«Sognavo di lavorare in una casa editrice, ma sapevo che è difficile. Allora ho fondato la mia»

Regina Zabo

Da quando Sara si è laureata con me alla magistrale di Semiotica nel 2012, mi ha sempre tenuta aggiornata sul suo sogno: aprire una piccola casa editrice in Sardegna, la sua terra d’origine. Ieri ha condiviso con me una prima soddisfazione importante, per cui le ho chiesto di poter pubblicare qui la sua storia, perché può essere di incoraggiamento per molti/e. Eccola:

Mi sono laureata in Semiotica nel febbraio 2012, con una tesi sull’editoria in Sardegna. Un po’ alla volta, mentre lavoravo alla ricerca, un’idea cominciò a farsi spazio: ho pensato che avrei potuto provare a coronare il mio sogno di lavorare nell’editoria aprendo una mia casa editrice. C’è voluto più di un anno per scrivere il progetto: volevo realizzare una casa editrice digitale che fosse in continuità con la tradizione dell’editoria italiana di progetto, ma capace di interpretare i cambiamenti introdotti dal digitale in questo settore.
Dopo mesi di ricerche mi sono inventata il Catalogo Liquido, Prosicultura e gli Uffici Virtuali, che se volete sapere cosa sono, vi invito a visitare il sito: reginazabo.com

Si chiama Regina Zabo la mia casa editrice, ma oggi devo dire “nostra” perché attorno a me si è creato un gruppo di persone che mi aiutano con la costruzione dell’identità visiva, la comunicazione sui social, l’ufficio stampa, l’editing. Sono tutti volontari, innamorati del progetto. Io sto impazzendo a organizzare tutto, ma ho bene in mente qual è il messaggio che Regina Zabo vuole comunicare e gli obiettivi che vorrei raggiungesse, e continuo a lavorare sodo.

Per poter realizzare tutto questo ho chiesto e ricevuto un finanziamento da parte di Invitalia, non mi sono serviti tantissimi soldi: meno di quindicimila euro in tutto, per poter pagare l’agenzia che ha realizzato il sito e il grafico, arredare un ufficio nella casa che era dei miei nonni, acquistare un computer con uno schermo abbastanza grande – che col passare dei mesi è diventato il mio migliore amico.
Ora il nostro Catalogo Liquido conta quattro ebook di narrativa; raccolti nella collana #tuchemiracconti che ha la funzione di contrastare la rigidità mentale, mostrando il mondo da punti di vista diversi; prestissimo uscirà il primo saggio, che inaugura la collana #wannabepop con cui ci impegnamo a tirare su il livello della cultura “pop”, affrontando argomenti specialistici in modo semplice, non semplicistico. Stiamo lavorando anche per sviluppare il primo enhanced book di Regina Zabo che farà parte della collana #fareglindiani in cui proporremo modi diversi di vivere e abitare il mondo, per spingere le persone a un rapporto più stretto con la natura.

Essere stata invitata a presentare il mio progetto a Bookcity Milano 2014, è stata una delle prime grandi soddisfazioni: il 16 novembre parteciperò alla conferenza #MifacciodiCultura digitale dedicata al rapporto tra i giovani e la cultura digitale.
Ancora non ci mangio (neanche un biscotto) con questo lavoro, ma Roma non è stata costruita in un giorno.

38 risposte a “«Sognavo di lavorare in una casa editrice, ma sapevo che è difficile. Allora ho fondato la mia»

  1. Auguri a Sara, tra l’altro l’editoria in Sardegna è davvero florida, io che faccio lo stesso mestiere devo dire che in Sardegna facciamo davvero ottimi numeri, merito anche di Liberòs – la comunità dei lettori sardi, di un distributore serio e di alcuni scrittori come Tabasso, Murgia e Abate che ci hanno regalato loro racconti facendoci conoscere in giro per l’Isola. Ma in generale l’atmosfera sarda è davvero ideale per chi vuole fare editoria… oserei definire la Sardegna davvero un mondo a parte.

    Coraggiosa la scelta dell’ebook, che probabilmente non pagherà nei prossimissimi mesi a livello di fatturazione, ma in un’ottica di lungo periodo può regalare tante soddisfazioni.

