Archivi tag: analfabetismo di ritorno

USA: analfabetismo maschile di ritorno

Su D di Repubblica del 5 giugno c’era un pezzo di Federico Rampini sulla crescente presenza femminile nei posti di potere della società americana – rispecchiata dalle recenti nomine di Obama – e sul nesso di questo fenomeno con le percentuali di donne e uomini che negli USA accedono ai gradi d’istruzione superiore.

Ecco come l’articolo si chiude:

«C’è un fenomeno preoccupante di “regressione socio-culturale” del maschio americano. Tra il 1993 e il 2007, la percentuale di ragazzi che si sono iscritti ai college o alle università è scesa dal 45% al 43%. Nel prossimo decennio si prevede che arretreranno di altri due punti percentuali.

Non solo i maschi si iscrivono meno ai corsi universitari, ma una volta ammessi hanno risultati accademici peggiori. In campo femminile il 56,4% delle studentesse iscritte a una facoltà portano gli studi al termine fino a conseguire una laurea. Solo il 50% degli studenti maschi ci riesce. L’altra metà sono dei drop-out che abbandonano l’università senza alcun diploma: un tasso di insuccesso altissimo se raffrontato su scala mondiale.

Rallegrarsi per l’ascesa del potere femminile negli Stati Uniti non deve fare ignorare questo fenomeno di massa, una sorta di analfabetismo di ritorno che colpisce i giovani uomini (con punte particolarmente elevate tra i maschi afroamericani).

Obama richiama spesso l’attenzione sul fatto che il benessere futuro dipende dalla qualità dell’istruzione. Avverte che la vera sfida con la Cina si gioca sulla performance delle giovani generazioni nella scuola.

I risultati degli studenti americani nell’apprendimento delle materie scientifiche, a livello internazionale, sono mediocri. Ma l’arretramento è dovuto soprattutto al risultato dei maschi. Se l’America vuole arrestare il declino di qualità della sua forza lavoro rispetto ai concorrenti asiatici, dovrà affrontare la “questione maschile” sui banchi di scuola.»

(Federico Rampini, «Analfabeti di ritorno», D di Repubblica, 5 giugno 2010.)

Puoi scaricare da QUI il pdf dell’articolo intero, tratto dalla rassegna stampa di www.zeroviolenzadonne.it, che ringrazio.

Studenti analfabeti? Mica soltanto loro

Oggi su Repubblica Bologna è uscito questo mio editoriale, col titolo «Analfabeti non sono soltanto gli studenti»:

Negli ultimi giorni si è accesa a Bologna la versione locale di una polemica che ricorre periodicamente nel nostro paese: quanto sappiamo scrivere, leggere e far di conto? Il rettore Dionigi ha messo il dito sul fatto che i ragazzi entrano in università in condizioni di «semi-analfabetismo», precisando che non ce l’aveva con le singole scuole, ma con l’intero sistema educativo.

Nonostante la precisazione, alcuni presidi si sono offesi; altri invece gli hanno dato ragione, rincarando pure la dose. Persino gli studenti, intervistati dai giornalisti, si sono divisi fra pro e contro: i contro si sentono migliori di come sono stati  dipinti, i pro individuano negli «altri» (altre facoltà, altre lauree, altri compagni di corso) gli analfabeti del caso.

La buona notizia è che si torni a parlare di un grave problema. Come scriveva tempo fa Tullio De Mauro, «soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea» (Internazionale, 604, 6 marzo 2008).

Questa percentuale nasce da un’indagine comparativa svolta nel 2004-2005 in una dozzina di paesi, europei e non: era il progetto ALL (Adult Literacy and Lifeskills) che mirava a verificare la literacy dei paesi partecipanti, ove per literacy si intende un insieme ampio di competenze e abilità di scrittura e comprensione di testi, tabelle e grafici, più alcune capacità elementari di fare conti e risolvere problemi. È in questo senso, dunque, che va intesa l’espressione «semi-analfabetismo» usata dal rettore. Ma il problema non riguarda solo le matricole (né solo le nostre), perché l’indagine fu condotta su accurati campioni della popolazione italiana fra 16 e 65 anni.

Ed ecco dunque la cattiva notizia: a parlare di analfabetismo in ambito locale, si rischia che persone, ruoli e istituzioni si accapiglino per nulla: «È colpa dei prof», «No, è colpa degli studenti»;  «È colpa delle scuole», «No, anche l’università deve fare il mea culpa». Le ragioni della illiteracy italiana sono invece più complesse, sistematiche e ampie di come appaiono nel gioco dello scaricabarile.

