Studenti analfabeti? Mica soltanto loro

Oggi su Repubblica Bologna è uscito questo mio editoriale, col titolo «Analfabeti non sono soltanto gli studenti»:

Negli ultimi giorni si è accesa a Bologna la versione locale di una polemica che ricorre periodicamente nel nostro paese: quanto sappiamo scrivere, leggere e far di conto? Il rettore Dionigi ha messo il dito sul fatto che i ragazzi entrano in università in condizioni di «semi-analfabetismo», precisando che non ce l’aveva con le singole scuole, ma con l’intero sistema educativo.

Nonostante la precisazione, alcuni presidi si sono offesi; altri invece gli hanno dato ragione, rincarando pure la dose. Persino gli studenti, intervistati dai giornalisti, si sono divisi fra pro e contro: i contro si sentono migliori di come sono stati  dipinti, i pro individuano negli «altri» (altre facoltà, altre lauree, altri compagni di corso) gli analfabeti del caso.

La buona notizia è che si torni a parlare di un grave problema. Come scriveva tempo fa Tullio De Mauro, «soltanto il 20 per cento della popolazione adulta italiana possiede gli strumenti minimi indispensabili di lettura, scrittura e calcolo necessari per orientarsi in una società contemporanea» (Internazionale, 604, 6 marzo 2008).

Questa percentuale nasce da un’indagine comparativa svolta nel 2004-2005 in una dozzina di paesi, europei e non: era il progetto ALL (Adult Literacy and Lifeskills) che mirava a verificare la literacy dei paesi partecipanti, ove per literacy si intende un insieme ampio di competenze e abilità di scrittura e comprensione di testi, tabelle e grafici, più alcune capacità elementari di fare conti e risolvere problemi. È in questo senso, dunque, che va intesa l’espressione «semi-analfabetismo» usata dal rettore. Ma il problema non riguarda solo le matricole (né solo le nostre), perché l’indagine fu condotta su accurati campioni della popolazione italiana fra 16 e 65 anni.

Ed ecco dunque la cattiva notizia: a parlare di analfabetismo in ambito locale, si rischia che persone, ruoli e istituzioni si accapiglino per nulla: «È colpa dei prof», «No, è colpa degli studenti»;  «È colpa delle scuole», «No, anche l’università deve fare il mea culpa». Le ragioni della illiteracy italiana sono invece più complesse, sistematiche e ampie di come appaiono nel gioco dello scaricabarile.

Ancora negli anni cinquanta, circa il 50 per cento degli italiani non sapeva distinguere né scrivere le lettere dell’alfabeto (oggi sono solo il 5 per cento). In questo senso i ragazzi di oggi sono mediamente molto più alfabetizzati dei loro padri e nonni. Tuttavia, in poche generazioni si è passati da un’economia basata sull’agricoltura a una industriale e postindustriale, senza che lo sviluppo economico fosse mai affiancato da politiche culturali ed educative – non a destra, ma neppure a sinistra – degne di queste nome. Il che si è sempre tradotto in mancanza di soldi e risorse per scuola e università. E i risultati sono sotto gli occhi di tutti.

Cosa possono fare Bologna, la sua università e le sue scuole in questo quadro desolante? Chiedere, ottenere e distribuire – equamente e meritoriamente – soldi, soldi e ancora soldi. Pubblici e privati, come e dove si può. Occorrono borse di studio per i ragazzi più meritevoli e le famiglie più bisognose,  soldi per finanziare la ricerca, e ancora soldi per sostenere e incentivare il lavoro di chi fa buona didattica, a scuola come in università. La cattiva notizia è che il contesto nazionale dei finanziamenti all’istruzione è quel che è.

La buona notizia è che il sistema educativo bolognese è in posizione di forza perché sta in alto nelle classifiche nazionali. E una posizione di forza non basta come consolazione, ma è un buon punto di partenza per ottenere risorse.