    Auguri e buona fortuna.
    Alessandro

  2. Bravissima! finalmente la storia di una giovane con un sogno.. a dieta per realizzare il suo sogno, ma con un’energia che si percepisce anche attraverso lo schermo di questo maledetto/benedetto computer. Se insegnassero ai giovani che i sogni, quelli veri, che partono da dentro l’animo umano e non arrivano da fuori, come lampi di insegne contemporanee che abbagliano la maggioranza di loro, nutrono la vita e l’esistenza meglio di qualsiasi altra pietanza reale, forse oggi ci sarebbe meno disperazione. il vero dramma di oggi non è la mancanza di lavoro, ma la mancanza di ispirazioni, di sogni, di ideali non intesi come vorrebbero i soliti caproni imbiancati iper retorici.. ma ideale di se, di se nel mondo, di “cosa voglio fare da grande”. .. chi vive acceso da questo fuoco non nutrirà mai fame, non proverà mai disperazione.. “Nella casa del poeta non esiste il pianto! ” … un enorme IN BOCCA AL LUPO!

  3. Grazie 🙂 Walter!
    Alessandro grazie della tua testimonianza, una vera iniezione di fiducia!

  4. Sono tra quelli a cui piace leggere le storie positive che ogni tanto posti. In bocca al lupo, Sara. Amo nutrire il mio ebook reader e terrò d’occhio il sito della tua casa editrice.

  5. Ilaria, tu si che sai leggere tra le righe! 😀

  6. Tempo fa alcuni ragazzi erano lì a lamentarsi perché in questa città non avevano un posto dove stare senza annoiarsi. Le nostre città, dicevano, sono la morte civile. Londra, New York, Sudney… quelle sì!
    “Siete mai stati ad Ales? Oppure a Ghilarza? –ho domandato– Pensate che Antonio Gramsci si annoiasse? Non credo, forse perché usava la testa”. Quando, transitando in fondo alla Carlo Felice mi accadrà di vedere ancora il cartello stradale indicante Sinnai, l’immagine di Sara, della sua ragnetta e dei suoi amici mi confermerà che i Sardi sono davvero speciali.

  7. In bocca al lupo a Sara, che ha seguito un po’ il mio percorso, semiotica e poi editoria digitale (anche se si può dire che sia stato io ad aver involontariamente seguito il suo).
    Anche noi saremo a Milano per un evento di Bookcity, ma il 13!

  8. bene, continuiamo a incoraggiare e diffondere l’idea che il lavoro culturale possa/debba essere volontario. I traduttori professionisti (tra gli altri) ringraziano

  9. Luisa credo che in questo caso il tuo commento sia fuori luogo, io non penso affatto che il lavoro culturale possa né debba essere volontario, e so per certo che nemmeno la Cosenza pensa una cosa del genere, anzi.
    Si sta parlando di un’attività che sta muovendo i primi passi, non di un’azienda affermata. Chi pensi che dovrebbe pagare i nostri stipendi? Quando nasce un’impresa è sempre così, inizialmente vanno fatti dei sacrifici.
    L’unico modo per poter avere delle entrate ora come ora sarebbe quello di far pagare gli autori per la pubblicazione, ma io ho scelto di non intraprendere la strada dell’editoria a pagamento, perché un editore dev’essere innanzitutto un mediatore culturale. Ogni pubblicazione rappresenta per me un investimento, conto che il pubblico riconosca la qualità del nostro lavoro scegliendo di acquistare i nostri ebook, finché non riusciremmo a guadagnare.
    I miei “volontari” sono quasi tutti ragazzi e ragazze appassionati di editoria, qualcuno di loro ha già un lavoro, qualcuno lo sta cercando, qualcuno si sta per laureare, mi hanno chiesto di poter collaborare perché condividono i valori di Regina Zabo e sono convinti che un giorno potrà decollare.
    C’è una grande differenza tra il farsi sfruttare e decidere di collaborare per realizzare qualcosa insieme.

  10. ti auguro di avere al più presto molte entrate per poterci mangiare un sacco di biscotti insieme ai tuoi collaboratori! 😀

  11. Grazie ragazzi per le vostre storie, mi fate sentire meno sola nel seguire i miei sogni anche in un’era difficile per la cultura e da un luogo “isolato” come la Sardegna! Ma si sa, ci vuole sempre molto sacrificio per raggiungere obiettivi così belli come quello di Sara! Brava!

