gli dice che non vale la pensa dannarsi l’anima per lavorarci se non si hanno le condizioni per farlo in modo dignitoso.
    Dite di no, non svilitevi.
    Io finora me la sono cavata, ma il futuro è nero, e se devo iniziare a schiavizzarmi per sopravvivere solo per rimanere nel settore, sono pronta a cambiare (per fare cosa, con una laurea così e un’esperienza specialistica come la mia, questo è tutto un altro problema…). E la pensano così molti miei coetanei con esperienze simili. Auguri a tutti.

  87. SilviaG
    concordo in tutto. Un abbraccio.

  88. Frenz Quiz (@franzquiz)

    @Ben
    Per la verità, ad oggi mi troverei in difficoltà a votare un partito politico italiano. Sono d’accordo sull’idea di tagliare le maxi-pensioni e altri interventi doverosi. Non vedo più la sinistra, e me ne rammarico.

    Vorrei concludere con un ragionamento econom-filosofico: il DENARO non dovrebbe essere un fine, ma un mezzo per facilitare gli scambi. Se inondi di denaro lo “stato del Sahara”, sempre deserto resterà, solo avremo i beduini con le tasche gonfie.

    Se sottrai denaro al sistema-Italia, e al contempo il costo della vita (affitti, bollette, spesa) è troppo elevato, otterrai il pasticcio attuale.

  89. Frenz Quiz,
    come puoi, tu privato cittadino, ottenere un prestito senza pagare gli interessi? e come puoi pagare interessi ragionevolmente bassi se chi ti presta il denaro non ha elevate garanzie che glielo rendi nei tempi previsti? Quanto più alto il rischio di insolvenza, tanto più alti gli interessi che i creditori ti chiederanno, fino al momento che si rifiuteranno di prestarti un euro, o una lira. 🙂
    Per lo Stato è lo stesso.

    Pensi davvero che, avendo un debito di 2000 miliardi di euro, si riesca a liberarsene stampando moneta, evitando così di pagare i creditori? (Ad esempio, i fondi pensione, che gestiscono le pensioni di milioni di lavoratori di tutto il mondo, e che, avendo acquistato titoli di stato italiani, hanno la comprensibile pretesa di riavere indietro i soldi prestati alla scadenza prevista.)
    Qualcuno ha argutamente chiamato quest’idea “moneta filosofale”, in analogia con quella della “pietra filosofale”.

    da Wikipedia
    “La pietra filosofale sarebbe dotata di tre proprietà straordinarie:
    1.fornire un elisir di lunga vita in grado di conferire l’immortalità fornendo la panacea universale per qualsiasi malattia;
    2.far acquisire l’onniscienza ovvero la conoscenza assoluta del passato e del futuro, del bene e del male (cosa che spiegherebbe anche l’attributo di “filosofale”);
    3.la possibilità infine di trasmutare in oro i metalli vili (proprietà che ha colpito maggiormente l’avidità popolare).”

  90. Frenz Quiz (@franzquiz)

    @Ben
    Se ti può far piacere, il tuo ragionamento è perfetto!

    Ma infatti io ne metto in discussione le fondamenta, ovvero: perché mai uno Stato dovrebbe chiedere dei soldi in prestito?
    Perché mai le banche centrali devono essere in mani private?

    La differenza la dovrebbero fare le risorse umane, ambientali, culturali, e di tutto ciò l’Italia è un Paese ricchissimo.

    Ma propongo… una tregua! Per approfondire le “mie” posizioni lascerei il link seguente => http://goofynomics.blogspot.it/

  91. Sono d’accordo con un commento sopra che consiglia di “Non accanirsi su settori che stanno morendo, anche se si ha ‘talento’ “. Questo perché, per farla semplice e adeguarla a commento su blog, credo che sia periodo di profonda crisi non solo economico-lavorativa, bensì anche e soprattutto etica, umana. Ed è questa grande mancanza di etica nella cultura che respiriamo che porta alla precarietà, al malcontento, al presunto fallimento di trentenni che non hanno il cosiddetto lavoro fisso.
    Con tutto rispetto, solidarietà e vicinanza nei confronti di questa ragazza, io non posso che commentare e “risponderle” che noi giovani, ora, abbiamo il compito difficilissimo (che ai nostri genitori non è stato dato) di reinventarci, di comprendere il cambiamento e adattarci a questo. Non possiamo incaponirci su un’editoria che crolla, perché col web, con la tv, con la digitalizzazione progressiva del mondo che ci circonda mai si tornerà all’oro di vent’anni fa. Il futuro è altrove, è oltre questo “fallimento”.
    Il consiglio che si dovrebbe dare a noi giovani, l’incoraggiamento che gli adulti dovrebbero captare e lanciare ai più piccoli, è quello di addentrarsi nelle reali problematiche del mondo lavorativo e muoversi “scansando” il vecchio e marcio: talento significa anche questo!

