Gli Italiani, la lingua inglese e il complesso d’inferiorità

Bandiera inglese

Le discussioni che nei giorni scorsi ha sollevato la petizione lanciata da Annamaria Testa #dilloinitaliano (al grido di «Ha ragione da vendere!», da un lato, e «No, è il solito atteggiamento snob degli intellettuali», dall’altro) mi inducono a condividere qualche riflessione sul rapporto che gli italiani hanno da decenni con la lingua inglese. Tanto più la amano – al punto da infarcire il discorso di prestiti e calchi dall’inglese – tanto peggio la parlano. Un problema che sembra identico a se stesso dagli anni ’50, quando Carosone cantava «Tu vuo’ fa’ l’americano… ma si nato in Italì». Un problema che mi tocca da vicino, ohimè, perché ogni giorno ho a che fare con studenti che dovrebbero – da curriculum di studi – conoscere l’inglese almeno a livello B2 (che è pur basso) e invece spesso arrivano solo a uno stentato B1. Nonostante diversi mesi di Erasmus, ebbene sì. E nonostate gli esami d’inglese superati, ancora sì.

Ogni giorno predico ai giovani che devono, devono, devono studiare l’inglese, leggere testi in inglese, ascoltare in lingua originale con sottotitoli tutto ciò che possono (film, videoclip, canzoni) per migliorare il loro inglese e aprirsi al più presto al mercato internazionale, ma ogni giorno li vedo – in maggioranza almeno – abbassare gli occhi, arrossire, balbettare cose del tipo magari prof, non ce la faccio, sono negato. Li vedo – in maggioranza almeno – invidiare i pochi che ce la fanno, quelli che si buttano e parlano, scrivono, conversano in inglese. Li vedo – in maggioranza almeno – arretrare, rinunciare. Capitolare. Se non proprio come i loro padri e le loro madri, poco meglio di loro.

Colpa della scuola – dicono alcuni – e del fatto che non si fa abbastanza inglese alle elementari, medie e superiori. E quel po’ d’inglese che si fa a scuola è insegnato male, senza motivare i bambini e i ragazzi, magari da insegnanti che a loro volta non sanno l’inglese. Colpa pure dell’università – dicono altri – che non mette abbastanza inglese nei corsi di laurea, e non ha abbastanza docenti di madrelingua inglese. Colpa delle differenze fonetiche e grammaticali fra la lingua italiana e quella inglese, che ci mettono in posizione svantaggiata ancor prima di andare a scuola, dicono altri ancora. Tutto vero, almeno in parte, anche se tutto andrebbe verificato e precisato con dati, statistiche, confronti internazionali, che al momento non ho.

Vorrei solo mettere all’indice una credenza diffusa, una mentalità dominante che vivo e osservo da sempre, da quando cioè io stessa mi cimentavo con l’apprendimento dell’inglese, un apprendimento tardivo, visto che alle medie inferiori e al liceo feci francese e cominciai a studiare inglese solo a diciotto anni (come una pazza, lo ammetto, per recuperare gli anni persi, e schiacciata dal complesso d’inferiorità, lo ammetto). È la credenza e mentalità diffusa che l’inglese doc, quello con la I maiuscola, il migliore, il più desiderabile, quello più vero del vero, sia solo ed esclusivamente il British English che si parla a Londra. Un inglese ideale con una pronuncia e una grammatica ideali che non raggiungeremo mai, mai e poi mai, rispetto alla perfezione del quale molti insegnanti d’inglese a scuola e in università – la maggioranza almeno – sono pronti a bacchettarci, perché qualunque nostra fonazione e frase non è come dovrebbe, non è perfetta, non come si parla nella City. Ricorderò sempre il sopracciglio alzato che quel certo insegnante del British Council – bravissimo, per carità – riservava a qualunque nostra fonazione, poveri italiani che ci provavamo inutilmente. Osservo tutti i giorni la faccia schifata che certi madrelingua British fanno quando parlano – nel loro tipico accento deforme, anche se sono in Italia da trent’anni – degli iccialiani-che-non-sanno-pooorlare-ingleise.

E allora vale la pena ricordarlo, ribadirlo, gridarlo, a tutti gli italiani e le italiane che ogni giorno tentano di adeguarsi a un British English astratto che non raggiungeranno mai: l’inglese che si parla nel mondo non ha niente a che fare con quello delle élite londinesi. È un inglese sporco, bastardo, pieno di frasi sgrammaticate ed errori ricorrenti, colorato dagli accenti più stracciati e misti: spagnolo (forse il più diffuso, con mille varianti), indiano (con tutte le varianti degli stati indiani), arabo (con mille varianti a sua volta), italiano, tedesco, russo, e chi più ne ha più ne metta. È così che si parla nelle metropoli statunitensi e nelle multinazionali di tutto il mondo in cui convivono europei, indiani, cinesi, pakistani, messicani, canadesi, americani provenienti dai quattro angoli degli Stati Uniti, ognuno con accenti ed errori diversi. In questo quadro, il British English può essere considerato, diciamolo pure senza offesa, una variante dialettale (uh, cosa ho detto!) fra le migliaia che ci sono. Con lo svantaggio, però, di essere parlata solo in un angolino piccolissimo del pianeta, mentre i mille Spanish English, tanto per dire, sono parlati nell’area geografica vastissima delle due Americhe.