  12. storia bella e incoraggiante, quella di una giovane laureata in editoria sarda che riesce a continuare nella vita questo suo interesse al tempo stesso culturalmente vivo “accademico” , e significativo nella realtà di quella regione. Mi pare opportuno ricordare che successi di questo tipo sono resi possibili da relatori di tesi del tipo di Giovanna Cosenza, “accademicamente” seri e al tempo stesso sensibili alle realtà ed alle migliori , magari difficili ambizioni degli studenti. Quanti ce ne sono, di professori di questo tipo? Spero più di quanto appare, cioè pochi

  13. Brava vetamente! Hai fatto come diceva (e faceva) Carla Lonzi . . Se vuoi qualcosa che non c’e’ ..falla!

  14. Sara, due cose:
    1) bravissima per non aver intrapreso la strada dell’editoria a pagamento. Questo è segno di serietà, senza alcun dubbio.
    2) Temo però che tu ti contraddica da sola:
    “io non penso affatto che il lavoro culturale possa né debba essere volontario”
    “I miei “volontari” sono quasi tutti ragazzi e ragazze appassionati di editoria”
    forse con le virgolette vuoi dire che non si tratta di volontari? Eppure, se non li paghi, la sostanza quella è. Il fatto che abbiano deciso autonomamente di collaborare con te non cambia nulla.
    Sulla retorica dell’entusiasmo, e delle piccole imprese che non potrebbero sopravvivere altrimenti, si basa uno sfruttamento spaventoso di professionalità, da parte di editori e anche altre figure del mondo culturale. Ovunque il lavoro possa essere ammantato di passione c’è questo rischio (v. per esempio la campagna #coglioneNO http://www.wired.it/tv/coglioneno-la-campagna-per-la-tutela-dei-creativi-italiani/).
    Ribatterai che non è chiaro come iniziare da zero e trovare i soldi. La risposta è che non lo so, soltanto gradirei che sotto il tappeto dell’entusiasmo e dell’iniziativa individuale non si nasconda la pretesa di avere gratis quel che invece dovrebbe essere pagato.

  15. Mi permetto di aggiungere qualcosa alle parole di Luisa, alla quale per inciso sono stata io a segnalare questo post su Disambiguando (blog che seguo e continuerò a seguire con stima e ammirazione). Dolente che Sara abbia trovato “fuori luogo” il commento di Luisa che metteva l’accento sulla prestazione d’opera volontaria (e quindi gratuita) da parte dei collaboratori, ma devo dire che pure a me è parsa subito la nota stonata in un racconto davvero bello per tanti altri motivi (non ultimo il fatto che voglio molto bene ai giovani, ai libri digitali e alla Sardegna). Tuttavia: Sara stessa dice di avere chiesto e ottenuto un finanziamento «per poter pagare l’agenzia che ha realizzato il sito e il grafico, arredare un ufficio… acquistare un computer con uno schermo abbastanza grande…» eccetera. Naturalmente chi le ha venduto i mobili e il computer non avrebbe accettato di aspettare il “decollo” della casa editrice (cui auguro voli altissimi) per essere pagato; e anche l’agenzia di web design e il grafico sanno convertire il valore del proprio lavoro in denaro, per quanto creativo e appassionante quel lavoro sia. E allora, perché mai questo non deve valere per chi offre le prestazioni di lavoro editoriale strettamente necessarie al progetto? I casi sono due: o queste prestazioni valgono quello che costano, quindi niente, ma sinceramente non lo credo. Oppure valgono qualcosa, e allora quel qualcosa si deve imparare a monetizzarlo, chiederlo e ottenerlo. Sara che ha aperto la casa editrice e di fatto la possiede può anche decidere di rinunciare perfino ai biscotti, perché l’azienda è sua e la decisione tocca solo lei. Ma partire senza pagare il lavoro più importante per un editore – quello di chi fa i libri – sperando solo nel futuro, non può che perpetuare le male abitudini di troppa editoria nostrana, anche (o ahimè soprattutto) di progetto. È diseducativo per Sara come giovane imprenditore, ed è diseducativo per i suoi collaboratori, non importa quanto credono nel progetto. I soldi, se non ci sono, si cercano: in Regione, in banca, in giro (esistono anche i finanziatori privati, anche all’estero: trovare i soldi per realizzare i propri sogni di lavoro è un lavoro a tempo pieno, che forse andava fatto prima di cominciare a fare i libri). Nessuno penserebbe di aprire un bar o uno studio da geometra senza un soldo per pagare i collaboratori; Sara potrebbe essere appassionata, anziché di libri, di cocktail e tramezzini, ma se qualcuno le proponesse di andare a farli gratis “in attesa che il locale decolli” giustamente inorridirebbe. L’editoria non è un’isola felice nel mare inquinato dell’impresa, dove il panorama è così bello che la si può abitare senza sentire i morsi della fame; è un’attività economica come le altre, e così va pensata. E la dignità delle persone, che passa anche dalla retribuzione del loro lavoro, viene prima della dignità letteraria. Detto tutto questo, auguro comunque a Sara grandi e duraturi successi nel settore che ha scelto.