Ancora negli anni cinquanta, circa il 50 per cento degli italiani non sapeva distinguere né scrivere le lettere dell’alfabeto (oggi sono solo il 5 per cento). In questo senso i ragazzi di oggi sono mediamente molto più alfabetizzati dei loro padri e nonni. Tuttavia, in poche generazioni si è passati da un’economia basata sull’agricoltura a una industriale e postindustriale, senza che lo sviluppo economico fosse mai affiancato da politiche culturali ed educative – non a destra, ma neppure a sinistra – degne di queste nome. Il che si è sempre tradotto in mancanza di soldi e risorse per scuola e università. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Cosa possono fare Bologna, la sua università e le sue scuole in questo quadro desolante? Chiedere, ottenere e distribuire – equamente e meritoriamente – soldi, soldi e ancora soldi. Pubblici e privati, come e dove si può. Occorrono borse di studio per i ragazzi più meritevoli e le famiglie più bisognose,  soldi per finanziare la ricerca, e ancora soldi per sostenere e incentivare il lavoro di chi fa buona didattica, a scuola come in università. La cattiva notizia è che il contesto nazionale dei finanziamenti all’istruzione è quel che è.

La buona notizia è che il sistema educativo bolognese è in posizione di forza perché sta in alto nelle classifiche nazionali. E una posizione di forza non basta come consolazione, ma è un buon punto di partenza per ottenere risorse.

———–

Avevamo già parlato dell’indagine ALL in questi post (febbraio 2008):

Letterati allitteranti o allettanti illetterati?

Qualche conclusione dall’indagine ALL

Poveri umanisti. E povere scuole

Ho appena finito di leggere L’università truccata di Roberto Perotti, la migliore diagnosi dei mali dell’università italiana che mi sia mai capitato di incontrare. (Devi devi devi, non dico leggerla, ma studiarla.)

Per quanto io condivida la pars destruens del libro (e per questo lo consiglio), alcune affermazioni della pars construens (cap 5, «Una proposta di riforma»), mi hanno fatta saltare sulla sedia. In generale, mi pare che Perotti ecceda nel voler applicare anche in Italia, senza mediazioni né adattamenti, il modello americano. Ma su questo per ora non mi soffermo.

Inoltre, qua e là Perotti tradisce una bassa considerazione delle discipline umanistiche che trovo inaccettabile, non tanto perché lavoro in questo campo e mi tocca difenderlo, ma perché mi pare più pregiudiziale che basata su dati o argomentazioni razionali.

Quando ad esempio sostiene – giustamente – che, in un sistema universitario che funzioni, gli atenei non sono affatto uguali, perché alcuni sono migliori in un settore, altri in un altro, alcuni nella didattica, altri nella ricerca, alcuni sono eccellenti in generale, altri scadenti da tutti i punti di vista (il che si dovrebbe riflettere in differenze di tasse universitarie e stipendi ai docenti, come da noi invece non accade), a un certo punto dice:

«Corsi di laurea diversi hanno costi diversi, e portano a carriere diverse, alcune molto remunerative altre meno. È dunque perfettamente efficiente ed equo che le rette per fisica, medicina o veterinaria (che costano molto) [per la presenza di laboratori, strumenti e attrezzature, n.d.r] o per legge o economia aziendale (che in media portano a carriere ben remunerate) siano più alte che le rette per la laurea in storia e filosofia, che costano relativamente poco [perché uno studente di filosofia ha bisogno di buone biblioteche e poco più, n.d.r.] e il cui sbocco professionale è tipicamente l’insegnamento in una scuola secondaria» (R. Perotti, L’università truccata, Torino, Einaudi, 2008, p. 99).

Questa frase deprezza in un sol colpo gli umanisti e le scuole secondarie. Il che non solo rispecchia, ma alimenta la svalutazione delle scuole di tutti gli ordini e gradi (dalle materne alle secondarie) che dagli anni Settanta si perpetua in Italia, innanzi tutto in termini di remunerazione e di conseguenza anche in termini di apprezzamento sociale del ruolo dell’insegnante.

Il che è particolarmente grave, in un libro che propone soluzioni per l’università italiana, perché questa non mi pare possa essere separata – senza peccare di astrattezza – dal sistema educativo che la precede. Né si possono aggirare i problemi dello specialismo, per cui si formano fisici semianalfabeti e medici che sanno trattare un menisco o un polmone, ma dimenticano le persone.

D’altra parte lo stesso Perotti, parlando del rapporto fra università e imprese, dice:

«È noto che le grandi banche di investimento spesso preferiscono assumere laureati in matematica o filosofia che dimostrano una mente curiosa e aperta, piuttosto che laureati in finanza che conoscono già tutto degli strumenti del mestiere ma non hanno interessi al di là di questo campo» (ibidem, p. 133).

E allora?