Quando l’ex bravo studente, una volta in azienda, ha gli occhi dell’animale braccato

Ragazzo manga impaurito

Ne incontro spesso, di ex bravi studenti che oggi lavorano, con stipendi alti e grandi soddisfazioni, in multinazionali dei settori più svariati: dall’informatica alla moda, dalla cosmesi all’alimentazione. Li ricordo svegli, veloci e più che bravi, bravissimi: media di voti alta, diverse attività fuori dallo studio, buone relazioni con i docenti, grandi iniziative. Non a caso, trovano subito lavoro. Non a caso, fanno carriera velocemente. E non diventano squali come Paolo, no. Piuttosto gli accade qualcosa del genere.

Vado in azienda a tenere un seminario o fare una consulenza perché l’ex bravo studente mi ha invitata. Aveva buone relazioni con i docenti, dicevo, dunque ne ha tenute e mantenute anche con me. Mi presenta al suo capo o alla sua capa in pompa magna: sembra orgoglioso della sua ex prof, orgoglioso del capo o della capa. Sorriso aperto, vigorosa stretta di mano, grande attenzione a mettermi a mio agio: vuole essere sicuro che non mi manchi nulla, che tutto sia a posto. È solerte, premuroso, gentile. Ma controlla di continuo lo smartphone, guarda poco negli occhi ed è sempre pronto a fuggire verso un altrove cangiante: la collega alle mie spalle, la porta d’ingresso, il tavolo delle riunioni. C’è sempre qualcosa, nei suoi occhi, per cui capisci che non è davvero con noi, non è presente, ha i pensieri altrove. Sta rimuginando sui mille dettagli che potrebbero compromettere l’evento? Sta pensando all’evento successivo? All’agenda di domani? Chissà. Sta di fatto che non c’è. Sembra lì ma non c’è.

Finisce l’evento, e la multinazionale offre un aperitivo con buffet. L’ex bravo studente frulla da un gruppetto all’altro, chiacchiera amabilmente, porge calici, accompagna signore, distribuisce pacche sulla spalla ai colleghi. Ma con la coda dell’occhio – si vede benissimo – controlla sempre cosa stanno facendo i capi: quello/a che mi ha presentato, più quelli ancora superiori. E quando ti sfiora, senti che ha le mani fredde e lievemente tremolanti. Insomma è teso, povero ragazzo. Non si gode nemmeno il relax finale.

Infine riesco a fermarlo per uno scambio veloce, prima di andarmene. Lui s’inchioda e mi accontenta perché è educato, per carità. Gli chiedo come sta, come si trova a Milano, Roma, o nella grande città straniera, a seconda di dove siamo. Sta bene, dice, nulla di cui lamentarsi. Lavora molto, questo sì, forse troppo, deve ammetterlo, ma la vita è questa. Una ragazza? Ne aveva una, ma lei l’ha mollato perché non si vedevano mai: troppo lavoro lui, troppo lavoro lei, e la frittata è fatta. Una famiglia? Per ora non se ne parla nemmeno, si figuri. Tempo libero? Pochissimo, spesso nemmeno al weekend. E d’estate solo dieci giorni di vacanza. Lo osservo: ha solo trentacinque anni, poco più o poco meno, ma la pancetta è già evidente e i capelli se ne sono andati. Ma la cosa che continua a impressionarmi di più sono i suoi occhi: sempre sfuggenti, sempre altrove, come  se fosse sempre all’erta per schivare un pericolo, anticipare una mossa, evitare qualcosa. Sembra un animale braccato. Gli stringo la mano gelida e umida, e me ne vado. Una volta in strada, tiro un respiro di sollievo e solo allora capisco quanta tensione c’era là dentro, quanta me ne ha passata l’ex studente bravo.

Possibile che la vita aziendale debba per forza essere così? Possibile che io debba incontrarne decine, come lui? Possibile che, per i nostri ragazzi migliori (uso il maschile non a caso, perché in allerta continua vedo soprattutto maschi), fare carriera in una grande struttura implichi per forza tutto questo stress?