Perciò, care studentesse e cari studenti d’inglese italiani, gettate via i complessi di inferiorità, andate nel mondo con il vostro sporchissimo Italian English e fregatevene della perfezione: parlate, fatevi capire, integrate con gesti le parole che non trovate o non riuscite a dire bene. Un po’ alla volta il vostro inglese migliorerà, e funzionerà anche se resterà sempre imperfetto, bacato, pieno d’errori, e anche se il vostro accento sarà sempre riconoscibile come tipicamente italiano. Ma vivrete, parlerete e lavorerete nel mondo, vivaddio. Non in un angolino piccolissimo del pianeta, come l’Italia o il Regno Unito.

44 risposte a “Gli Italiani, la lingua inglese e il complesso d’inferiorità

  1. you are right, my dear! (giusto? :-))

  2. L’ha ribloggato su alexurbee ha commentato:
    Amen

  3. La veritá é che nemmeno i britannici parlano il British English. Quel tipo d’inglese lo senti solo al telegiornale della BBC!

  4. Oddio è verissimo! Io mi riconosco in pieno in questo complesso di inferiorità! Questo post mi solleva molto… Aggiungo che spesso i più feroci nel riprendere l’italiano che sbaglia pronuncia o pronuncia all’italiana sono gli italiani stessi (quelli convinti di sapere l’inglese della City): quelli non perdonano e ti fanno sentire uno schifo anche se hai trovato il coraggio di provarci!

  5. Concordo in tutto e per tutto
    Aggiungo solo che se si ha un minimo interesse in musica, cinema, tv o letteratura ormai c’è la possibilità di solidificare le proprie basi attraverso mezzi di intrattenimento, gratificanti e low cost (ad esempio seguendo degli youtubers stranieri, etc). E’ vero che la cosa più importante alla fine è PARLARE, e non leggere o ascoltare, ma essere sicuri del proprio vocabolario aiuta.

  6. Concordo.
    Mi sono trasferita 7 mesi fa a Londra, parlavo già un inglese buono grazie a un formidabile professore di inglese delle superiori, ma di certo la mia pronuncia non era vicina a quella di un madrelingua.
    Tuttavia qui a Londra gli inglesi sono abituati a sentire l’inglese parlato da persone di tutto il mondo, non è necessario essere perfetti.
    Alcune nazionalità hanno accenti molto più forti del nostro (ad esempio, molti indiani, che pure vengono da una ex colonia inglese…).
    Questo non vuol dire che non si possa e non si debba impegnarci per migliorare sia nella pronuncia che – soprattutto – nella grammatica. È importantissimo. Così come è necessario avere un buon livello di inglese quando si arriva qui: la città è costosa e competitiva, se non siete in grado di lavorare con l’inglese vi troverete presto costretti a tornare a casa.

    Detto questo, l’Italia è uno dei fanalini di coda per lo studio dell’inglese in Europa: http://en.wikipedia.org/wiki/English_language_in_Europe

    Penso sempre che parte della colpa sia del doppiaggio di film e programmi televisivi. Sarebbe un’importante occasione per gli italiani consumare prodotti culturali nella loro lingua originale: non solo per “fare l’orecchio” alla lingua, ma anche per imparare una lingua viva, parlata oggi – non quella ottocentesca di Dickens (che poi quando la parlate gli inglesi si mettono a sorridere – provare per credere….).
    Inoltre l’uso della voce è una delle componenti principali nel lavoro di un attore: trovo assurdo perdercela (cercate su Youtube la miriade di accenti inglesi che Meryl Streep è in grado di fare per scoprire cosa vi siete persi finora).

    Insomma, mettetevi sotto con l’inglese. Guardate le vostre serie preferite in lingua originale. Ascoltate audiolibri mentre andate a scuola o a lavoro. Usate uno dei tanti siti online che permettono di fare scambio linguistico con madrelingua per fare pratica. Traducetevi i testi delle vostre canzoni preferite. Leggetevi il libro in inglese di Harry Potter se vi è piaciuta la saga.
    Modi ce ne sono tantissimi, e posso dirvi che ce la farete 🙂

  7. Mitica. Grazie. Un mese all’estero e mio figlio di 16 anni che conosce l’inglese meglio di me non ha aperto letteralmente bocca per paura di fare figuracce…

  8. I totally agree

  9. Concordo su tutto. Rispetto ad altri, però, penso che la scuola abbia grandi responsabilità. Cioè non credo sia colpa dei film doppiati, per esempio. Oggi praticamente ogni DVD ha la doppia lingua e in Rete si trovano tanti testi, video e audio in inglese (americano, british, spanish, eccetera) che si ha solo l’imbarazzo della scelta.

    Sono totalmente assenti, invece, i mentori, gli insegnanti, gli investimenti. E quando ci sono, spesso, vanno in direzioni sbagliate – come dici tu Giovanna – nel tentativo di insegnare un inglese che parla solo la Regina Elisabetta. La conseguenza è che io, molto probabilmente, so molte più parole ed espressioni di mio padre, ma lui riesce a capire e farsi capire in una discussione, io non riesco nemmeno ad aprire bocca e, quando va bene, capisco la metà di quello che mi dicono.

    Ricordo ancora lo stupore della nostra compagna di classe che era stata un anno in una famiglia americana, aveva fatto la scuola lì e l’inglese lo sapeva bene già prima di partire. A lei 7. Al calabro-inglese del nostro collega 8. (Senza nulla togliere al nostro collega calabrese, ma la differenza era evidente a tutti.) Motivo: non era (formalmente) british english, ma americano.