  16. Luisa, per cominciare qualcosa è necessario fare dei sacrifici, che devono essere volontari, non penserei mai di costringere nessuno a lavorare gratis per me. Le persone che collaborano con me lo fanno per costruire qualcosa insieme, perché credono come me che questo progetto possa funzionare. Ovviamente se a un certo punto mi dovessi rendere conto che non c’è trippa per i gatti chiuderò bottega, non si può vivere di progetti, ma nemmeno di rimpianti. Conosco molto bene la campagna #coglioneNO, ma … che c’entra?
    Tu non sai come sia possibile iniziare da zero e trovare i soldi, non lo so nemmeno io, allora che si fa? Nulla?

  17. sui sacrifici/volontari ti ha risposto ottimamente Isa, e pure sul trovare i soldi. Su #coglioneNO: si fanno altri esempi di lavoro creativo e/o culturale che viene pagato zero o “a visibilità” (come se questo fosse un pagamento). Con il che ti faccio i miei migliori auguri di avere successo, e iniziare a pagare i tuoi collaboratori, e la chiudo qui.

  18. Isa, ho letto dopo il tuo commento, sono d’accordo con quello che scrivi, forse non sono stata chiara quando ho detto che al momento non sto guadagnando nulla (nemmeno un biscotto). Ovviamente, se ci fosse dividerei anche il biscotto, ma ora non c’è. I bandi di finanziamento ti dicono come puoi spendere i soldi, Invitalia concede al massimo 25.000 euro, ma finanzia solo le spese per gli i beni materiali, e immateriali, tra cui rientra la realizzazione del sito internet (grafica e sviluppo), non c’è niente per me, che lavoro mattina e sera anche nei week end, niente per i prestatori d’opera. Non trattatemi da furba, purtroppo ci sono delle regole, e io mi attengo a quelle. Il fatto che altre persone si siano avvicinate a me e mi abbiano proposto di aiutarmi, per me è un fattore positivo, effettivamente viste da fuori le cose sembrano più semplici e si fa presto a tagliare tutto con l’accetta.

  19. “Si sta parlando di un’attività che sta muovendo i primi passi, non di un’azienda affermata. Chi pensi che dovrebbe pagare i nostri stipendi?”

    Chi quell’attività l’ha fondata, ovvero l’imprenditore.
    Se l’attività fosse stato un bar, avresti chiesto agli amici di fare cappuccini gratis? Non credo. Avresti appurato *prima* di aver i soldi per pagare un barista e poi avresti assunto qualcuno. O se tu o uno dei tuoi volenterosi collaboratori foste andati a chiedere di lavorare in un negozio di scarpe appena aperto e loro ti avessero detto: “Ok, ma il primo anno lavori gratis, siamo appena nati”, sareste tornati a casa sorridendo, perché “in fondo non sono un’azienda affermata, non dovrebbero pagare il mio stipendio”? Non credo neanche qui.

    “Quando nasce un’impresa è sempre così, inizialmente vanno fatti dei sacrifici.”