19 risposte a “Quando l’ex bravo studente, una volta in azienda, ha gli occhi dell’animale braccato

  1. Avevo detto la stessa cosa per lo squalo Paolo e torno a dirla.
    C’è un altro modo di lavorare possibile, lo dico avendo oltre a 20 anni di esperienza in società di informatica che lavorano per banche e assicurazioni.
    Fare gli squali, gli schizzati o gli schiavi è un errore facile da commettere ma è sempre una scelta e una responsabilità personale.

  2. Cara mal74, parli così perchè forse hai avuto la fortuna di lavorare in ambiente poco competitivo. In altre parti basta un attimo di esitazione e sei fuori dal giro. Purtroppo è così, è stato così (forse un po’ di meno in passato) e sarà, ahimè, sempre così.

  3. Savino, io vivo in Olanda e qua non é cosí 🙂 Altri mo(n)di possibili esistono. Guarda… se vuoi farti un’idea, il mio penultimo post é proprio su 4 buone pratiche da copiare alla cultura lavorativa olandese.

  4. Caro Savino,
    ho lavorato in Barilla, Cedacri, TelePiù, Mediolanum, Banca Intesa, Almaviva per citarne alcune, le più grosse.
    Ho lavorato accontentandomi di un posticino qualunque? No, sono sempre stato un consulente, una partita iva, sono anche stato presidente di un piccolo consorizio di partite Iva.
    Ho avuto sempre la fortuna di finire in uffici tranquilli? No, fin dall’inizio ho visto giochi sporchi, richieste di bustarelle, colleghi consulenti o dipendenti che facevano le peggio cose, che sbottavano, in alcuni casi si mettevano a piangere, capi che deliravano di motivazione, corsi, atteggiamento… insomma di ogni cosa ho visto.
    Forse non sono io che ho una percezione errata della realtà, forse sono altri a cui viene raccontato che bisogna per forza comportarsi da bestie e ci credono impostando così la loro vita.
    Di fatto non credo che nessuno ti punti una pistola addosso e ti obblighi a fare alcunchè.

  5. Ahimé devo confermare. Altro non riesco ad aggiungere.

  6. Per me, un robot in apparenza perfettino non è mai fra i ‘migliori’.

  7. Ricordo, anni fa, una consulente venuta dalla Francia, che non sapeva l’italiano, a sistemare cose su un software che usava [grossa banca]. Tante, forse troppe, cose da affrontare nelle poche ore a disposizione. Verso la fine mancava ancora del lavoro da fare, ma il tempo era finito. Il boss locale del gruppo di lavoro, un tipo che amava molto abbaiare, ci provò anche con lei, quasi minacciandola che non poteva andarsene senza aver finito tutto. Sarebbe bastato rispondere: “io all’ora X vado. Se ha qualcosa da dire lo riferisca ai miei superiori.” Aveva tutte le ragioni dalla sua parte. Lei non lo fece. Si mise a piangere, mettendoci tutti in imbarazzo.

    Il mondo del lavoro ci prova a schiacciarti, oh se ci prova! Sta a noi rispondere a tono, rivendicando la nostra dignità, con fermezza, senza esitazioni. Non è facile, a me costa molto, per esempio. Ma si può fare. Qualcosa si può fare.

  8. Credo che in questa valutazione occorra evidenziare l’aspetto psicologico e a volte, purtroppo, sociopatico, di un certo “sistema lavoro”, specialmente nei periodi di crisi economica.
    Il mondo del lavoro si regola su logiche (efficienza, flessibilità, organizzazione, risultati) accettate e accettabili. Purtroppo una discreta componente di competitività porta a creare un sistema darwiniano. Generalizzando un poco, si può semplificare che la competitività tenda a sacrificare elementi intelligenti e preparati ma magari miti, facendo avanzare aggressivi e narcisisti, indipendentemente dalle loro qualità nello specifico lavorativo. Mi riferisco al capo mediocre, distributore di colpe, in contrapposizione alla ideale figura di quel leader tanto decantato nei corsi di formazione. In mezzo, tante persone che cercano di convivere in una logica aleatoria, molto simile al gioco d’azzardo (come il giovane descritto dalla dottoressa Cosenza).
    Le dinamiche psicologiche dei gruppi umani sono molto meno umane di quanto si pensi come gli studi di Milgram o Lewin hanno dimostrato.
    Ed è vero che qualcosa si può fare, però questo presuppone magari un pochino di potere personale acquisito, oppure, ancora più importante, una certa autonomia di analisi personale e collettiva e…poca paura.

