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Il discorso di Napolitano e i boicottaggi: una fiction politico-mediatica

Sul discorso di fine anno di Giorgio Napolitano abbiamo assistito negli ultimi giorni a una fiction politico-mediatica a puntate. Prima puntata: Beppe Grillo annuncia il suo contro-discorso di fine anno, invitando tutti a non ascoltare Napolitano in tv, ma lui su internet. Perché è fiction: Continua a leggere

Napolitano, i magistrati e la guerra fra bande

La comunicazione di massa funziona per semplificazioni, che spesso si traducono in opposizioni. Nette: i buoni contro i cattivi, o di qua o di là, o con me o contro di me. Così, senza sfumature, perché cogliere le sfumature implica approfondire, incontrare difficoltà, perdere tempo. Non sto dicendo che “la massa” non sia in grado di cogliere le sfumature: spesso, semplicemente, le persone non hanno né il tempo né l’attenzione sufficiente, ogni giorno, per star dietro ai mille distinguo che la complessità del mondo richiederebbe di fare. E spesso mancano anche le competenze, certo: mica possiamo essere tutti tuttologi.

La comunicazione di massa funziona così, e questo non è né un bene né un male: semplicemente è. Perciò politici, giornalisti e chiunque faccia comunicazione non dovrebbero mai scordarlo: se parli a una moltitudine, devi sapere in anticipo che ai più le sfumature non arriveranno. Per quanto ti sforzi di fare distinzioni sottili, ricordati che la maggioranza taglierà sempre netto: o di qua o di là.

È quello che di recente è successo alla questione delle intercettazioni telefoniche sul Presidente della Repubblica. In pochi giorni si sono delineati due schieramenti contrapposti: da un lato Napolitano e Monti, dall’altro i magistrati di Palermo, con relative testate giornalistiche come tifoserie. Con l’eccezione – forse e finora – di Repubblica, che ha ospitato sia editoriali intesi come dalla parte di Napolitano/Monti (quelli di Scalfari, vedi per esempio l’ultimo), sia editoriali presuntamente schierati con i magistrati (quello di Zagrebelsky).

Napolitano fra giornalisti

Perché dico «intesi come» e «presuntamente»? Perché la questione è spinosissima e per comprenderla occorrono competenze giuridiche e costituzionali che non s’improvvisano leggendo qualche quotidiano. Perciò mi domando: quanti fra coloro che in questi giorni si stanno scagliando (in rete, al bar, in spiaggia) o contro i magistrati o contro Napolitano/Monti sanno davvero ciò di cui parlano? Quanti sanno distinguere fra lacune nella costituzione e sue diverse interpretazioni? Fra livello politico e giuridico? Certo nessuno dei più aggressivi, perché se capisci non inveisci. E scommetto pochi anche fra i commentatori in apparenza più informati.

Poi ci sono quelli che, pur capendo benissimo, inveiscono lo stesso, e lo fanno strumentalmente per aizzare le folle. Se sono politici, serve a guadagnare consensi; se giornalisti, a vendere più copie del giornale.

Il problema è che le folle ci cascano: facile che ci caschino in generale – per i motivi che ho spiegato sopra; ancor più facile in un periodo di malessere diffuso come quello che stiamo vivendo. Vedi ad esempio i commenti che ha scatenato ieri su Facebook la pubblicazione dell’ultimo editoriale di Scalfari: un inferno di insulti, banalità e pregiudizi.

Ma la guerra fra bande nuoce al dibattito democratico, perché impedisce il ragionamento e la riflessione pacata e fa di tutta l’erba un fascio. Questa guerra fra bande, poi, è ancora più dannosa di altre, perché implica un ulteriore allontanamento dei cittadini dalle istituzioni. Un aumento della sfiducia generalizzata.

È chiaro infatti che dire «io sto dalla parte dei magistrati» è molto semplice: i magistrati di Palermo lottano contro i mafiosi cattivi, dunque loro sono buoni e fanno solo cose giuste. Io sono buono, dunque sto con loro. Ma tutto ciò cosa implica? che Napolitano è cattivo? Ecco allora che si insinua la sfiducia nel Capo dello Stato, che finora invece godeva dei massimi consensi. Ecco allora che «non se ne salva nessuno», come ripetono in molti. D’altra parte, è intervenuto a difenderlo pure Monti, responsabile di tasse e sacrifici (dunque se non cattivo, almeno cattivello) e se pensiamo che è stato Napolitano a chiamare Monti, be’ è chiaro che «sono tutti una combriccola», no?