    Di nuovo: è l’imprenditore che deve farli, non chi lavora per lui. Ma nell’editoria la pratica del lavoro volontario è diffusissima, perché c’è “la passione”, perché fare libri è “una missione culturale” e altre sciocchezze che non tengono conto di una cosa fondamentale: tu, Sara, li vuoi vendere questi libri? Hai un catalogo per cui chi acquista i tuoi ebook li pagherà? E allora non hai fondato una casa editrice “per passione” (in quel caso ti saresti ciclostilata il romanzo di un amico e l’avresti distribuito gratis ai parenti), ma ti sei immersa in un mercato.
    E se sei in un mercato, sei un imprenditore.
    E se sei un imprenditore, paghi i collaboratori, per quanto appassionati e volenterosi possano essere.
    Soprattutto perché per ogni collaboratore che ti aiuta gratis “perché sei agli inizi” ce ne sono mille altri che non vengono pagati “perché c’è crisi”, “perché siamo una piccola realtà”, “perché traduciamo libri importanti” eccetera, in una catena di scaricabarile in cui chi fa questo mestiere per mestiere e non (solo) per passione affonda sempre di più in una povertà senza ritorno.
    I professionisti dell’editoria sono professionisti. Per ogni “volontario” che edita un romanzo o corregge una bozza o traduce un saggio gratuitamente, e contribuisce a inserire quel romanzo/bozza/saggio nel MERCATO a costo zero, c’è un professionista che perde un lavoro. Pensateci, quando vi viene voglia di “fondare una casa editrice perché non riuscivo a lavorare nelle case editrice degli altri”.
    Come è stato difficile per te entrare nel mondo editoriale, lo è anche rimanerci per chi non ha la possibilità (o la voglia, o l’incoscienza, perdonami) di fondarsi la sua CE. E’ un mercato drogato, il nostro, e in caduta libera.
    Far lavorare la gente gratis non fa che accelerare quella caduta.
    Buono schianto, Sara, procurati un paracadute.

  20. Parlare di sfruttamento da parte di Sara non trovo sia corretto. Anzi, lo trovo lontanissimo dalla realtà.
    Sono una “volontaria” (si può dire?), ho conosciuto Sara in un periodo in cui il mio lavoro non mi dava nessuno stimolo purtroppo, ringrazio d’averlo, per carità, ma avevo voglia di impiegare il mio tempo libero in qualcosa che mi gratificasse. Studiavo, leggevo, scrivevo, ma qualcosa mancava. Sono venuta a conoscenza del suo progetto editoriale e le ho chiesto se poteva aver bisogno di una mano. Non ho risposto a nessun falso annuncio di “non lavoro”, non sono stata contattata da chi mi prometteva mare e monti, nulla di tutto ciò. C’è stata sintonia e ho deciso di collaborare sperando che il suo progetto decolli alla grande! E la cosa, vi dirò, mi gratifica. E’ una ragazza come me che però, diversamente da me, ha avuto il coraggio e l’ambizione di rischiare (perché di questo si tratta). Vi è mai capitato di suonare in una band con degli amici e a volte sognare di diventare delle super star? Trasferisci la metafora su una casa editrice digitale e il gioco è fatto: lei ha comprato gli strumenti e la sala insonorizzata, noi contribuiamo alla melodia.
    Si tratta solamente di impiegare il proprio tempo libero come meglio si ritiene. E poi – diciamocelo – io di st****i nel mondo del lavoro ne ho conosciuti, ma non avevano certo il suo volto!

    Iniziamo ad incoraggiare i giovani.
    In bocca al lupo a tutti!

  21. Ho conosciuto Sara perchè anche io partecipo a Bookcity con un mio progetto. Ho 25 anni e mi sto per laureare. Quando ho visto il sito di Regina Zabo e ho letto tutto quello che Sara voleva raggiungere, ho visto qualcosa di bello. Ho visto un progetto culturale vero, un’idea alla base della pubblicazione dei loro libri. Queste cose in Italia non esistono più dal Novecento. Io studio editoria, dopo la laurea inizierò sicuramente uno stage, probabilmente sottopagato e senza possibilità di assunzione. Se avrò fortuna lo farò per una casa editrice, probabilmente sarà un posto dove la mia opinione conterà meno di zero, imparerò a fare poco e la mia creatività verrà schiacciata. Finiti i sei mesi dovrò cercare altro, fino a quando la fortuna non mi assisterà o le cose non cambieranno.
    A inizio Settembre, seduti al tavolo di una tavola calda mangiando una piadina, ho detto a Sara che l’ammiravo tantissimo e volevo darle una mano. Lei ha cercato quasi di scoraggiarmi, specificando subito che non poteva pagarmi. Mi ha detto di pensarci bene e che ci saremmo risentite a Ottobre. Il sei Ottobre ho cominciato a collaborare con Regina Zabo, aiuto Sara a curare la pagina Facebook e Twitter. Ho imparato più in queste due settimane che in due anni di università, dove non abbiamo mai fatto nulla di pratico. Mi devo barcamenare tra tesi, problemi di tutti i giorni e questa piccola collaborazione tuttavia quando vado a letto sono felice. Studiare editoria per me è stato rispondere a una vocazione, semplicemente amo i libri: quelli ben scritti, ben fatti e che ti rimangono dentro. Con la laurea in mano cercherò un lavoro retribuito, non sono una santa e nemmeno stupida, ma spero che riuscirò sempre a dare una mano a questa ragazza, a questa persona che spero di poter chiamare amica. Sara ha avuto un grande coraggio, Regina Zabo dovrebbe far capire a tutti gli operatori del settore editoriale che nonostante i dati negativi sulla lettura e gli acquisti dei libri, c’è ancora speranza e credetemi, non esagero.