  9. Il mondo del lavoro è spietato: prima ti spreme come un limone poi ti getta via. A me non piace dare tutta me stessa al lavoro: significano solo stress, delusioni e compromessi inaccettabili. Infatti vengo ignorata e disprezzata. E’ una situazione insopportabile ma non posso dimettermi: purtroppo non ho i titoli per trovare un lavoro migliore.

  10. Ma l’insicurezza ce l’hanno i superiori o i bravi ragazzi? A me sembra che la fonte dello stress siano i capi ,ad esempio, perché non raggiungono i risultati che i vertici superiori hanno tarato su tutta la struttura organizzativa, compreso loro.I capi possono essere in affanno se non hanno risultati certi da offrire ai vertici ed in caso di crisi iterata per salvare se stessi scaricano gli insuccessi sui manager sottoposti,fino magari al licenziamento o alla soppressione delle premialità,senza le quali gli stipendi non sono più adeguati alla fatica quindi non appetibili.La letteratura sulle gerarchie o sulle catene di comando e di decisioni dimostra che quando la struttura entra in tilt e non riesce a perseguire gli obiettivi,il riequilibrio (in questo caso finanziario) viene ottenuto mediante la selettiva eliminazione dei quadri inferiori fino a risalire gradualmente sulla scala gerarchica.Gli ultimi a cedere posizioni,riduzione di stipendio,di benefit e di prerogative, sono i vertici.Quando si giunge a loro la frittata è fatta e molti,prima di loro,sono già piombati nell’oblio. I sintomi di uno stress sono pertanto tipici di qualsiasi organizzazione finalizzata a degli obiettivi irrinunciabili e,come tali,possono essere verosimilmente anche riscontrabili in una società che entra in cortocircuito.Che dire? Quando i provventi sono soddisfacenti e raggiungibili ,senza una agguerrita e costante competizione, tutti i quadri dell’ ingranaggio stanno bene economicamente,psicologicamente e fisicamente :sono attenti alla propria salute e sono amabilmente gioviali anche coi colleghi e sopportano con nonchalance l’ironia dei superiori. Quando il budget si sgonfia tutti si controllano a vicenda e con l’ansia alla gola cercano di stare attenti alle parole ed ai comportamenti dei capi e dei colleghi perché temono di esssere danneggiati.Per me quello che manca nelle varie organizzazioni è la formazione di una psicologia di gruppo e cooperativa ,utilizzabile sia nei casi di successo che di debacle, con cui affrontare serenamente gli alti e i bassi di crisi senza intaccare le posizioni di merito della gerarchia.Insomma,la competitività non può trasformare una organizzazione di vendita o un’impresa in una squadra d’assalto militare dove in qualsiasi attività si registrano effetti spiacevoli di bourn out o di depressione per licenziamento…C’è qualcosa che non va e non convince in simili organizzazioni.Bisognerebbe esportare la competitività all’esterno e con buoni risultati piuttosto che avvitarsi in una sequela di sgambetti interni.Mi dispiace che oggi molti siano “torturati” dal lavoro che hanno scelto.

  11. Mi interessa moltissimo il tema – e vi assicuro che lo stress non è limitato alle grandi compagnie multinazionali di eccellenza in cui solo chi ha posizioni ‘blindate’ può imporre i propri ritmi umani al lavoro – tutti gli altri, soprattutto i sottoposti, devono scegliere se ammazzarsi per l’azienda o dare subito ai capi l’impressione di essere degli scansafatiche.

    Sicuramente la crisi o la serenità aziendale fanno una differenza enorme, ma comunque credo che la differenza la facciano i dirigenti: fino a quando non pagheranno di tasca propria per gli errori fatti non vedo perché dovrebbero ricordarsi che il loro lavoro è quello di difendere i sottoposti e creare le condizioni perché possano rendere al meglio.
    E no, i dipendenti sotto mobbing non rendono al meglio: hanno paura, non sono proattivi, non imparano e, sostanzialmente, non sono presenti a quello che fanno (e questo vale anche per i dirigenti stessi).

