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Ma queste «lobby gay» cosa sono?

Il Giornale, Vince la lobby gay

Quando i media parlano di omosessualità, fanno spesso riferimento alle cosiddette «lobby gay». E non lo fa solo la stampa di centrodestra, come illustra la prima pagina del Giornale che ho riportato. Il problema è che l’espressione getta sempre e comunque, a destra come a sinistra, una luce inquietante sul tema dell’omosessualità. Ancor più inquietante dopo le discussioni dei mesi scorsi sui cosiddetti «preti pedofili»: Continua a leggere

Le lacrime di Elsa Fornero: significati, reazioni e automatismi di massa

La commozione di Elsa Fornero mentre pronuncia la parola «sacrificio» in conferenza stampa si guadagna, com’era prevedibile, la prima pagina di quasi tutti i quotidiani.

Le decine di commenti sulle lacrime, fra ieri e oggi, si dividono in due:

  1. quelli/e che le valorizzano positivamente, vedendo la commozione di Elsa Fornero come un segno di grande coinvolgimento personale e sottolineando come l’episodio sia servito a scaldare la complessiva freddezza della conferenza stampa (vedi per esempio «Anche i tecnici hanno un’anima» di Filippo Ceccarelli su Repubblica, ma anche le dichiarazioni di Cristina Molinari, presidente di Pari o Dispare, riprese da La ventisettesima ora del Corriere);
  2. quelli/e che al contrario ne sono infastiditi, perché «siamo noi a dover piangere, non lei», perché «basta con questa storia che le donne piangono in pubblico», o addirittura perché «è chiaramente una messinscena per tenerci buoni»: vedi per esempio Libero, che oggi titola «Il governo chiagne e fotte», e il Giornale che titola «Piange il governo, noi di più».

Su entrambi i fronti stanno anche alcuni estremismi: dal lato dei favorevoli, c’era ieri chi salutava le lacrime di Elsa Fornero come (prendo a caso da Twitter e Facebook) un «evento storico», «il momento più alto della politica italiana da decenni»; dal lato dei denigratori, c’era invece chi si scandalizzava perché «ora tutti si concentreranno sulle lacrime e nessuno parlerà dei contenuti della manovra», perché «un ministro non deve piangere», o perché «un ministro non deve piangere, specie se donna, perché altrimenti tutti dicono che le donne sono deboli».

Volendo stare al di qua degli estremismi da ambo le parti, vale la pena precisare alcune cose:

  1. Elsa Fornero non è «scoppiata a piangere», né Monti ha «dovuto consolarla», come ha scritto ad esempio il Corriere (ma fa’ una ricerca su internet e vedi quanti blog – tantissimi – hanno usato espressioni analoghe): è stato un momento di commozione assai contenuto (una lacrima o due), di cui subito la ministra si è scusata con grande compostezza; inoltre Monti ha semplicemente proseguito per pochi secondi in sua vece, mettendoci subito dell’ironia per sdrammatizzare («commuoviti, ma correggimi»).
  2. Tutti i media hanno ripreso – è vero – le lacrime di Elsa Fornero, ma non è accaduto, come alcuni temevano, che le lacrime siano diventate pretesto per non parlare dei contenuti della riforma delle pensioni: di questi contenuti parlano oggi tutti i media, con numerosi approfondimenti (sulla carta, in rete, in televisione). Basta aver voglia (e tempo) di seguirli.
  3. Sarebbe il caso che coloro che si sono scatenati contro l’«ipocrisia» di queste lacrime, supponendo di assumere una posizione «di sinistra», perché «la Fornero è ricca, mentre i poveri pensionati non arrivano a fine mese, eccetera» riflettessero sulla coincidenza della loro posizione con quella di Libero e il Giornale, e si chiedessero se non sono proprio loro, a essersi troppo concentrati sulle lacrime a sfavore dei contenuti.
  4. Inviterei tutti, da ambo le parti, a scollegare le lacrime dalle questioni di genere: il tema non è se Elsa Fornero si sia commossa «in quanto donna», né se «le donne usino il pianto per manipolare», e neppure se «a una donna sia concesso di piangere più che a un uomo». Elsa Fornero si è commossa «in quanto persona», punto. Poteva commuoversi anche un uomo, al posto suo? Certo: nella nostra cultura gli uomini sono educati a non piangere e dunque sono in media più capaci di trattenere le lacrime delle donne, ma può accadere anche ai politici, non solo alle politiche, di piangere in pubblico, in momenti di grande tensione e stanchezza. Penso ad esempio alle lacrime di Fassino, appena eletto sindaco (vedi L’emozione (mostrata e nascosta) di due sindaci neoeletti: Fassino vs. Merola).

Ora, dal punto di vista comunicativo che un personaggio pubblico si commuova non è certo cosa negativa, anzi, perché non solo esprime coinvolgimento personale, ma lo suscita negli altri e lo fa per una sorta di automatismo psico-antropologico: vedere qualcuno piangere ci tocca sempre, sia nel senso della vicinanza empatica, che per alcuni arriva addirittura al contagio, sia nel senso del rifiuto viscerale (per evitare il contagio, appunto). Il che in parte spiega perché le reazioni siano state anche estreme.

Certo, alcuni politici conoscono i vantaggi del pianto in pubblico e lo simulano, se ne sono capaci, al momento opportuno. Ma per simulare il pianto in pubblico in modo credibile, occorre essere attori molto bravi, altrimenti le persone si rendono conto della finzione: ricordo ad esempio quanto sembrò fasulla la commozione di Luca Barbareschi alla convention di Futuro e Libertà nel novembre 2010 (vedi La confezione di Barbareschi e i contenuti di Fini).