Se poi non me la sento di pensare il peggio del presidente Napolitano, finisco in un vicolo cieco: non posso stare né con lui (perché implica stare contro i magistrati, cosa che non voglio), né con i magistrati (perché implica pensare il peggio di un presidente che gode della mia fiducia). Il risultato è una gran confusione in testa e una sfiducia ancora più generalizzata, perché non riuscendo a prendere posizione finisco per non fidarmi di nessuno, né del Capo dello Stato né dei magistrati.

Scriveva Zagrebelsky nel suo editoriale su Repubblica del 17 agosto:

«È davvero difficile immaginare che il presidente della Repubblica, sollevando il conflitto costituzionale nei confronti degli uffici giudiziari palermitani, abbia previsto che la sua iniziativa avrebbe finito per assumere il significato d’un tassello, anzi del perno, di tutt’intera un’operazione di discredito, isolamento morale e intimidazione di magistrati»

Difficile anche immaginare che Napolitano – e Monti dopo di lui – prevedessero l’ulteriore ondata di sfiducia nelle istituzioni e confusione che tutto ciò avrebbe comportato. Perché non l’hanno immaginato? Per l’ennesima sottovalutazione, da parte dei politici italiani fin nelle massime cariche, dei meccanismi di funzionamento della comunicazione di massa. Che i media invece ben conoscono e usano a loro vantaggio. Allora sono i media, a essere cattivi? No, fanno il loro mestiere.

Questo articolo è uscito oggi anche sul Fatto Quotidiano.

Napolitano e Obama: due discorsi di fine anno, due visioni della politica

Premetto che la legittimità del confronto è limitata, per tanti motivi. Come minimo perché i due paesi sono molto diversi per storia e attualità politica, perché anche il ruolo istituzionale dei due presidenti è diverso e la retorica presidenziale pure. Insomma, un presidente italiano non potrebbe mai fare un discorso come un presidente statunitense. Né viceversa.

Però sentire uno dopo l’altro i discorsi di Napolitano e Obama il 31 dicembre mi ha fatto pensare a una somiglianza e una differenza, su cui mi pare comunque utile ragionare.

Somiglianza. Napolitano ha voluto, nel momento di crisi, essere positivo, facendo appello alla fiducia sia all’inizio sia alla fine del discorso. All’inizio: «Il mio è, in sostanza, un grazie per avermi trasmesso nuovi e più forti motivi di fiducia nel futuro dell’Italia. Che fa tutt’uno con fiducia in noi stessi, per quel che possiamo sprigionare e far valere dinanzi alle avversità». Alla fine: «Lasciatemi dunque ripetere: la fiducia in noi stessi è il solido fondamento su cui possiamo costruire, con spirito di coesione, con senso dello stare insieme di fronte alle difficoltà, dello stare insieme nella comunità nazionale come nella famiglia».

Una fiducia che si basa sulla consapevolezza che anche in passato siamo riusciti a superare difficoltà e crisi uguali o anche maggiori. Un passato lontano: «…non dimentico come nel passato, in più occasioni, sia stata decisiva per la salvezza e il progresso dell’Italia la capacità dei lavoratori e delle loro organizzazioni di esprimere slancio costruttivo. […] Non è stato forse così negli anni della ricostruzione industriale, dopo la liberazione del paese? Non è stato forse così in quel terribile 1977, quando c’era da debellare un’inflazione che galoppava oltre il 20 per cento e da sconfiggere l’attacco criminale quotidiano e l’insidia politica del terrorismo brigatista?».

Analogamente, Obama ha improntato il discorso sulla speranza all’inizio e la fiducia alla fine. All’inizio: «I’m hopeful that we have what it takes to face that change and come out even stronger – to grow our economy, create more jobs, and strengthen the middle class». Alla fine: «I’m confident that if we work together, and if you keep reminding folks in Washington what’s at stake, then we will move this country forward and guarantee every American the opportunities they deserve». Ma Obama ha basato l’ottimismo su un passato recente, selezionando alcuni fatti positivi del 2011: il colpo inferto ad al-Qaeda con l’uccisione di Bin Laden, l’intervento salvifico statunitense a fianco di popolazioni colpite da «disastri naturali e rivoluzioni» e i primi «segni di ripresa economica nel paese».