  10. Condivido quelle che mi sembrano, se così si può dire, le “buone intenzioni” dell’articolo, come condivido ogni ponderata riflessione sul rapporto di noi italiani con la lingua inglese. Della petizione “Dillo in italiano” sono un “militante convinto”, e fra i vari motivi ha un posto rilevante la percezione che l’infarcire l’italiano di parole inglesi “rivedute e storpiate” sia di solito inversamente proporzionale alla effettiva conoscenza dell’inglese, e questo, francamente, mi sembra il peggiore degli approcci o, se vogliamo, il più inquietante e pericoloso dei complessi, e il metterlo in evidenza non è certo sinonimo di snobismo intellettuale. La “pars destruens” dell’articolo è una descrizione realistica dello “spreco delle risorse” dedicate all’apprendimento, che si vorrebbe diffuso, di una lingua che poi in pochi si ritrovano ad avere appreso per davvero, senza nascondere, spesso, la frustrazione che ne deriva. E questo mi sembra il cuore del problema. Per quanto riguarda la “pars construens”, con il suo invito a buttarci comunque con il nostro inglese quale che sia, non riesco a nascondere qualche perplessità: vero che il “puro inglese” ormai non esiste più di fatto neppure fra i madrelingua, ma questo non implica che ormai dell’inglese ci si possa “liberamente appropriare”. Ogni lingua o pseudo lingua che aiuta a comunicare a livello internazionale è sempre utile, e in questo senso può andare bene l’inglese “multinazionale”, ma l’inglese si deve parlare anche e soprattutto con quei britannici e quegli americani, che, pur lontani anni luce da ogni complesso di superiorità e da ogni “purezza” , non potranno non notare i nostri errori fonetici e gramamticali e spesso rischieranno di non capirci e di non essere capiti. Senza considerare il fatto che il trapiantare liberamente in una lingua le molteplici sfumature dei parlanti stranieri rischia di rendere poi mutualmente incomprensibile la lingua. Credo insomma che il “buttarsi” con il nostro inglese imperfetto sia un ottimo trampolino, se però poi si prende coscienza che, con un impegno serio, dovremo almeno cercare di avvicinarci il più possibile , o apparire il meno lontani possibile, da quelli che si chiamano “standard british” e “standard american”. E forse possiamo anche farcela, senza complessi

  11. secondo me un po’ di complesso aiuta ad impegnarsi di più nell’apprendimento 🙂

  12. Anche a me piace molto l’inglese ma nel mio lavoro da schiava non è richiesto. Non avendolo potuto studiare nella nostra arretratissima scuola italiana, l’ho studiato da autodidatta e tramite tre corsi ma oltre il primo livello non sono mai riuscita ad arrivare ed ora non lo “pratico” più.

  13. I agree with your summary of the deplorable way English is taught in the schools and the rather natural dislike and fear of speaking English Italian students have. I do not agree that we English sneer at the Italian’s try and speak our language. Most English find a foreign accent rather fetching and we aren’t like the French who won’t even pretend to understand what you are saying in their language. I fear you have had some unfortunate experiences with British council teachers…..we aren’t all like that!

  14. Concordo pienamente con l’articolo e anzi grazie per aver tirato fuori l’argomento. Ho vissuto, lavorato e studiato all’estero (Londra e dintorni) e confermo che anche a Londra l’inglese non è sempre “l’inglese doc”. Da insegnante di lingue (soprattutto inglese e italiano), vorrei precisare un paio di cose. Una che i madrelingua non sono i sacri (unici e soli) depositari dell’insegnamento della lingua inglese. Ci sono madrelingua preparati e madrelingua che non sanno un accidenti ma insegnano ugualmente in qualità del loro essere madrelingua. Poi di pari passo con questo aspetto c’è il metodo che le scuole di lingua private (piene di madrelingua, ovvio) di solito utilizzano, ossia un metodo volto all’uso esclusivo della lingua inglese (anche perché in molti casi l’italiano non lo conoscono e non intendono studiarlo) che è un metodo ottimo per chi ha già una base (poi vabbè anche qui si dovrebbe distinguere caso per caso) ma non ideale per chi è all’inizio, che spesso necessita di essere accompagnato gradualmente verso la full immersion. Questo secondo aspetto a mio avviso contribuisce non poco al complesso di inferiorità di cui si parla nell’articolo.

  15. Non condivido il fatto che il B2 sia un livello basso, se lo si guarda dal punto di vista di un esame tipicamente British, come il First Certificate of English: è un esame veramente tosto (e che forse sotto certi punti di vista non ha senso). E non condivido nemmeno il fatto che gli studenti italiani siano così negati, anzi, negli ultimi anni ho notato un netto miglioramento, per lo meno tra i miei studenti. Detto questo, concordo sul fatto che bisogna parlarlo questo inglese, senza avere paura di sbagliare, e che l’inglese perfetto lo parlano veramente in un angolino del pianeta…

  16. Dopo più di un anno in UK confermo , ogni tanto fanno facce che voi umani… Ma alla fine fanno errori pure loro e stanno in continuazione a chiedere di ripetere pure tra loro perché se ti sposti di 2 km da una città all’altra l’accento cambia!!!! Per gli scozzesi servirebbe un post apposito…