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Avevamo già parlato dell’indagine ALL in questi post (febbraio 2008):

Letterati allitteranti o allettanti illetterati?

Qualche conclusione dall’indagine ALL

12 risposte a “Studenti analfabeti? Mica soltanto loro

  1. Bene, benissimo parlare del problema, anche secondo me. Succede che con una punta d’orgoglio io dica “ho fatto l’università a Bologna”, infatti. E spesso il mio orgoglio viene ricambiato con un sorriso d’intesa; altre volte – la maggioranza – no. Ho fatto colloqui durante i quali dove ho fatto l’Università e cosa ho studiato non ha avuto alcun interesse specifico. Strano, mi sono sempre detta. Io ci ho investito energie, soldi, risorse. Solo che spesso non è bastato. E forse è un po’ colpa del fatto che cosa fanno le Università e dove mettono le risorse e come le gestiscono non lo sa mai nessuno.
    ciao giovanna.

  2. Per via dei pochi soldi stanziati poi, vero aspetto essenziale del problema, è l’illiteracy anche di un numero consistente di insegnanti, si pensi solo per fare un esempio allo spesso pressochè totale analfabetismo digitale (ci sono infatti tanti tipi di competenze alfabetiche…). Difficilmente un analfabeta può insegnare una lingua qualsaisi se non, semioticamente parlando, quella dei gesti 😉

    E questo è un problema del sistema, un problema strutturale, di come si selezionano da decenni in qua gli insegnanti di tutte le scuole di ogni ordine e grado. Abbassando così tremendamente il livello culturale del nostro paese. E poi ci si stupisce che non si leggono libri (di certo non letteratura) e che l’industria editoriale sia in crisi. Questo, come giustzmente sottilei Giovanna, è problema essenzialmente politico e serve quasi una rivoluzione, almeno copernicana, del sistema dello Stato

  3. Scusami se concludo in mio ragionamento. L’analfebetismo di varia sorta e tipo, da quello della lingua madre a quello digitale, ha conseguenze molto nefaste e sistemiche. Credo, solo per fare un altro esempio, oltre a quello editoriale, che il populismo mediatico in cui ci siamo cacciati, sia effetto diretto dell’analfabetismo. Come esiste un alfabetismo morale, etico, dei sentimenti, sul problema femminile (e maschile) (in cui molti uomini sono istruiti dai film pornografici nella costruzione dei loro pseudocorteggiamenti seduttivi almeno nelle intenzioni, e le donne guidate dalla velina di turno per apparire belle e desiderabili)… Penso da tempo infatti e sono totalmente d’accordo con te, che spesso i problemi, per non citare Wittgenstein, abbiano sostanzialmente natura grammaticale.

  4. …penso che il binomio università e analfabetismo sia come al solito la punta di in iceberg, solo ciò che si vede…ho due figli alle scuole medie, due ragazzi intelligenti e svegli, ma hanno un livello culturale molto inferiore al mio quando avevo la loro età, eppure quando avevo la loro età eravamo solo alla metà degli anni ottanta, la mia scuola aveva meno ore di quante ne fanno ora e i miei libri erano più sottili…eppure sapevo di più….
    studiavo di più? no, non credo…forse ai miei tempi insegnavano ancora ciò che era indispensabile e a me restava la curiosità per approfodire, cercare spiegazioni….avete mai provato ad aprire un libro per un ragazzino delle medie?….è un esperienza da fare….