Differenza. La fiducia cui fa appello Napolitano non comporta la partecipazione dei cittadini. La politica è fatta dai partiti e i cittadini devono stare a guardarla, con fiducia, naturalmente: «un vasto campo è aperto per l’iniziativa dei partiti e per la ricerca di intese tra loro sul terreno di riforme istituzionali da tempo mature […].  Mi auguro che i cittadini guardino con attenzione, senza pregiudizi, alla prova che le forze politiche daranno in questo periodo della loro capacità di rinnovarsi e di assolvere alla funzione insostituibile che gli è propria».

Per Obama invece è fondamentale il ruolo attivo dei cittadini: il Congresso è uscito dall’impasse grazie al fatto che gli americani hanno fatto sentire la loro voce: «It was good to see Members of Congress do the right thing for millions of working Americans. But it was only possible because you added your voices to the debate». Il vero fondamento della speranza di Obama per il 2012 sta proprio nei cittadini: «you are the ones who make me hopeful about 2012».

E come hanno partecipato e parteciperanno gli americani? Usando tutti i mezzi possibili: mail, social network, telefono, contatto diretto con i loro rappresentanti: «Through email and Twitter and over the phone, you let your representatives know what was at stake. Your lives. Your families. Your well-being. You had the courage to believe that your voices could make a difference. And at the end of the day, they made all the difference».

Mentre noi italiani stiamo a guardare.

Il discorso di Napolitano:

Il discorso di Obama:

Questo articolo è uscito oggi anche sul Fatto Quotidiano.

I discorsi di Berlusconi, Monti e Napolitano: vince Napolitano

Ieri sera attorno alle 21.00 abbiamo assistito, nel giro di pochi minuti, ai discorsi di tre presidenti: Berlusconi, Presidente del consiglio uscente, Monti, Presidente entrante, e Napolitano, Presidente della Repubblica.

BERLUSCONI

Il discorso di Berlusconi è stato, a detta di tutti, uno dei migliori degli ultimi mesi, tanto da poter essere accostato – come lui stesso ha fatto – a quello della discesa in campo nel 1994. Sono d’accordo, ma solo per quel che riguarda i contenuti strettamente intesi, e cioè senza minimamente tenere conto né del contesto, né della storia degli ultimi anni e mesi, né della performance. Il che però è impossibile, in politica come in qualunque ambito.

Il contesto e la storia recente rendono buona parte del discorso non credibile. Dice di aver «raggiunto molti degli obiettivi che ci eravamo prefissi fin dal 1994», ma non è così. Dice di voler «modernizzare l’Italia, riformando la sua architettura istituzionale, il suo sistema giudiziario, il suo regime fiscale», e di voler «liberare il nostro paese dagli egoismi e dalle incrostazioni ideologiche e corporative che gli impediscono di sviluppare tutte le sue meravigliose qualità e potenzialità», ma sono anni che lui e il suo partito si sono dimostrati troppo lontani da questi obiettivi perché oggi queste parole non suonino vuote.

Nella performance Berlusconi appare teso, stanco, provato: ha gli occhi fissi dell’animale impaurito che gli abbiamo visto diverse volte negli ultimi anni (vedi La faccia di Fini e Berlusconi). A un certo punto, verso la fine, sembra gli manchi pure il fiato: «Non mi attendo… [pausa lunghissima e respiro affannoso mentre scuote impercettibilmente la testa] riconoscimenti, ma non mi arrenderò finché non saremo riusciti a modernizzare l’Italia». Inoltre non sorride mai, se non in chiusura, ma lo fa in modo visibilmente forzato: «A tutti voi l’augurio di poter trasformare in realtài sogni e i progetti [è qui che tenta per la prima volta di sorridere] che portate nel cuore per voi e per i vostri cari [il sorriso si fa più più ampio, ma è sempre tirato]. Viva l’Italia. Viva la libertà».

Insomma l’unica emozione che Berlusconi esprime è la tristezza. Eppure, a leggere il testo del discorso, le emozioni a cui fa riferimento – da bravo ex comunicatore – sono molte: dopo la tristezza, che in effetti nomina all’inizio («È stato, consentitemi di dirlo, triste, vedere che un gesto responsabile e, se permettete, generoso, come le dimissioni sia stato accolto con fischi e con insulti»), ci sono la gratitudine («ringrazio comunque gli italiani, grazie per l’affetto, per la forza che ci avete trasmesso»), l’amore («Fu – e rimane – una dichiarazione d’amore per l’Italia»), l’orgoglio («Siamo un grande paese»), la determinazione («Non mi arrenderò finché…»).