  17. Carissima Professoressa, questo articolo mi è piaciuto molto (come altri del resto) e vorrei poter dire che concordo in tutto e per tutto ma la sua conclusione mi lascia un po’ perplessa. Sì, è vero, imparare una lingua straniera, specialmente l’inglese, il più delle volte significa buttarsi, lasciare da parte la vergogna, provare, sperimentare, e discorsi che per lo più intervallano un “oh man” o un “ehi mate” a una frase corta, ma di senso compiuto, saranno all’ordine del giorno. Si imparano i phrasal verbs più importanti, si capisce come utilizzarli, si fa proprio l’uso del verbo “get” e la maggior parte delle volte ce la si cava, e anche benone. Però, perché fermarsi qui? Perché fermarsi a quello “sporchissimo Italian English” fregandocene della perfezione? Se c’è una cosa che io amo del nostro popolo, come di molti altri del resto, è che abbiamo (in un certo senso) l’umiltà di imparare le lingue perché sappiamo (ahinoi) che con l’italiano andiamo poco lontano. Allora, perché non partire da questo presupposto, cominciare con un inglese un po’ “imbastardito” e poi cercare di raggiungere livelli di finezza e, volendo, perfezione, grazie a corsi di lingua adeguati o esperienze di lavoro all’estero? Insomma, perché fermarsi ad un inglese un po’ “bacato” ma che comunque ci possa far lavorare all’estero? Io dico invece, partiamo da questa nostra mancanza, sfruttiamo la debolezza dell’italiano per essere migliori dei tanti madrelingua inglesi in giro per il mondo, impariamo le lingue ma facciamolo bene e non solo per poter avere qualche speranza in più nel mondo del lavoro, “vivaddio”.

  18. L’insegnante del British Council dell’epoca forse non avrebbe previsto che per gli esami del Cambridge il ‘listening’ avrebbe richiesto, come oggi accade, la comprensione degli accenti Spanish, Indian ecc. Faccio presente però che la variante Italian English non si diffonde proprio perché… gli Italiani parlano poco inglese. E fermo restando che in Inglese i suoni non si possono sporcare più di tanto perché la fonetica è grammatica.

  19. Sottoscrivo il commento di Vittorio Cucchi. Concordo sul fatto che il modello del British English come unico e sommo riferimento sia abbastanza superato ormai (e lo era già da tempo, a dire il vero). Da docente universitaria di lingua e di traduzione, almeno una volta a settimana mi trovo a ripetere agli studenti che una volta si dava per corretta solo la tale o la tal altra forma British, mentre adesso le cose stanno cambiando a vista d’occhio; utilizzo testi e materiali audio e video equamente distribuiti fra inglese britannico e inglese americano, con qualche excursus sulle altre varietà quando possibile e funzionale all’apprendimento, e sicuramente sostengo l’abbattimento dei complessi di inferiorità, anche perché le competenze comunicative si estendono al di là del solo livello linguistico, soprattutto nelle conversazioni dal vivo, in cui si possono usare i gesti e chiedere spiegazioni. Parallelamente però, soprattutto in Italia, il “buttarsi” riflette anche la tendenza a considerare l’inglese una lingua in cui ci si riesce ad esprimere comunque perché qualcosina filtra sempre. Lanciarsi è fondamentale per prendere coraggio e confidenza con un’altra lingue, ma nel caso dell’inglese si fa anche spesso l’errore di pensare che basti qualche lezione perché tanto si recuperano in fretta le basi costruite magari dieci o vent’anni prima. L’errore più comune è proprio non metterci abbastanza impegno, cosa che non si farebbe con un’altra lingua considerata meno accessibile (anche solo il tedesco, senza andare a scomodare lingue con alfabeti e strutture completamente diversi). L’inglese sporco e imperfetto può andare benissimo in tanti casi, ma non deve diventare una giustificazione per diminuire l’impegno nello studio, e francamente nel quotidiano vedo questo atteggiamento almeno altrettanto spesso dei complessi di inferiorità. L’apprendimento dell’inglese, così come quello di ogni altra lingua, richiede innanzitutto una grande costanza, cosa che invece spesso viene meno perché “basta farsi capire”. In certi contesti è vero, in altri si perde credibilità (non solo in casi macroscopici come Expo, intendo anche nella vita delle singole persone).

  20. Bel post, molto condivisibile.
    Segnalo a questo proposito, il bell’articolo di Frederika Randall, giornalista statunitense, pubblicato sull’Internazionale e intitolat’Maccheronico di stato’:
    http://www.internazionale.it/opinione/frederika-randall/2015/02/26/maccheronico-di-stato
    È un elogio all’arte dell’improvvisazione (to wing it in inglese), un’arte molto apprezzata all’estero, dice la Randall citando l’esempio del nostro presidente del Consiglio.
    Quello di Renzi è un inglese “maccheronico simpatico” come quello di Benigni e per questo è abbastanza efficace, al contrario di quello di Letta o di Monti, che parlano un inglese certamente più corretto ma con un tono burocratico che non attira la simpatia.

  21. Articolo da segnare e da mostrare per controbattere per future critiche 🙂
    Io amo l’inglese. Lo amo proprio, come lingua, amo come suona, amo i suoi termini. Lo parlo? Sì, abbastanza. Con un accento orribile che non mi ha mai impedito di farmi capire. L’ho imparato a scuola? No, purtroppo no. Sono stata fortunata alle medie, dove tre anni con una professoressa molto preparata mi hanno dato ottime basi grammaticali, ma l’insegnamento al liceo è stato frammentato in troppe insegnanti diverse. E allora? Sono superintelligente? No, per niente – però a quindici anni mi sono stufata della gente che mi faceva terrorismo, che mi diceva che non sapere l’inglese mi avrebbe bloccato ogni strada. Ho radunato i dvd che avevo in casa e ho cominciato a vederli in lingua originale con sottotitoli. Poi sono andata in libreria e mi sono comprata un romanzo in lingua inglese. Ci ho messo un mesetto a leggerlo, con sotto il dizionario, perché capivo giusto gli articoli e qualche parola e verbo.
    Risultato? A sette anni di distanza metà dei romanzi che possiedo sono in lingua inglese, scarico le serie tv e le interviste senza quasi mai bisogno dei sottotitoli, e se incrocio un turista in vacanza so dargli le informazioni necessarie. Magari mi sbraccio un po’ e uso giri di parole improbabili quando non conosco un termine specifico, ma vi assicuro che mi faccio capire. E della pronuncia non è mai importato nulla a nessuno.