    Magari…

  12. In estrema sintesi: si è conseguito il successo personale in assenza di benessere psico-fisico? Risposta scontata.

    Ma quanto è difficile, nel lavoro, combattere da soli per ottenere un trattamento più… umano. Un tempo, a tale scopo, esistevano i sindacati.

  13. Quando tutti ti criticano devi dimenticare che hanno ragione e dare loro torto.

  14. La mia esperienza ha visto entrambi i lati della medaglia. Ho iniziato con un lavoro in cui tutto era informale, ma fin troppo, e non finivo mai di lavorare, mai. Fra l’altro, le responsabilità erano distribuite con così tanto disordine che il mio capo a volte non aveva idea di cosa facessi ogni giorno – lo so perché a volte pensava che non avessi fatto nulla per 12 ore!
    Poi, in Australia, in un ufficio Italiano ho accumulato uno stress incredibile. Ore e ore di lavoro, manager sempre pronti al feedback, ma solo negativo, sempre pronti a spargere ansia sui visti! Quando una mezz’ora di permesso non ti viene pagata, ma poi ti viene richiesto di restare un’ora in più per un meeting, capisci che il rispetto per il tuo lavoro manca e lo scambio è a vantaggio di una sola parte.
    Alla fine, in Danimarca, dove lavoro ancora da poco, ho portato tutto quello stile nervoso e stressato che avevo esperito prima. Ma qui i miei manager mi hanno notato così e tranquillizzato: non serve lo stress, si parla chiaro, siamo tutti uguali. E per la prima volta mi pare che siamo uguali davvero.
    Questa tranquillità ce l’avevo solo in ambiente accademico, l’unico ambiente in cui mi sono sempre davvero sentito a casa, motivato, pieno di interessi e tranquillissimo nel parlare di nuove idee senza l’ansia di ricevere giudizi e feedback negativi, che erano sempre benvenuti comunque!
    Che sia cambiato qualcosa? Che mi sia aperto a fare carriera nell’impresa e non solo e necessariamente in accademia?
    In ogni caso, quello che deduco dalla mia esperienza è che ho fatto bene a non farmi spaventare dal cambiamento. Ho lasciato i lavori quando ho visto che carriera e tranquillità non andavano di pari passo. Per me l’ansia e lo stress sono due cose estremamente importanti e serie, e li tratto come problemi da risolvere con priorità, prima di una bella figura con manager e capi.
    Il lavoro non è necessariamente tutto stress e ansia. E cambiare quando di ansia ne accumuli troppa è una boccata d’aria, un’ansia molto più salutare, un rischio che per me vale la pena correre.

  15. il narcisismo, la manipolazione, il risultato, ecc.
    non se ne puo’ più in nessun ambito.
    concordo assolutamente con Enrico, del messaggio precedente al mio.
    Dignità, salute e armonia prima di altre stupide cose.

  16. Secondo me, in uno mercato competitivo come quello in cui siamo immersi, per fare carriera (intendo aggiungere alti livelli) bisogna fare sacrifici (fosse anche negarsi una vita privata): è una scelta condivisibile o meno (per me- sia chiaro- non lo è), ma è così. Certe persone (tra cui mi sembra appunto di capire il protagonista di questo post) sono felici così. La loro vita ruota attorno al lavoro, per questo sono in costante tensione e si sentono sempre sotto giudizio (una mossa “falsa” potrebbe pregiudicare la loro carriera).

  17. So cosa vuol dire e glielo posso confermare: lavorare in una grande azienda è stressante a tal punto da rovinarti la salute e toglierti il tempo libero. Questo perché nel mondo del lavoro c’è una competizione spietata. E’ un po’ come vivere in una giungla o in un Paese in guerra. Non esiste più la solidarietà tra colleghi ma il mobbing. Se non hai amicizie o parentele importanti non ti resta che lecchinare o prostituirti, altrimenti sei fuori.

  18. Pingback: Studenti bravissimi, animali braccati | Pietroalviti's Weblog

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