  92. Quante volte ho pensato che sarebbe così bello accontentarsi di lavorare cinque mesi all’anno come gelatiere all’estero, guadagnando abbastanza da vivere tranquillo a casa per il resto dell’anno.
    Ma no. Senza nessuna imposizione, ci si sente in obbligo di aspirare a qualcosa di più “alto”, fare il professore a Oxford, il Presidente del Consiglio, o semplicemente l’editor di una medio-grande casa editrice.
    Sarebbe così bello, avere tutto quel tempo libero da dedicare a un figlio, a un cane, una famiglia. E sarebbe anche semplice.
    Invece tutti qui in fila, a spiluccare informazioni su duecentomila master/corsi di laurea/magistraletriennalespecialisticaquadriennaleaciclounico, sapendo di essere in guerra, vergognandoci a disertare quando sarebbe semplicemente l’unica cosa da fare. Boris Vian lo sapeva bene.

    Siccome non so dirlo meglio, vi regalo un pezzo di filosofia per noi che ci sentiamo vecchi a 25 anni.

    http://www.massimofini.it/articoli/il-sistema-uccide-tutti-non-solo-i-poveri

  93. PS Per Ben, senza offesa, ma qualora leggessi il pezzo e avessi voglia di rispondermi che il capitalismo cinese ha avuto portata messianica, ti anticipo che non è quello il fulcro dell’articolo.
    Il punto è che questa ragazza sensibile e di talento, come sensibili e talentuosi sono tanti perdenti nobilitati dalla storia post-mortem, ha lasciato gli studi sentendosi obbligata a tenere un posto di apprendista alla reception di un albergo.
    Il tutto mentre c’è un mondo intero a disposizione, e una vita sola da giocarsi. A me pare che ci sia qualcosa di profondamente marcio. Nelle nostre teste. Che da un lato biasimano chi gode degli insuccessi altrui, e dall’altra si vergognano da sé dei propri “fallimenti”.

  94. Frenz Quiz,
    d’accordo per la tregua. 🙂
    Ma lasciami rispondere alla tua domanda “perché mai uno Stato dovrebbe chiedere dei soldi in prestito?”.
    Risposta: per le stesse ragioni per cui i privati, le imprese e tutti gli Stati del mondo chiedono talvolta prestiti. Per spendere più di quel che hanno, che ogni tanto è cosa utile, nell’economia contemporanea, se non si eccede e si provvede poi a ripianare i debiti.

  95. Frenz Quiz (@franzquiz)

    @Ben
    Noi siamo abituati a pensare allo Stato che chiede in prestito i soldi come a un soggetto privato. E, nei fatti, lo è. Votiamo contro l’acqua privatizzata, dovremmo poter votare anche contro il denaro (già) privatizzato.

    Ma in nome della tregua, credo che ciascuno potrà avventurarsi fra libri e web e costruirsi la propria verità 🙂

  96. La colpa è nostra, di chi accetta stage non pagati a oltranza e contratti a progetto da 40 ore settimanali a 500 euro al mese. Perché così ci lasciamo sfruttare e facciamo il male di tutti. Io di anni ne ho 46, in editoria ci sono arrivata tardi, 12 anni fa, da un lavoro a tempo indeterminato che mi fruttava più di quanto abbia mai guadagnato da quando l’ho mollato. Ma l’editoria era il mio sogno, mi sono pagata un master (caro) e alla fine ho iniziato a lavorare. Prima sei mesi di stage gratuito e cinque anni con i diritti d’autore in una casa editrice, e poi altri cinque a progetto in un’altra. Qui ero entrata come redattrice “esperta”, varcando la soglia dei 1000 euro mensili. Intanto ho visto passare stagiste non pagate, stagiste a 300 euro al mese, poi a 700 e, dopo qualche anno, a 900. E quando una di loro, stanca di essere presa in giro, ha fatto denuncia all’inps e all’ispettorato del lavoro, mi sono ritrovata a casa, insieme a una collega che lavorava lì da più di me, incinta e con un figlio a carico. Oltre al danno, la beffa: l’inps ha deciso che la nostra verità era meno vera di quella del datore di lavoro e il posto l’ha mantenuto chi prendeva meno di noi e ha raccontato frottole sul tipo di lavoro che faceva. Ora il nostro lavoro in casa editrice lo fanno tre stagiste, a una delle quali già stanno ventilando l’ipotesi di tenerla. Lei è contenta, elettrizzata. Ancora non sa che all’inizio dovrà accontentarsi di 300 euro al mese e che, quando le sembrerà di riuscire a mantenersi con il suo solo stipendio, sarà per lei il momento di sgomberare il campo.