  22. Di certo c’è del vero in ciò che scrivi, ma il motivo principale a parer mio è che in questo paese non si investe nello studio delle lingue. Nelle scuole primarie e secondarie spesso mancano le attrezzature (cioè manca uno stereo decente dove ascoltare i cd abbinati ai libri…). All’università si vede una costante riduzione dei fondi per i lettorati con conseguente riduzione delle ore (sì, anche nelle facoltà di Lingue – ah pardon, “Scuole”, “Corsi di Studio”). I docenti universitari spesso insegnano in italiano, chi insegna in inglese lo fa solo per sua volontà, senza alcuna assistenza o incentivo. Per quanto sia io la prima a pensare che insegnare in italiano sia importante (io insegno in inglese perché insegno Linguistica Inglese, quindi è un’altra storia), questo fatto ci taglia fuori dagli scambi Erasmus perché gli stranieri non italofoni non saprebbero che fare qui per 5 o 9 mesi… e di conseguenza possiamo mandare pochi italiani in Erasmus e riceviamo pochissimi studenti qui. Eppure i miei studenti Erasmus tornati dalla Polonia erano molto soddisfatti dell’assenza di difficoltà linguistica “perché tutti parlano inglese”. Comunque questa storia del “British è meglio” di solito viene inculcata dagli insegnanti italiani incompetenti e coi complessi di inferiorità più che dagli inglesi, insieme al mito tanto gonfiato quanto discutibile del “madrelingua”.

  23. L’Italia è uno dei pochi paesi Europei a non essere bilingue. Basti andare in qualunque paese più a nord (ma non solo! Anche a Cipro e altri paesi del Mediterraneo) e nella tv nazionale è normale che i tg e i film siano in Inglese. È scientificamente provato che conoscere più di una lingua aumenti le capacità mentali e l’elasticità del ragionamento, e non capisco perché ci ostiniamo in questo nazionalismo linguistico, che a mio parere, in un contesto cosmopolita, è un passo indietro. Ovviamente sono d’accordo che l’italiano vada studiato bene, anzi benissimo, e non sostituito con l’Inglese. Però non mi sembra che i Tedeschi e gli Olandesi abbiano tutti questi complessi, una lingua non esclude l’altra. Più che una campagna #dilloinitaliano io avrei proposto #imparati un’altra lingua, che male non ti fa!

  24. Bimbi belli, la spiegazione è semplice: il Piano Marshall obbligò l’Italia (ex fascista) al doppiaggio, pure finanziandolo direttamente, con lo scopo esplicito di una colonizzazione culturale. Lo sviluppo dell’industria del doppiaggio, a differenza dei Paesi centro-nordici europei, è la vera responsabile del nostro mancato bilinguismo. In tutti i Paesi in cui la lingua inglese è parlata sufficientemente bene hanno la caratteristica dei film sottototitolati MA non doppiati.
    L’argomento per cui in Italia oggi molti film hanno il bilinguismo è ingenuo perché è scontato che avendo facoltà di scelta una persona tenda a scegliere la lingua indigena, non fosse altro per pigrizia.
    Da qui il mancato sviluppo del listening che è il principale fattore di tutti i processi di apprendimento efficiente.
    Il ruolo dei docenti non può far molto in ogni caso e funziona come perfezionamento successivo ma non ha e non avrebbe mai le ore necessarie per raggiungere un vero risultato da B2. Detto in altri termini: non è con la scuola che si addestra o si addestrerà l’inglese parlato.

  25. Mah, parliamone….. Se per italian english si intende: “Carro armato” al posto di “grazie”, “Seguo una maledizione di informatica” invece di “seguo un corso di informatica”, o ancora “questo è veramente una vagina!” invece di “questo è veramente divertente” beh…. Un poco di complesso di inferiorità potremmo pure tenercelo. Che poi non non è neanche questione di inferiorità, è che molto spesso, semplicemente, gli insegnanti di inglese non sanno l’inglese. O almeno non sanno pronunciarlo correttamente. Vuoi perché non gli interessa, vuoi perché la loro prima lingua in università era spagnolo, francese, tedesco, cinese o giapponese e sono finiti a insegnare inglese perché altro non c’era. Chiaro che se alle elementari si hanno insegnanti di inglese che pronunciano “uenaday, uan, ciù, triii”, sta gente poi cresce insicura sulle loro capacità di espressione. Non che sia colpa degli insegnanti, sia chiaro, non solo almeno, è anche colpa dell’abitudine di fare studiare l’inglese in modo sbagliato (es: i verbi irregolari in ordine alfabetico, che è il modo migliore per far odiare un argomento già noioso di suo).
    L’altro giorno stavo facendo lezione di italiano e i miei allievi tedeschi mi riferivano che una loro amica italiana, quando ha provato a parlare inglese, non si sono accorti che stava effettivamente parlando inglese, ma suonava come un italiano storpiato, quindi ecco non che quello che sia scritto qui sia sbagliato, solo incoraggiare tutti a fregarsene della pronuncia (parte fondamentale per una lingua) e andare allo sbaraglio per poi essere presi in giro beh… Magari pensiamoci. E dico la stessa cosa agli inglesi che “parlano italiano” con una pronuncia terrificante, le lingue bisognerebbe almeno avere un’idea di come parlarle senza sembrare ridicoli. Tutto qui.