    Questa è solo la mia storia. Forse parlo dall’alto della mia inesperienza ma se continuiamo a vedere il marcio in tutto allora siamo davvero perduti.

  22. Sara, quelli che ti aiutano gratis sono soci? Se lo sono, nessuna obiezione. Come dice Isabella, chi possiede l’azienda “può anche decidere di rinunciare perfino ai biscotti”.
    Ma dalla tua lettera sembrerebbe che chi ti aiuta non partecipi alla proprietà. Di qui le ragionevoli obiezioni.

  23. Fabrizio, ma che argomento è se sono soci o meno? Se vogliono collaborare lo fanno e sennò se ne stanno a casa, non è un diritto lavorare in una casa editrice. Patti chiari, Sara ti dice se ti può pagare oppure no, e tu decidi. Se promette e non mantiene è una truffa (leggasi contratto), altrimenti non ci sono obiezioni ragionevoli. Il lavoro culturale può essere volontario, come qualsiasi altro lavoro, per fortuna siamo ancora in una democrazia liberale.

  24. Francamente penso che prima di parlare di collaboratori sfruttati e gestione degli investimenti bisognerebbe trovarsi ad aver gestito un’azienda, piccola o grande che sia. @Isabella tu dici «I soldi, se non ci sono, si cercano: in Regione, in banca, in giro» quindi ti chiedo: hai mai provato ad andare a cercare soldi per aprire un’attività negli ultimi 4 anni? Hai avuto successo e riesci a pagare i tuoi collaboratori? Perché io nel migliore dei casi ho trovato bandi che ti finanziano aspetti molto molto precisi e ti pagano solo cose rendicontabili, come ad esempio una fattura fatta da un’agenzia che ti fa un sito. E nessun investitore investe su un’azienda da creare da zero se l’imprenditore chiede soldi per pagare gli stipendi dei suoi collaboratori. Riguardo alle banche beh, sappiamo tutti quanta voglia hanno di finanziare giovani precari.

    In Italia si parla di startup digitali da oltre 5 anni e siamo ancora al ragionamento in cui l’imprenditore è il padrone colpevole di tutti i mali? Oggi collaborare con un’azienda digitale investendo volontariamente il proprio tempo nel creare qualcosa è uno dei pochi modi di investire in un futuro professionale migliore di quello che hai oggi, perché stai sicura che (1) se l’impresa ingrana tu diventi parte integrante della sua identità e (2) ti scontri con problemi che lo stage nelle grandi aziende non ti fa nemmeno annusare, ti crei un bagaglio di capacità sul campo e un’abilità nel problem solving che ti farà sembrare una passeggiata molti altri lavori che farai in seguito. Facendo questo investimento tu rischi il tuo tempo, l’imprenditore oltre a quello rischia di ritrovarsi sul groppone costi, debiti e responsabilità legale. È una scelta che ognuno fa in base a quello che si sente di fare. Ma far passare l’imprenditore per sfruttatore solo perché l’azienda “di fatto la possiede” mi sembra davvero assurdo.