  97. Non credo che il principale problema sia la spesa pubblica. Il taglio dello Stato sociale è funzionale solo all’arricchimento dei privati come dimostrano i sempre più frequenti scandali ad esempio nel settore della sanità. Ciò che questo e tutti i governi che l’hanno preceduto, a partire dalle origini della Repubblica, non hanno mai fatto è una seria politica di lotta al l’evasione. Tanto per citare un caso personale: ho fatto l’università negli anni Sessanta, sono figlio di un ferroviere (né quadro tantomeno dirigente) ebbene non potevo avere il “presalario” perché altri avevano un reddito più basso (a parità di votazione). Volete sapere chi era l’altro: il figlio di un medico specialista. E la trattenuta alla fonte è servita solo a tartassare il lavoratori a reddito fisso. La priorità assoluta è il recupero dell’evasione, la possibilità di dedurre dall’imponibile anche il biglietto dell’autobus. La tecnologia esiste: ormai è possibile pagare con la moneta elettronica quasi tutto. Esiste anche la tecnologia per cui l’idraulico (l’archetipo dell’evasore) possa accettare la carta di credito a casa del cliente senza portarsi dietro nulla di più del suo smartphone (molto spesso un iPhone). Mandano i finanzieri a Cortina, un giorno ogni mille anni, non fanno nulla per combattere l’evasione. Ed è chiaro che con gli esempi che abbiamo c’è poco da essere ottimisti.

  98. Cara Alessandra, mi vengono i brividi. Sia se vedo la questione dal tuo punto di vista, sia se la vedo dal punto di vista delle stagiste, quello che mi viene da dire è: aiuto!

  99. No Frenz Quiz, non posso lasciare passare quello che dici, non solo per te, anche per chi ci legge, che non ha l’obbligo di avere le idee chiare sui meccanismi della finanza privata e pubblica.

    Il denaro dello Stato è denaro pubblico, perché sulla sua destinazione il Parlamento bene o male ha qualche influenza, e il Parlamento bene o male è eletto dai cittadini. Poi c’è qualche politico e qualche partito che ci prova a usarlo come denaro privato, come denaro suo, ma corre grossi rischi.
    Comunque, sia più o meno denaro pubblico, le cose non cambiano di molto, rispetto a ciò di cui stiamo parlando.

    Cioè, per esempio, se lo Stato vuole soccorrere una grande città rasa al suolo da un terremoto e non ha i soldi per farlo, giustamente li chiede in prestito a chiunque, italiano o straniero, sia disposto a darglieli (comprando titoli di stato), a un interesse che dipende dalle aspettative dei creditori riguardo all’essere rimborsati alle scadenze del prestito.
    Questo non c’entra niente col “denaro privatizzato”, in quanto questo meccanismo creditizio vale per il denaro pubblico sostanzialmente alla stessa maniera che per il denaro privato — salvo aspetti tecnicamente importanti, che però non cambiano la sostanza.

    Puoi raccontarti un’altra storia e chiamarla “la mia verità”, ma le storie non sono tutte ugualmente vere. 🙂

  100. Frenz Quiz (@franzquiz)

    @Ben
    Ma uno Stato che ha le persone e gli strumenti, ma non ha soldi o chi gli presta i soldi, non potrà quindi soccorrere una città terremotata?