  5. Soldi da pubblici e privati. Un binomio necessario (visto che il pubblico, da solo, non avrebbe risorse sufficienti nemmeno se l’Italia non avesse i problemi di deficit che ha), ma difficile che si metta in moto se, presso la maggioranza dell’opinione pubblica, l’Università viene vista come qualcosa di separato e distante dal sistema produttivo.
    Forse sono io che la vedo troppo grigia e in realtà c’è una consapevolezza maggiore, però parlando in giro mi sembra sempre di vedere una distinzione tra quelli che, finita la scuola dell’obbligo, si “fanno il mazzo” e si mettono subito a lavorare in azienda o in negozio e quelli che invece proseguono gli studi, identificati come pigri/figli di papà/ingenui che finiranno a friggere le patatine al McDonald’s.
    Se questo pregiudizio è davvero diffuso come sembra a me, allora cercare di correggerlo con campagne comunicative forti è un primo passo necessario.

  6. Per me non c’è alcuna contrapposizione tra farsi il mazzo lavorando o farsi il mazzo studiando, e chi studia seriamente, (non dico alla Leopardi, ma quasi), non è certo un bamboccione.

    Come non c’è alcuna contraddizione tra il lavorare al mcdonald avendo studiato o avendo presto smesso gli studi. L’università ha il compito di formarti e di farlo seriamente, sta poi a te costruirti la tua strada, e, come diceva Eco in una sempre splendida e illuminante bustina di qualche tempo fa, se vuoi fare lo scrittore, comincia con il fare il lustrascarpe (la famosa gavetta). Può essere altrettanto istruttivo dei corsi dell’università. Si chiama scuola della vita. E chi conosce bene l’alfabeto e la grammatica avrà certo più strumenti per affrontare anche questa seconda scuola. Dai lavori cosiddetti “umili” si può imparare tantissimo, e questa non è vuota retorica ma esperienza vissuta. Primum vivere deinde comunicare

  7. Concludo: il problema vero è piuttosto eliminare questo pregiudizio, Lavoro vs università, scuola versus lavoro, il pregiudizio che la scuola dovrebbe garantirti un lavoro di livello. Idea un po’ vecchiotta, e l’università dovrebbe questo si a livello comunicativo cominciare a fare, nel senso di non creare false aspettive e nemmeno dare garanzie e fare promesse che non può mantenere: lavoro che perarltro Giovanna fa egregiamente sul suo blog, e secondo me bisognerebbe radicalizzare questo tipo di comunicazione sul rapporto tra scuola e lavoro e scigliere definitivamente il nesso università di alto profilo/lavoro di alto profilo. L’alto è il basso il basso è l’alto. Poi è chiaro che alla fine della storia e della tua lunga gavetta, il tuo lavoro e il tuo studio verranno molto probabilmente premiati. Sarà allora che avrai trovato la tua strada

  8. Ho letto il post “Letterati allitteranti o allettanti illetterati?” e la “Bustina di Minerva” sulla buona scrittura, per farmi un’idea del progetto ALL. Ho pensato alla tremenda sensazione di disagio provata 11 anni fa a causa del mio analfabetismo digitale e della lingua inglese: pur essendomi diplomato a pieni voti, pur avendo superato il test di ammissione a Scienze della Comunicazione ( nonostante le domande di inglese, studiato solo da autodidatta con i fascicoli di Repubblica) il confronto coi miei colleghi era avvilente. E tutto ciò ha pesato molto nelle mie scelte successive, fino a portarmi al trasferimento a Lettere moderne, nella convinzione di approdare verso lidi più “familiari”. A mio parere la mia vicenda personale, può essere esemplificativa della complessità dei problemi del sistema dell’istruzione del nostro Paese: non si tratta solo di scarsità di fondi, la scuola non ti prepara all’università, non fornisce gli strumenti basilari per affrontare il primo impatto con gli esami,non orienta, moltissimi, troppi, i progetti “sperimentali” all’interno degli istituti scolastici, ma poi mancano le infrastrutture di base, ad esempio una semplicissima aula attrezzata con dei pc, oppure – e non meno importante- una palestra. L’università d’altro canto, in nome dei “residui” princìpi costituzionali di istruzione pubblica e di libertà e autonomia dell’istutuzione universitaria, tende giustamente ad accogliere e ad includere un gran numero di studenti, senza poi fornire tutti gli strumenti necessari per la prosecuzione degli studi: il mio professore di Composizione testi in inglese per esempio, non accettava il fatto che io non avessi mai studiato inglese,si chiedeva come avessero fatto ad ammettermi al Corso di laurea, e non ha saputo propormi soluzioni alternative.
    Se la scuola è stritolata da carenza di fondi, incompetenza di molti docenti poco appassionati, programmi generici, asfittici e rigidi (perchè la letteratura e la storia contemporanea non hanno posto nella scuola, nonostante tutti i proclami di tutti i ministri degli ultimi dieci anni?), l’università si chiude nella settorialità, nella specializzazione estremistica. Qualche giorno fa, discutevo con alcuni studenti di Chimica e tecnologie farmaceutiche (io lavoro nella portineria del Dipartimento di Biochimica) del loro rapporto con l’università, la difficoltà degli esami, eccetera: tutti loro attaccavano con durezza i Corsi di laurea in Discipline umanistiche e in particolare Scienze della Comunicazione, in quanto ritenuto un percorso di studi “ridicolo”, definito col solito pregiuzio di “scienze dlle merendine”. Molti di loro però dimostravano oltre che un forte carica di inutile pregiudizio, una certa incompetenza nella lingua italiana. Ma l’interdisciplinarità non dovrebbe essere la chiave di volta di un buon sistema d’istruzione? Secondo quello che dice il protocollo del progetto ALL, sembra proprio di sì.