  25. Salve a tutti,
    io sono una di quelle giovani volontarie a cui si riferiscono alcuni commenti.
    Io per la casa editrice non “faccio i libri”, di quello si occupa Sara; mi sono occupata e mi occupo di aspetti economico-finanziari, per i quali di solito si viene pagati profumatamente.
    Mi incuriosisce non poco apprendere che un agire sociale, da me interpretato positivamente, come spia della creazione di relazioni sociali riconducibili al concetto classico di comunità possa invece essere stato interpretato come una perdita volontaria di dignità del lavoratore.
    Secondo me si è proprio fatto confusione perché si è mal interpretato il nostro ruolo all’interno della casa editrice e le motivazioni che ci hanno spinto a collaborare con Sara.
    Ognuno di noi ha un’occupazione principale che prescinde dalla casa editrice. Io ad esempio ho un lavoro da cui, fortunatamente, riesco a campare. Perché allora dedico il mio tempo alla casa editrice direte voi? Ci sono diversi motivi: dentro la casa editrice posso fare le cose come dovrebbero essere fatte, come mi suggerisce la mia esperienza, la mia professionalità e il mio intuito; credo nel progetto, lo ho condiviso dal primo momento e voglio vederlo realizzato; so perfettamente che non sto “rubando” il lavoro a nessuno perché se non ci fossimo noi volontari non ci sarebbe nessuno a sostituirci, semplicemente il lavoro ricadrebbe interamente su Sara; conosco a fondo le difficoltà che un giovane imprenditore deve affrontare per aprire una nuova attività e so perfettamente che se non hai un capitale iniziale molto, molto solido non puoi permetterti neanche di trovare i finanziamenti per iniziare (il fundraising costa) e io voglio contribuire a dimostrare che anche se non sei figlio della media borghesia italiana puoi fare impresa, puoi crearti il tuo lavoro.
    Credo che la mia esperienza e quella dei ragazzi con cui collaboro dimostrino che non tutto l’agire umano è agire economico, non tutti gli scambi avvengono attraverso uno scambio monetario e sinceramente sono felice di far parte di qualcosa che dimostra questo.

  26. La penso come Rob e appoggio Sara, anche perché conosco bene anch’io il mondo dei bandi e dei finanziamenti e i vincoli e le difficoltà per far partire un’impresa. Le critiche di Luisa e Isabella vanno fatte alle aziende già consolidate, case editrici comprese, non certo a una attività di cui si stanno appena gettando le basi. Sara ha detto una cosa importante e cioè che c’è una grossa differenza tra farsi sfruttare e collaborare insieme a un progetto condiviso. Se non è giusto lasciarsi sfruttare, non mi convince neanche quella mentalità binaria e cinica del “o vengo pagato o non faccio niente”. Esistono sfumature importanti. Su questo blog vengono spesso criticati gli stage totalmente gratuiti, se la stessa Giovanna presenta invece quella di Sara come un’esperienza positiva è proprio per quella grossa differenza tra il farsi sfruttare e il darsi da fare insieme partendo da zero e, giustamente, a piccoli e ponderati passi condivisi per un progetto in grande. Del resto se Zuckerberg o Steve Jobs o Bill Gates ecc. si fossero messi a fare conti fin da subito probabilmente non avremmo facebook, Apple, Microsoft e compagnia bella (ma vale per qualunque impresa). Di fatto critiche come quelle poste qui sono le classiche critiche italiche tarpa ali, che implicitamente propongono a chi si sbatte per un progetto di non provarci neanche.

  27. @Stefano
    Per me liberissimi tutti di lavorare gratis. Ma c’è differenza. Se sei socio, investi in possibili futuri profitti di un’impresa che è tua. Se non lo sei, dipendi da un impegno dell’imprenditore a pagarti se potrà. Questa seconda cosa è diversa. Personalmente non sarei sempre contrario, anche se non so quanto sia legale, al di fuori dei casi previsti per il volontariato sociale.
    Il mio punto è che lavorare gratis ha dei risvolti negativi per il dipendente e anche per l’imprenditore, come spiegato da Isabella e Luisa. E tante volte anche da Giovanna Cosenza riguardo agli stage.
    Per questo mi chiedo se Sara abbia considerato la possibilità di fare società con chi lavora gratis con lei, ad esempio in forma di cooperativa.
    In questo caso, ripeto, cadrebbe qualsiasi possibile obiezione. E’ normale per gli imprenditori lavorare gratis, o anche in perdita, nelle fasi di avvio di un’impresa.
    (I soci sono imprenditori, ovviamente, se la società non è per finta).