    Vabbè, sarà che negli ultimi anni mi sono appassionato ai temi della contro-informazione, ma anch’io prima pensavo all’economia allo stesso modo del tuo commento. Oggi sono passato su posizioni decisamente alternative, ma che spiegano secondo me in modo più chiaro l’attuale critica situazione => http://www.macrolibrarsi.it/libri/__euroschiavi.php

  101. @Ben, ma ancora parli di Renzi? Passi Della Vedova (Della Vedova), ma ancora con questa manfrina per cui Renzi, il vuoto pneumatico, pupetto che ha lavorato due giorni in vita sua (costringendo il padre a mandarlo bonariamente lì), che nemmeno sa mettere toppe alle strade di Firenze, e che regge grazie a mere regole di marketing applicate alla comunicazione tanto la gente nemmeno li vede i contenuti, e andiamo, ma l’hai visto con Piero Ricca da Lerner?
    Io mi chiedo, passi che sei un fan del capitalismo cinese, ma sembri una persona sufficientemente ragionevole da non poter puntare su Renzi come ricettario per uscire dalla crisi. Evidentemente non sempre chi scrive abbastanza bene pensa bene.
    Comunque spero vinca le elezioni, Renzi. Ci spero tanto. Così ‘sto paese meraviglioso crepa definitivamente e non di questo stillicidio para-dittatoriale.
    Poi ne riparliamo.

  102. @Frenz Quiz
    Il lavoro delle persone costa. Anche nell’ipotesi inverosimile che ci siano dipendenti statali abbastanza numerosi e qualificati per compiti straordinari come un terremoto catastrofico (restando al mio esempio, ma se ne possono fare mille), se li sposti sul terremoto dovrai rimpiazzarli con altri o rallentare le attività in cui erano prima impegnati, e tutto questo costa.
    Senza dire delle attrezzature, dei sussidi ai terremotati, ecc..
    Non esiste Stato al mondo, né capitalista né socialista né d’altro genere, che non sia ricorso a prestiti mediante emissione di titoli di Stato. Se esiste, è solo una curiosità storica, che non si è replicata.
    Ma non insisterò oltre, ammetto che le soluzioni basate sulla scoperta del moto perpetuo e sulle virtù economiche della creazione di moneta da parte dello Stato, hanno il loro fascino.

  103. @Bileonair (OT)
    Su Renzi puoi avere ragione, anch’io come tanti ho molti dubbi, anche per le ragioni che dici.
    Per obiettività l’ho incluso in quella lista, perché le idee che propone sono quelle. E le comunica spesso con più efficacia di Ichino, Monti, ecc., se guardiamo alla comunicazione di massa.
    Per dire, mi sembrerebbe più affidabile Barca, che in buona sostanza è sulla stessa linea di Renzi quanto a programma di governo (sulla gestione del PD invece sono molto diversi), però Barca si impegna molto meno. Anche questo conta.
    Comunque, non mi riferivo tanto ai singoli personaggi, quanto alla linea che condividono, e che finora non riescono a far passare.

  104. (in parte OT)
    Caro Bileonair (ben ritrovato, sentivo la tua mancanza),
    non dico nulla sulle scelte personali. Personalmente per un lungo periodo ho scelto un parziale disimpegno e per un periodo successivo una moderata (ma difficile) competizione — in entrambi i casi ero nella bambagia, altri tempi, da non rimpiangere affatto, dato che sono la causa dei guai attuali.
    Sono stato meglio nella competizione, ma in queste cose ognuno è un caso a sé.
    Dico solo, alla Catalano, che è meglio avere più scelte che averne meno. Per questo, dato che gentilmente mi provochi, della frase di Fini sulla Cina (“Forse stavano meglio quando si accontentavano della loro ciotola di riso.”) apprezzo soprattutto il “forse”.
    Idem per il nostro Occidente e la nostra Italia. Apprezzo la filosofia di un Jacopo Fo o di un Massimo Fini (che peraltro hanno fatto una bella carriera con la loro filosofia). Ma i miei figli potrebbero preferire altre opzioni, e io vorrei che le avessero anche in Italia, più di quanto ne abbiano ora. Loro e le protagoniste degli ultimi post di Giovanna.

  105. (non del tutto OT)
    Bileonair,
    leggi, se lo trovi, Adret (nome di un collettivo francese, in cui sospetto di fosse lo zampino di André Gorz), Travailler deux heures par jour, Seuil, 1977. Mi entusiasmava, e ancora l’apprezzo. Un riassunto in inglese: http://www.processedworld.com/Issues/issue25/25towork2hours.html

  106. Io cerco di reagire raccontando lo schifo del mondo del lavoro giornalistico per noi “trentenni” in questo blog, http://ilporcoallavoro.com/. Se vi va di leggere e commentare…

  107. La colpa? “di chi ci ha detto che esisteva una cosa chiamata merito” e “la colpa è nostra”.
    Perché a quel qualcuno che ti raccontava dell’esistenza del merito hai creduto nonostante tutto e perché è bello e giusto avere il coraggio e la dedizione di inseguire i propri sogni, ma bisogna avere anche il coraggio di rinunciare ad un percorso che non ti sta portando dove vorresti arrivare, anche se significa allontanarsi da quel briciolo di realizzazione che hai raggiunto.
    Se sei in un vicolo cieco o ci resti o torni indietro e aggiri l’ostacolo… non puoi pretendere che il muro che hai davanti crolli
    È diventata vecchia perché ha rinunciato a mettersi in gioco.