Ma Elsa Fornero non è né attrice né politica consumata e la sua commozione era visibilmente autentica. Che la conferenza stampa ne abbia tratto vantaggio dal punto di vista comunicativo è indubbio: senza di lei Monti sarebbe apparso ancora più freddo e Passera ancora più consigliere di amministrazione. Ma chi l’accusa di strategia manipolatoria soffre evidentemente di allucinazioni.

E chi la sbeffeggia «in quanto donna» non vede che la commozione di Elsa Fornero è stata molto più maschile – se di differenze di genere vogliamo parlare – di quanto voglia ammettere, perché subito seguita da scuse, e soprattutto compensata da una chiarezza e lucidità di esposizione – prima e dopo le lacrime – che i suoi colleghi uomini non sono riusciti a eguagliare.

L’operazione immagine «Vado via da questo paese di merda»

Ieri la home page di Libero era questa (clic per ingrandire):

"Paese di merda. Me ne vado"

Impliciti:

  1. Non è vero che sono attaccato alla poltrona come dicono.
  2. Io sono up, voi siete down.
  3. Sono vittima di una congiura ordita dai magistrati, dai media, dalla sinistra e da tutti quelli che sappiamo.
  4. Senza di me, voglio vedere come ve la cavate.

I primi due impliciti sono i più importanti, perché lo mettono in una posizione talmente superiore da disdegnare tutto e tutti, persino la poltrona su cui è seduto.

Non a caso lo «scoop» è stato lanciato da Libero, testata che sostiene Berlusconi e riprende la «notizia» anche oggi sul cartaceo, assieme al Giornale. Per fortuna non ho visto dedicare molte altre prime pagine all’intercettazione da cui la frase è tratta, anche se ovviamente tutti ne parlano. Bene, non ci sono cascati. Non troppo almeno.

Solo il Fatto Quotidiano cartaceo ha aperto dando massimo rilievo alla «notizia».

Nessuno gli ha spiegato che, così facendo, fa un favore a Berlusconi? O voleva proprio farglielo, questo favore?

(Clic per ingrandire.)

Il Fatto quotidiano, «Paese di merda»

Questo lo stralcio dell’intercettazione, da cui peraltro come sempre Berlusconi emerge come donnaiolo. Altro punto a suo favore:

«…Anche di questo – dice Berlusconi, a proposito di alcuni aspetti della vicenda P4 – non me ne può importare di meno… perchè io… sono così trasparente… così pulito nelle mie cose… che non c’è nulla che mi possa dare fastidio… capito?… io sono uno… che non fa niente che possa essere assunto come notizia di reato… quindi… io sono assolutamente tranquillo… a me possono dire che scopo… è l’unica cosa che possono dire di me… è chiaro?… quindi io… mi mettono le spie dove vogliono… mi controllano le telefonate… non me ne fotte niente… io… tra qualche mese me ne vado per i cazzi miei… da un’altra parte e quindi… vado via da questo paese di merda… di cui… sono nauseato… punto e basta…» (fonte: la Repubblica, 1 settembre 2011).

Il discorso presidenziale di fine anno: lodi e attacchi bipartisan

Il discorso che il Presidente della Repubblica fa ogni 31 dicembre è costruito a bella posta per fare il punto sull’anno trascorso e alcune previsioni sul futuro, con toni di incoraggiamento e esortazione.

Non esprime la posizione di una parte o un partito, ma deve rivolgersi a tutti gli italiani e le italiane.

Per questo i discorsi presidenziali di fine anno, pur differenziandosi per stile e contenuti – che dipendono in parte dal presidente, in parte dal contesto storico-politico – devono il più possibile dare un colpo al cerchio e uno alla botte. E per questo, quando vanno bene, ottengono lodi e critiche equamente distribuite fra tutte le parti politiche, sociali, economiche.

È successo anche all’ultimo discorso di Napolitano. Mi stupisco che alcuni se ne stupiscano: in questo senso non è diverso da altri.

Più numerosi sono stati gli apprezzamenti bipartisan (questa è la lista più completa che ho trovato).

Ma non sono mancate le critiche: da sinistra, sul blog di Alessandro Gilioli, che accusa Napolitano di aver sdoganato le riforme istituzionali; da destra, con Vittorio Feltri che il 2 gennaio titola «Che barba il discorso di Napolitano» (gli fa eco in questo articolo Marco Zucchetti).

I discorso è stato inoltre criticato perché ha menzionato il terremoto in Abruzzo, ma ha dimenticato – grave quanto strana mancanza – le tragedie di Messina e Viareggio; e perché è stato messo su Youtube (per la prima volta nella storia, meglio tardi che mai), con i commenti disabilitati, dando prova della solita miopia politica italiana nell’uso della rete.

Idee per una tesi (triennale o magistrale, a seconda del tipo e livello di approfondimento): analizzare dal punto di vista retorico-semiotico il discorso di Napolitano nel quadro dei messaggi presidenziali di fine anno dal 1949 a oggi (tesi magistrale), o dalla cosiddetta seconda repubblica a oggi (tesi triennale).

Trovi sul sito del Quirinale i testi di tutti i messaggi di fine anno degli ex presidenti italiani, fino all’attuale.