Tante emozioni nominate, ma una sola davvero agita col viso e corpo. Una sola davvero espressa, dunque: la tristezza.

MONTI

Monti fa un discorso molto controllato dal punto di vista emotivo. Esprime gratitudine nei confronti della fiducia che il Presidente della Repubblica gli ha dato, parla di «grande senso di responsabilità», di «sfida del riscatto», di «sforzi», di «dignità e speranza», ma parla soprattutto di doveri («il paese deve vincere… deve tornare a essere… deve essere sempre di più elemento di forza», «lo dobbiamo ai nostri figli…»). Per tutto il discorso Monti esprime solo calma e autodisciplina, facendo molte pause fra una parola e l’altra, anche quando parla del «momento di difficoltà», del «quadro europeo e mondiale turbati», addirittura di «emergenza» e «urgenza».

Non sorride mai, se non rispondendo alla giornalista che gli chiede un riscontro sulle voci circolate sui ministri. Il sorriso, lievissimo e quasi beffardo («ho avuto poco tempo per leggere»), accompagna una netta smentita: «mi dicono che ne sono circolate molte in questi giorni [è qui che sorride], attinenti ai tempi e ai nomi: sono voci di pura fantasia».

È infine quasi brusco quando si sottrae alle ulteriori domande sui tempi: «Proprio per lavorare presto e bene vi saluto e vi ringrazio molto per la vostra attenzione».

Insomma Monti è freddo, ma non può che essere così, perché deve esprimere il massimo controllo della situazione.

NAPOLITANO

Il discorso del Presidente della Repubblica è un vero e proprio storytelling, come oggi va di moda dire, che serve a ricostruire ciò che ha fatto, il contesto e i motivi per cui l’ha fatto.

Napolitano ci rispiega (casomai non l’avessimo capito, noi e i politici che abbiamo votato) «la gravità della crisi finanziaria e dei pericoli di regressione economica dinanzi a cui si trovano l’Italia e l’Europa», regalandoci un bignami della situazione che include dettagli molto concreti: «Da domani alla fine di aprile verranno a scadenza quasi duecento miliardi di Euro di Buoni del Tesoro e bisognerà rinnovarli collocandoli sul mercato».

Mette a posto quelli che alludono alla scarsa democraticità di un governo tecnico: «Non si tratta ora di operare nessun ribaltamento del risultato delle elezioni del 2008 né di venir meno all’impegno di rinnovare la nostra democrazia dell’alternanza attraverso una libera competizione elettorale per la guida del governo».

È interessante come Napolitano riesca a distribuire per tutto il discorso, pur rimanendo sempre nei limiti della correttezza formale, valutazioni personali e pure qualche stoccata. Ricorda che aveva fatto di tutto perché le cose non finissero così: «dopo anni di contrapposizioni e di scontri nella politica nazionale, e di molti inascoltati appelli alla moderazione, a un confronto non distruttivo, a una maggiore condivisione e coesione su scelte e obbiettivi di fondo». Nel definire «Mario Monti, personalità indipendente, rimasta sempre estranea alla mischia politica», fa fare alla politica italiana la figura della «mischia», appunto. Nel raccontare le consultazioni con le forze politiche, placa ogni polemica sulle dimissioni tardive di Berlusconi con un semplice avverbio: le «dimissioni correttamente rassegnatemi dall’on. Berlusconi».

Nella mischia complessiva l’immagine che Napolitano ci offre di sé è impeccabile: «come Capo dello Stato ho seguito con scrupolosa imparzialità questo travaglio, rispettando il ruolo del Presidente del Consiglio e del Governo, in uno spirito di leale cooperazione istituzionale».

E conclude dicendo: «Non è tempo di rivalse faziose né di sterili recriminazioni. È ora di ristabilire un clima di maggiore serenità e reciproco rispetto.» Il che implica, ovviamente, che finora tutto ciò non c’è stato, mentre proliferavano «rivalse faziose e sterili recriminazioni».