  108. Pingback: Contemporaneo Indispensabile e l’editoria mail to mail | ***POLIMERI

  109. Mi piacerebbe davvero dire qualcosa di sensato a Sara senza cadere in banalità senza senso, perché ciò che accade a lei, è ciò che accade ad altre donne (e non solo).
    Ciò che mi pare importante sottolineare, è che lei mette in contrapposizione quella Sara che aveva creduto ai suoi sogni e che però ora sta pagando tutto perché non arriva a fine mese e la sua vita è talmente faticosa che fa schifo, con la cugina che ha tre figli, è sposata ed è felice. Mettiamo in chiaro una cosa, scontata ma da ripetere: le vite non sono replicabili con lo stampino.
    C’è un motivo se tu, Sara, hai scelto una strada e non quella di tua cugina, c’è un motivo per cui tu non ti sei vista “possibile” in quella condizione lì. Anche io ho una cugina di un anno più grande di me, ragazza madre aiutata dai suoi genitori, che ha un lavoro part-time abbastanza modesto ed è felice così. Io non potrei mai avere dei bambini perché non voglio averli, ho preferito e preferisco pensare la mia vita in altro modo. Ciò non significa rinunciare agli affetti, sia chiaro.
    Lo Stato, in questo momento di crisi, sta investendo sulle donne perché si occupino di più della famiglia, dato che il welfare è in crisi perché in crisi è il sistema capitalista, e incentiva le donne a stare a casa, e di conseguenza a fare figli.
    Storicamente, le donne si sono dedicate alla cura della famiglia perché nel grande mondo là fuori non c’era posto per loro. Hanno preferito stare a casa, convivere magari con mariti che non amavano più, legarsi a loro per tutta la vita, e prendersi cura della casa: il che è un lavoro pesantissimo, fisicamente e psicologicamente – è quel lavoro su cui lo Stato campa per non pagare la famosa “riproducibilità della sua forza-lavoro”, che poi saremmo noi. E’ lavoro che le donne fanno gratis, in poche parole.
    Il prezzo pagato storicamente dalle donne per aver svolto questi lavori gratuitamente e senza un minimo di riconoscimento, è altissimo, fisicamente e psicologicamente. Questo non vuol dire che tua cugina è una che si fa sfruttare e suo marito è un carnefice, ma che all’interno della famiglia ci sono le condizioni tali perché si producano e riproducano sistemi di oppressione terrificante, e anche di dipendenza economica terribile, per cui se domani tua cugina realizzasse di non amare più suo marito, sarebbe molto complesso, per non dire impossibile, distaccarsene.
    Quando, come genere, abbiamo affrontato il grande mondo là fuori, iniziando a lavorare, diventando quindi forza-lavoro al pari di un qualsiasi operaio (se non altro in quando a doveri), abbiamo sperimentato la libertà nello Stato borghese. Ce l’avevano raccontata come una libertà totale, e invece non era così. Sapevamo, forse, che era una libertà che dipendeva dal lavoro, il quale è soggetto alle leggi dell’economia capitalista, che va ripetutamente in crisi, ma ci siamo ritenute indenni come genere a certe domande pensando che “male che vada io sto a casa a curare i figli e mio marito va a lavorare”, oppure credevamo magari negli anni ’80 e ’90 che la crisi non ci avrebbe mai riguardato perché non ci sarebbe più state, esattamente come gli uomini lo hanno creduto.
    E invece no, eccoci qui a ripensarci di nuovo: la mia vita fa schifo, lavoro dodici ore al giorno e prendo una miseria… Tutto questo, per cosa?
    Cerchiamo innanzi tutto di ricordarci i _motivi_ per cui non abbiamo cercato la realizzazione personale in certe forme, ma in altre. Cerchiamo di ricordarci perché noi ci siamo messe a studiare (in un sistema universitario bacato) e da lì ricominciamo: da quello che volevamo, che sicuramente è cambiato, ma nella vita, in nessuna epoca storica, niente è mai stato certo. E poi, iniziamo a contestualizzarci storicamente: noi siamo soggetti storici. Lo so che stai male e non te ne frega niente, ma studiare la storia dell’economia, del pensiero, del lavoro, e di molto altro, è importante per capire che il mondo non gira intorno alla nostra generazione, soprattutto se questa non lotta.
    Saremo una generazione che vale solo se ci metteremo a lottare insieme a quei pensionati che guadagnano al massimo cinquecento euro al mese, alle madri single, ai lavoratori in cassa integrazione, ai disoccupati. Insomma: saremo una generazione che vale solo quando si vorrà riscattare in quanto classe accomunata da degli interessi.
    Sara, la tua disperazione è quella di molti. Non devi demordere e non devi buttarti giù costruendoti gabbie che non hai mai pensato adatte a te, perché credi di non aver altra scelta.
    Riprenditi in mano la tua vita, e lotta.