  26. la maggior parte degli italiani, dallo studente al dirigente d’azienda, non ne capisce il motivo, o il valore. abbiamo, tendenzialmente, una mentalità molto retrograda. c’è poco da dire.
    eppure l’inglese di base è molto semplice, bastano una manciata di regole grammaticali per apprendere quanto basta per muoversi adeguatamente in un contesto internazionale (e chi ancora non ha capito che, nel 2015, tutto il mondo ti guarda deve svegliarsi)

    piccola nota a margine:

    io, da auto-didatta, sono quasi perfettamente bilingue. parlo, leggo e scrivo in inglese esattamente come lo faccio in italiano. in grado di sostenere una conversazione sul pil in Nigeria con un professore del Minnesota o una conversazione di calcio con un tifoso del Liverpool senza distinzione, MA se fossi rimasto ancorato a studi accademici e scolastici in Italia, invece che mettermi sotto per conto mio a viaggiare e tradurre e leggere, saprei a
    malapena dire il mio nome

    colgo l’occasione per pubblicizzare il mio prossimo libro, scritto appunto in lingua inglese, che esce il 7 marzo e sarà disponibile anche su amazon ❤ 🙂

    http://novelragno.nl

  27. Totalmente d’accordo: l’inglese che si parla nel mondo è tutt’altro da quello “british”. Pieno di strafalcioni e variazioni rispetto ad una ideale grammatica. Esistono libri divertentissimi a riguardo. Bisognerebbe osare sempre, buttarsi e tentare di farsi capire. La cosa buffa è che proprio gli anglofoni, nella mia esperienza, essendo privilegiati nel parlare una lingua che è centrale in molti ambiti, sono singolarmente meno dotati nell’apprendimento di altri linguaggi.
    Credo che il sistema migliore per imparare qualsiasi lingua sia “innamorarsene”, capire i legami, la storia e la cultura che c’è dietro. E soprattutto la fantastica possibilità di comunicazione che offre. Io sono perdutamente e costantemente innamorata 🙂

  28. Da docente sammarinese di cinema e media in una universita’ americana non posso che concordare: l’inglese che si parla nelle metropoli statunitensi e’ un inglese meticcio, flessibile, continuamente in evoluzione. Certo, piu’ si fa pratica e piu’ si evitano comuni errori grammaticali, si diventa “fluent”, si migliora la pronuncia. Se si vuole lavorare con l’inglese, soprattutto a livello accademico, bisogna saperlo bene. Ma per mia esperienza personale io l’ho imparato “sul campo”, un metodo che ha un forte impatto ma che da’ i migliori risultati. E impararlo sul campo vuol dire buttarsi, non avere paura di sbagliare, che tanto sbagli comunque e poi piano piano migliori. L’importante e’ tenere a mente che devi e vuoi comunicare e vuoi farlo nel modo piu’ efficiente possibile.

  29. letteraturadiviaggio

    L’ha ribloggato su Letteratura di viaggioe ha commentato:
    Articolo meritevole

  30. Bisogna però detestare un altro tipo di Italian English, non l’ Inglese il più possibile vicino ad un modello effettivamente parlato in paesi di lingua inglese, fosse anche popolare o idiomatico, ma quella robaccia che è l’ Italiano Inglese, una cosa fatta di parole inglesi con qualche particella grammaticale italiana, usata per darsi una patina di modernità ma in realtà dando un significato diverso e più volte esoterico alle parole inglesi rispetto a quello (o quelli) comuni nei paesi anglofoni. Non si tratta di veri prestiti perché non si sono ambientati, non sono stati adattati se non malissimo e sono di tre giorni fa per fare moda. Un conto è compilare (nel senso informatico un calco dall’n inglese) o cliccare (idem) , un altro goal e il forse superfluo manager, ma io mi riferisco a “box” per autorimessa/garage o “badge” per cartellino identificativo (badge in inglese è tutto, anche la medaglia) oppure a cose importate grezze perché fa tendenza (altro calco brutto): “lipstick” per rossetto o “bag” per borsa. Altro caso che detesto è l’ uso dell’ equivalente inglese da parte di giornalisti un po’ sbrigativi come sinonimo, per non ripetersi (in frasi tipo “La squadra ha vinto la partita….il presidente si è complimentato col team”).

  31. Per chi segue i manga, l’ Italiano Inglese è un po’ come l’ uso di parole inglesi malamente traslitterate per rendere fighi i nomi o i concetti in opere di fantascienza animata o di fantasy. Lì è giustificato dalla voglia di esotico (che i giapponesi estendono anche ad un improbabile italiano). Un personaggio di Tutor Hitman Reborn (un nome che è già un programma) arriva ad usare una mossa come “Elettrico Cornata” mentre Evangelion è infarcito di Dog’s English, a partire dai Children, i piloti, il cui nome (che non è un cognome) è Children anche al singolare. E lo spagnolo completamente stravolto per indicare termini tecnici dell’ ambientazione in Bleach?