Ma il meglio di sé, come persona, Napolitano lo dà rispondendo ai giornalisti: asciutto ma non brusco, gentile ma senza concessioni, lucidissimo e preciso anche senza leggere, liquida il chiacchiericcio mediatico di questi giorni con parole che spero restino a futura memoria: «Naturalmente se qualcuno si inventa prima che si fa il governo in due ore, poi i tempi risultano allungati, ma non si è mai detto con una base minima di serietà che bastasse un giorno, o ventiquattro ore, o tre ore. Come ha detto il professor Monti, farà nei tempi più brevi che consenta il necessario scrupolo per consultare, ascoltare, raccogliere tutti gli elementi e poi venire qui a dirmi se scioglie, come mi auguro, la riserva».

A chi insomma oggi mi chiedesse un buon esempio di leadership politica italiana, risponderei mostrando ciò che ha fatto Napolitano in questi mesi, fino a questo discorso finale. A chi mi chiedesse un parere sulla polemica fra giovani e anziani, in politica come fuori, risponderei definendo Napolitano il più giovane politico e comunicatore che al momento abbiamo. E per fortuna che c’è.

 

 

Il discorso di Napolitano al Meeting: perché è piaciuto e perché no

Il discorso del presidente Napolitano al Meeting di Comunione e Liberazione ha riscosso un buon successo di critica e di pubblico. Non sono mancate le polemiche, naturalmente. Come accade a qualunque star.

Il discorso è stato in sostanza un richiamo all’equilibrio e all’unità (fra le parti politiche, le parti sociali, il nord e il sud), in un momento di gravissima crisi. Accompagnato da un richiamo continuo ai 150 anni della storia d’Italia, per dimostrare che anche altre volte abbiamo superato con successo prove molto dure. Un classico, nei discorsi di crisi.

Ma perché è piaciuto? Perché le ha suonate a tutti: a destra, sinistra e pure alle parti sociali. In questo passaggio fondamentale, non a caso ripreso da tutti i media:

«Possibile che si sia esitato a riconoscere la criticità della nostra situazione e la gravità effettiva delle questioni, perché le forze di maggioranza e di governo sono state dominate dalla preoccupazione di sostenere la validità del proprio operato, anche attraverso semplificazioni propagandistiche e comparazioni consolatorie su scala europea?

Possibile che, da parte delle forze di opposizione, ogni criticità della condizione attuale del paese sia stata ricondotta a omissioni e colpe del governo, della sua guida e della coalizione su cui si regge? Lungo questa strada non si poteva andare e non si è andati molto lontano.

Occorre più oggettività nelle analisi, più misura nei giudizi, più apertura e meno insofferenza verso le voci critiche e le opinioni altrui.

Anche nell’importante esperienza recente delle parti sociali, giunte ad esprimere una voce comune su temi scottanti, ci sono limiti da superare nel senso di proiettarsi pienamente oltre approcci legati a pur legittimi interessi settoriali. Bisogna portarsi tutti all’altezza dei problemi da sciogliere e delle scelte da operare.»

Insomma, il discorso di Napolitano è piaciuto perché è stato inteso nel senso dell’antipolitica. Come se dicesse ciò che tutti ripetono in questi mesi: a casa tutti.

Allora vale la pena ribadirlo: Napolitano non ha niente di antipolitico. Per la sua storia personale, le sue idee, la carica istituzionale che ricopre. E niente di antipolitico aveva il suo discorso.

E difatti, appena qualcuno se lo ricorda, finisce per dire: a casa anche lui.

O di qua, o di là. Invece il suo discorso è ben più ricco e interessante. Leggilo tutto, scaricandolo da QUI.

O ascoltalo direttamente:

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Napolitano, i giovani e il coro

Che il discorso di fine anno del presidente della Repubblica sia fatto per mettere d’accordo tutti (sia bipartisan, come si dice) non è una novità: poiché deve rivolgersi a tutti gli italiani e le italiane, non può certo esprimere una parte.

Per questo, dal 1949 a oggi, i discorsi presidenziali di fine anno, pur differenziandosi per stile e contenuti – che dipendono un po’ dal presidente, un po’ dal contesto storico-politico – devono il più possibile dare un colpo al cerchio e uno alla botte. Perciò di solito ottengono lodi e critiche equamente distribuite fra tutte le parti politiche, sociali, economiche.