    Nadia

  110. La situazione dei precari nel mondo della scuola e nel campo della Storia dell’Arte e dell’Archeologia non e’ migliore. Lavoro, nei migliori dei casi, sottopagato e, quando e’ retribuito, vessato dalle tasse (600 € di ritenute per prenderne 1200 quando lavori con contratti a tempo determinato ma quando non lavori non hai diritto ad assegni di disoccupazione se hai un contratto di collaborazione anche se di poche migliaia di lire annui e raramente ricevuti regolarmente. Che dire: ascoltare le parole di Luigi Tenco “Vedrai, vedrai che un giorno cambiera’…” e non seguirlo nella disperazione… fin che ci si riesce… e si cerca di votare meglio di prima…

  111. Pingback: Una risata vi seppellirà (Fran De Martino) | Extravesuviana

  112. Non mi piace fare il pianto greco, però certe volte diventa inevitabile. Lotto e lavoro da quando avevo 23 anni. Ora ne ho 29, tra poco 30, e mi sembra un’eternità. Anch’io nel campo del giornalismo, per giunta al Sud: tanti mi dicono che devo sentirmi fortunata, perché riesco quasi a sopravvivere con questo lavoro, mentre la guerra fra poveri imperversa e toglie il respiro. Ma io non ce la faccio proprio, no, a sentirmi fortunata. Sono solo arrabbiata, di una rabbia nera e corrosiva che copre tutto. Ma ciò che mi fa male davvero è la consapevolezza di dover sopravvivere annaspando tra altri che condividono la mia stessa condizione in un mercato senza regole, dove in ultima analisi può vincere chi paga per lavorare. Nonostante questa condizione comune, nonostante questa continua umiliazione cui è sottoposta la nostra generazione, quello che mi trafigge veramente è che al di fuori della ormai stantìa retorica sui precari, non riusciamo a riconoscerci tra di noi.

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  115. Parole sentite e risentite.. lamentele e basta.. il cambiamento è insito nella vita.. tutto cambia costantemente e noi possiamo scegliere se lasciarci influenzare dall ‘ambiente (quello che fa questa ragazza) o essere noi a modificarlo… l’ambiente è nostro specchio.. così come lo sono le persone.. lei nn trova più gioia nel suo lavoro come il suo lavoro non trova più gioia in lei e quindi una sola cosa: cambiare! Non siamo alberi… ci sono infinite possibilità davanti a noi… ma se ci si concentra in ciò che non va e ci si fossilizza non si ottiene nulla… ci si nasconde e si dà la colpa all esterno di propri interiori fallimenti..questo vale in tutti i campi.. lavorativi e non.
    Io sono laureata in scienze della comunicazione piu o meno quando si è laureata lei.. ho 28 anni..ho lavorato ovunque..in america soprattutto ma in ristoranti e bar… e allora? Mi adatto.. mi piace vedere cosa posso combinare con la mia vita e plasmarla come mi pare.. ora mi sono iscritta ad un corso per istruttrice fitness.. reinventarsi ogni giorno.. sorridere e il mondo sorriderà.. non si può dire a 30 anni la mia vita fa schifo.. nel momento jn cui lo pensi hai già fatto in modo che accada..non fissatevi ragazzi.. avete tutto..usatelo!

  116. Io ho 30 anni, lavoro come freelance per diversi editori medio-piccoli e ho calcolato che negli ultimi 6 mesi ho guadagnato in totale circa 800 euro netti, il che significa che se tutto va bene arrivo a 200 euro netti al mese. No, non è vita e non è lavoro. Infatti mi sento uno schifo.

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