Leggo su Gawker, magazine di gossip newyorkese, questa notizia di ieri:
«Now that Obama has been elected, a tipster [se non lo sai, è un introdotto che spiffera informazioni riservate] inside a PR firm tells us, clients are demanding “an increased number of African Americans added to the guest list” at their holiday parties. In the spirit of hope! The email can’t really be “verified,” but appears genuine and is just too important not to share. This firm has even assembled an official internal “Diversified Holiday Guest List,” in which they rank the top 10 acceptable black socialite attendees, in order of desirability. Uh… yes we can?»
Segue la lista dei primi 10 afro-americani che andranno a ruba nei vari parties a Manhattan per le prossime feste. Li trovi, in ordine di desiderabilità decrescente, QUI.
Ma non è una novità! Che le persone di colore belle, ricche ed eleganti siano un ornamento gradito negli ambienti upper class è vero fin da Josephine Baker. Il che non implica aver superato pregiudizi razzisti, anzi.
Ne parlavamo anche nel post del 19 giugno scorso “Obama, la bellezza, la danza”.
Di link in link, ho scoperto la parola “socialite”, e il fatto che negli Stati Uniti la “socialiteness” è sancita dall’iscrizione in un apposito registro, da ben più di un secolo, a repubblicana imitazione degli annuari genealogici nobiliari europei. Su un’altra finestra del mio newsreader stavo leggendo il post di Giuseppe Genna sull’irrazional-popolare, tra i cui esempi lo stesso Genna cita l’incomprensibile notorietà di “socialite” (non sapevo come definire questa figura, quando ho letto il post, mezz’ora fa!) italiani quali Lapo Elkann. Questa etero-induzione di pensiero, questo bombardamento continuo di neutroni intellettuali, così divertente e bello, sta rendendo obsoleto e inutile il mio personalissimo organo di produzione autonoma di intelligenze. Per fortuna, eh.