  9. …scienze della comunicazione è come tutte le altre facoltà: aprono la mente verso nuove frontiere a due condizioni a) a patto che uno abbia una mente; b) che uno sia disposto ad aprirla…

  10. Il pregiudizio contro gli studenti fannulloni c’e’ sempre stato e sempre ci sara`: fa parte di un anticulturalismo radicato nella societa’ italiana; tanto piu’ e’ forte in questi anni, in cui l’antica rivalsa verso il “figlio del dottore” si somma all’odio (orchestrato ad arte) contro le lettere, la carta stampata e quei “comunistacci” degli intellettuali.
    La prof.ssa Cosenza ha ragione, l’analfabetismo non riguarda solo gli studenti, ma e’ chiaro che ci impressioniamo di piu’ se a commettere certi errori e’ un universitario o un laureato.
    Il problema principale, mi dispiace, e’ a monte; e sta tutto nella mancata democratizzazione della scuola italiana e dell’universita’, che diventando di massa nelle strutture, non ha pero’ saputo estendere adeguatamente i suoi contenuti culturali (nozioni e metodi). Un’Universita’ mancata, si potrebbe dire parafrasando Guido Crainz.
    Si ha un bel dire che una volta la scuola preparava di piu’: fino al 1997 l’abbandono scolastico riguardava circa la meta’ della popolazione tra i 14 e i 18 anni (parlo di quando l’obbligo scolastico era fissato a 14 anni, do you remember?), quindi non e’ che le persone fossero meno ignoranti, semplicemente non varcavano la soglia della scuola e si poteva far finta che non esistessero. Con le conseguenze disastrose che sappiamo.
    Ora il Re e’ nudo: questo secondo me e’ solo positivo, purche’ non diventi un alibi per insegnanti stressati e costretti ad arrangiarsi in una scuola sempre piu’ allo sfascio e screditata.

    (P.S. Mi scuso per gli accenti, sto digitando su una tastiera americana e mi devo accontentare degli apostrofi, ma sono consapevole della differenza tra i due segni).

  11. Giovanna, senza aggiungere altro ai commenti, ma ti volevo fare i miei sinceri complimenti per il post.
    Ciao! 🙂

  12. un argomento che, ad ondate, ritorna. Certo che il problema è serio e le cause non sono facilmente indivuduabili, anche se lo fossero forse non aiuterebbero a risolvere il problema.
    Mi sento di condividere le considerazioni finali.

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