  28. Chiarimento.
    Dove dico “Il mio punto è che lavorare gratis ha dei risvolti negativi per il dipendente e anche per l’imprenditore” intendo dire: “Il mio punto è che lavorare gratis ha dei risvolti negativi per il dipendente e anche per l’imprenditore che non paga il dipendente”

  29. Mi pare che i commenti stiano prendendo una strada tutta loro…
    Ad ogni modo, brava Sara, per lo spirito d’iniziativa e per il coraggio che hai nell’affrontare questa nuova avventura. Credo che ci sia una bella differenza tra lo ‘sfruttamento del volontariato’ e degli amici che hanno voglia di dare una mano e che evidentemente credono in te.
    In bocca al lupo!
    Monica

  30. Brava Sara, mi rendi orgogliosa di essere sarda!

  31. @Barbara: scusa ma, uno quando mette su un’attività valuta i costi e fa una strategia, che può essere anche quella di fare il minimo investimento per un periodo di tempo, collaborando con persone che credono nel progetto investendo il loro tempo gratuitamente, e poi trarre le conclusioni alla deadline stabilita. Se in quel periodo di tempo l’azienda parte, poi tutti i collaboratori che hanno lavorato non pagati li assumi e hanno vinto tutti, imprenditore e lavoratori. Se questa strategia mette in crisi altre realtà già presenti sul mercato dell’editoria, beh, è anche questo una regola del mercato: se c’hai una strategia che ti porta a vincere sui concorrenti ai vinto. Non credo che il crollo del mercato dell’editoria sia colpa di chi sceglie una strategia più da startup innovativa.
    Se il mercato è in crisi e nessuno cerca di innovare di certo la crisi aumenta. Seguendo il tuo ragionamento gli unici a poter aprire un’azienda sono le persone che hanno già i soldi, il che vuol dire che vengono da famiglie facoltose, quindi tu povero squattrinato rassegnati a farti sfruttare in uno stage e metti a freno le tue idee innovative, altrimenti un altro professionista rischia il lavoro. E quindi mi chiedo: tu squattrinato non sei un professionista? Non hai diritto di contribuire con idee e iniziative?
    Non mi torna molto questo ragionamento..

  32. Avanti Sara! E nel migliore dei modi ..con onestà e intelligenza, hai ragione tu
    ..da qualche parte bisogna pur cominciare ..

  33. brava Sara, non fermarti
    effeffe

  34. Ho visto il sito..è bello e siete tutte e tutti belle facce pulite e speranzose, unica cosa vorrei dirti, Sara, ( abbiamo avuto da poco esperienza di un convegno sul linguaggio tenuto da una esperta della Crusca) è molto importante per il senso del sè essere dette e chiamate al femminile (se si è donna ovviamente )quindi puoi dirti direttora che è corretto dal punto di vista grammaticale..la prof.Cecilia Robustelli non si stanca di ripetere che ciò che non viene nominato non esiste..facciamoci esistere!

  35. L’editoria classica è in crisi perché votata troppo al commercio e schizzinosa sulle novità (opinione da cliente che vede le pile dei bestseller, nulla di più, ovvio che iniziative belle ce n’è lo stesso e tante).
    Ma così facendo si annulla perché non ha capito di abdicare al suo ruolo. E se l’editore non pubblica non deve lamentarsi che l’autore si autopubblica, cioè s’arrangia, come la tecnologia gli permette. D’altronde neanche gli autori della Nouvelle Vague francesi li produceva nessuno all’inizio (mi sembra di sentirli i produttori: “è troppo radical-chic, non ha pubblico”) così si procuravano strumentazioni portatili. Non mi pubblicate? E io metto su un sito cogli e-book….

  36. Ciao Marco, purtroppo è solo in parte vero quello che dici.
    Dietro al tuo ragionamento c’è molto di più: dai librai, ai distributori passando per chi “crea la domanda”. Tutte queste cose incidono allo stesso modo sul mercato. Se poi ci si mette anche il fatto che ormai il mercato è gestito dagli editori Feltrinelli e Mondadori che hanno anche le librerie e il controllo della maggior parte della distribuzione anche nelle medie e piccole librerie si capisce lo stato dell’editoria italiana. Esistono tanti piccoli e medi editori che pubblicano libri di qualità (e senza far pagare un cents agli autori) però questi libri li trovi solo su ordinazione… perché la domanda è purtroppo è altra.

  37. Pingback: Editoria digitale: sopravvivono, in Italia, i piccoli editori? | D I S . A M B . I G U A N D O

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