  32. Per tacere di chi usa “badge” pronunciandolo come il colore beige, invece che /bædʒ/ (più o meno “badg”), così come il grande classico “stage” pronunciato “steig” (inesistente in quel senso in inglese). Posto che in Italia è quasi d’obbligo pronunciarli così, altrimenti nessuno capisce, trovo doppiamente aberrante utilizzare anglicismi pronunciati in un modo che non ha più alcun legame con il termine originario (quando poi esistono traducenti italiani d’uso comune e comprensibilissimi).

  33. Molto d’accordo. Però i bravi insegnanti di inglese ti dicono sempre che questo è UK e questo è US … come minimo 🙂

  34. Non sono d’accordo con diversi punti del post. Non trovo che il problema sia l’insistenza sul British English (anzi lo trovo un po’ assurdo, il British è difficile quanto qualsiasi altra varietà) o che il problema sia solo il metodo di studio impiegato nelle scuole italiane. Certo, in broken English puoi comunicare, è un punto di partenza, ma comunque ti serve a poco se devi scrivere un testo.

    Io trovo piuttosto da parte di moltissimi italiani un completo disinteresse nei confronti della lingua, una sensazione di sconfitta ancor prima di cimentarsi, un limitarsi al ‘compitino’ degli esercizi sul libro di testo, una pigrizia mentale in definitiva. La stessa che porta a dire – quante volte ho sentito questa frase – “per imparare l’inglese dovrei andare a vivere in Inghilterra (o a New York o dove volete voi) per qualche mese, allora sì che imparerei”. Come dire che lo studio è inutile e che tanto si è sconfitti in partenza. Questa pigrizia che avverto è quasi culturale.
    E’ la stessa che porta a preferire i film sottotitolati, a gesticolare quando si va all’estero piuttosto che a provare a impiegare quel po’ di inglese che si sa, al ritenersi, lo ripeto, sconfitti in partenza.
    Per imparare una lingua non basta studiare, la lingua va coltivata con un pochino di passione, bisogna leggere libri in inglese (importantissimo), guardare film in inglese. Sono gli stessi meccanismi della memoria che dicono che una lingua si impara soprattutto così, quando la leghiamo a immagini, storie, narrazioni. Si impara quando la mettiamo in pratica, sì anche andando nel Paese straniero (ma quanti fallimenti ho sentito di chi ha finito per parlare solo italiano con gli italiani).
    E invece si guardano pochi film in inglese e si legge ancor meno, pochissimo e si evita di parlare.

    Gli stessi che poi fanno lavori di traduzione e che quindi presumono di sapere la lingua evidentemente non leggono in inglese, lo praticano poco. Altrimenti non commetterebbero errori con i ‘falsi amici’, che continuo a trovare non solo nei sottotitoli in italiano e nei dialoghi tradotti di film e serie televisive (e che evidentemente vengono pagati poco e affidati a traduttori un po’ scarsi), ma anche in romanzi di grandi autori pubblicati da grandi editori. Manca l’interesse e manca la passione, evidentemente. Manca una cultura delle lingue straniere.

  35. Pingback: L'insegnamento universitario deve essere in italiano o in inglese? [EN]

  36. Grazie mille Giovanna!

  37. Il mio inglese approssimato della ragioneria di parecchi (tanti ormai) anni fa mi portò’ a conoscere mia moglie. Era un inglese bacato, rimandato a settembre più di una volta, pieno di strafalcioni ed imbarazzati fraintendimenti. Il tempo vola ed è un bel po’ di anni che vivo in Canada, lei è di qui, ed ormai tra università e lavoro sono completamente bilingue, ed orgogliosamente senza accento straniero. Qui in Canada è un continuo sottolineare le differenze, sia nello scritto che nel parlato, tra l’inglese del Regno Unito che comanda a scuola e l’americano di internet e della televisione (i canadesi non parlano americano e te lo dicono chiaro “loro scrivono così, noi scriviamo in questo modo”). Purtroppo la realtà è che non si può imparare completamente una lingua se non la si vive, non si può amare una cultura se non si prova a farne parte per un poco. Perché una lingua non sono solo le regole grammaticali (o piuttosto eccezioni alle regole per l’inglese) ma le sfumature apportate dagli innumerevoli accenti degli immigranti, dalle variazioni regionali che possono arrivare a rendere la lingua incomprensibile e gli usatissimi modi di dire che sfidano ogni traduzione sensata.
    Non credo siano solo gli studenti o chi cerca di imparare per conto suo a dover provare ad esprimersi in inglese quando possibile, la padronanza della lingua dopotutto la si può avere solo usandola, ma farebbe bene anche a parecchi insegnanti che di uso pratico della lingua ne fanno un bel poco eppure si trovano in classe a spignolare sulla pronuncia di una “s”. Ed usare una lingua non significa per forza trasferirsi, di sicuro se si vive all’estero o si impara a nuotare o si annega, ma anche in Italia con i turisti, in internet oppure in vacanza è pieno di occasioni. E se non si parlerà perfettamente l’inglese per lo meno si può sperare di finire col capirlo abbastanza da frenare la figuraccia da Nando Mericoni (il grande Alberto Sordi) da parte di chi spolvera termini inglesi, sbagliati e mal pronunciati, qui e lì in una conversazione in italiano giusto per dimostrare di essere al passo coi tempi.

    E se si volesse vedere un espressione completamente disgustata (spesso seguita da un severo rimprovero) dei madrelingua davanti ai tentativi di esprimersi da parte di uno straniero provate ad imparare il giapponese in Giappone. Dopo quell’esperienza nessun’altra lingua vi farà paura.

  38. Io invece vado controcorrente: NON VOGLIO imparare l’inglese. Non mi importa della sua utilità, non mi importa se all’estero non mi capiranno (che poi… per farvi un esempio nel mio primo viaggio all’estero ho girato Atene da solo, basandomi su quella manciata di termini inglesi che a forza di vedere un po’ ovunque ho assimilato e su un percorso attentamente pianificato in anticipo con cartine/consigli di amici che ci erano già stati/guide ai luoghi da visitare e non solo non ho praticamente dovuto parlare inglese, ma non ho incontrato alcun tipo di difficoltà nel muovermi), a me importa soltanto della MIA lingua, che trovo bellissima e messa fin troppo in pericolo da questo finto multiculturalismo che ci impone di parlare tutti un’unica lingua… quella del vincitore di una guerra.
    Nel lavoro avrò difficoltà e/o non farò mai carriera? Non sono mai stato un tipo ambizioso, pazienza.
    E se dovessi emigrare, che so, in Australia o negli USA? Troverò lavori dove la lingua inglese non è fondamentale, pazienza se sono lavori “umili”.
    Mi perderò tantissime occasioni di fare incontri, amicizie, blablabla? Mi accontento di ciò che mi può dare l’Italia, che finora (almeno dal punto di vista umano) non mi ha mai deluso.
    Non potrò comunicare con chi non parla italiano? E da quando comunicare è un obbligo?
    Sono pigro? Forse, ma non mi importa.
    Preferisco ritenermi una persona fuori dagli schemi, uno che non si piega a ciò che gli viene imposto dall’alto. Una magnifica specie rara, in via di estinzione. E fiero di esserlo.

    Ritengo che le lingue siano qualcosa da imparare “perché lo si vuole fare”, non per obbligo.
    E per ciò che riguarda il futuro mi terrorizza molto di più vedere l’italiano medio che massacra sempre più la propria lingua (congiuntivo, questo sconosciuto…) che l’italiano medio che ha difficoltà nell’apprendere una lingua estera, sinceramente.

    Scusate il papiro.

  39. Ecco Castagna, appunto, pensa se parlavamo ancora egiziano…

  40. Io non mi riconosco in questo articolo, sono molto portata per lo studio delle lingue straniere. L’inglese a scuola l’ho studiato solo per 4 anni: durante le scuole medie ed il primo anno di liceo (a partire dal secondo anno, le lingue straniere nel mio liceo-che non avevo scelto ma mi era stato imposto dai miei genitori-non erano più materia di studio). La mia insegnante di inglese delle medie era superficiale e non le interessava insegnare bene questa materia. Ho cominciato a studiare l’inglese da autodidatta, da sempre ascolto e canto canzoni in inglese, guardo film in lingua originale con i sottotitoli in italiano ed inglese, il risultato è che nonostante io non abbia vissuto un solo giorno in un paese anglofono, sono in grado di guardare un video di Youtube e capire quello che dicono americani e britannici (anche se con questi ultimi faccio più fatica…mentre capisco perfettamente la Received Pronunciation, incontro difficoltà con gli accenti locali). Io sono un’italiana che ce l’ha fatta.

  41. Ottima analisi. Comunque da una parte hai avuto la fortuna di non aver studiato inglese a scuola. Ho 37 anni e ho scoperto che mi piace studiare inglese (sto facendo un bel corso aziendale), così come mi piace leggere o conoscere la storia. A scuola no, non che andassi male, ma studiavo solo per il voto. L’inglese era demotivante, in quale anno è nato Coleridge? Quali sono le sue opere? Parlami della ballata dell’antico marinaio. Per carità, sono nozioni utili…ma il mondo è sapere il significato di “Tube”, “Mind the gap” ecc ecc…

    Ps in 5 anni di liceo 5 prof diversi, ce ne fosse stato uno in grado di insegnarci un suono.

  42. Facciamo i salti mortali per una lingua, l’inglese, che è una sorta di papiamento caotico, una non-lingua.

    Una lingua con una fonetica inesistente o arbitraria, dove non esiste divisione in sillabe, grammaticalmente formata in maniera simile alle lingue bantù, con costrutti insensati (il do perifrastico)…

    Una non-lingua; non a caso quando si insegna, si dice spesso, di fronte all’incomprensibilità di una parola o di una frase “dipende dal contesto”. Ma una lingua dove così tanto “dipende dal conteso” non è una lingua.
    Basta vedere che i testi delle canzoni hanno spesso 2 o 3 versioni diverse in quanto molte frasi sono interpretabili, dai madrelingua stessi, in modi diversi.

    Una non-lingua, un papiamento caotico impostosi con la forza (anche se c’è ancora qualcuno che afferma “l’inglese è stato scelto perchè”… scelto?!?).

    Una lingua franca, se fosse realmente scelta, dovrebbe essere il contrario dell’inglese.

  43. Io, in quanto insegnante italiano che ama l’Italia e gli italiani, provo profondo disprezzo per coloro che si esprimono con termini inglesi
    Non conoscono il piacere della nostra lingua e la sua grammatica sofisticata e delicata, che ben pochi conoscono .
    E così ci si esprime con una lingua sgrammaticato e dura che sostengono abbia un maggiore effetto.
    Noi italiani in una terra di cultura, gli inglesi di miscultura. Da vergognarsi ad adoperarla.
    Degli inglesi apprezzo solo una cosa: sono usciti dalla comunità europea.

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