Tuttavia, mentre l’anno scorso il bilancio delle lodi e delle critiche era in pareggio (vedi Il discorso presidenziale di fine anno: lodi e attacchi bipartisan), quest’anno Napolitano ha ottenuto solo consensi perché, pur affrontanto molti temi, ha usato la leva retorica che da noi va per la maggiore: i giovani.

Attenzione: non sto dicendo che Napolitano ha fatto il furbacchione per ottenere consensi. Credo che in questo momento il valore simbolico dell’attenzione ai giovani e ai problemi dell’università sia importante. Tanto, che pure il New York Times ha dedicato un articolo all’anomalia italiana: un paese che non solo invecchia («Fra un po’ non ci saranno più italiani né greci, spagnoli, portoghesi o russi – dice al NYT l’economista Laurence J. Kotlikoff – e immagino che i cinesi riempiranno il sud Europa»), ma costringe i pochi giovani che ha ad andarsene per trovare percorsi di lavoro decenti.

Il problema è il coro: tutti a ripetere che bisogna pensare ai giovani, da Berlusconi a Bersani, da Fini a Di Pietro. Tuttavia, come ho detto altre volte, in Italia bisogna sempre diffidare di chi blandisce i giovani: quando va bene, è vuota demagogia (lo dicono e non lo fanno), quando va male equivale a inserire nei partiti e nelle organizzazioni persone poco competenti e preparate, ma in compenso molto inquadrate, deboli e manipolabili dai dirigenti. Non a caso tutti i partiti fanno il coro del «largo ai giovani».

Ma la mancanza di prospettive, in Italia, non riguarda solo i giovani, ma tutte le generazioni. Ed è soprattutto un problema:

  1. del mercato di lavoro, più che del sistema educativo – pur avendo, questo, tutti i problemi che sappiamo;
  2. dell’incapacità, tutta italiana, di darsi regole per introdurre una vera e sana meritocrazia in tutti gli ambienti (aziende, università, scuole, pubblica amministrazione, politica, governo) e per tutte le generazioni.

Una persona va scelta per un certo ruolo (lavoro, carica, funzione) perché ha studiato per quel ruolo, perché è intelligente, creativa, preparata, perché in quel ruolo saprebbe fare questo e quello e lo farebbe con passione e onestà. Non perché ha 20, 30 o 40 anni. E nemmeno perché ne ha 70 o 80, naturalmente.

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Idee per una tesi (triennale o magistrale, a seconda del tipo e livello di approfondimento): analizzare dal punto di vista retorico-semiotico il discorso di Napolitano nel quadro dei messaggi presidenziali di fine anno dal 1949 a oggi (tesi magistrale), o dalla cosiddetta seconda repubblica a oggi (tesi triennale).

Trovi sul sito del Quirinale i testi di tutti i messaggi di fine anno degli ex presidenti italiani, fino all’attuale.

Il discorso presidenziale di fine anno: lodi e attacchi bipartisan

Il discorso che il Presidente della Repubblica fa ogni 31 dicembre è costruito a bella posta per fare il punto sull’anno trascorso e alcune previsioni sul futuro, con toni di incoraggiamento e esortazione.

Non esprime la posizione di una parte o un partito, ma deve rivolgersi a tutti gli italiani e le italiane.

Per questo i discorsi presidenziali di fine anno, pur differenziandosi per stile e contenuti – che dipendono in parte dal presidente, in parte dal contesto storico-politico – devono il più possibile dare un colpo al cerchio e uno alla botte. E per questo, quando vanno bene, ottengono lodi e critiche equamente distribuite fra tutte le parti politiche, sociali, economiche.

È successo anche all’ultimo discorso di Napolitano. Mi stupisco che alcuni se ne stupiscano: in questo senso non è diverso da altri.

Più numerosi sono stati gli apprezzamenti bipartisan (questa è la lista più completa che ho trovato).

Ma non sono mancate le critiche: da sinistra, sul blog di Alessandro Gilioli, che accusa Napolitano di aver sdoganato le riforme istituzionali; da destra, con Vittorio Feltri che il 2 gennaio titola «Che barba il discorso di Napolitano» (gli fa eco in questo articolo Marco Zucchetti).

I discorso è stato inoltre criticato perché ha menzionato il terremoto in Abruzzo, ma ha dimenticato – grave quanto strana mancanza – le tragedie di Messina e Viareggio; e perché è stato messo su Youtube (per la prima volta nella storia, meglio tardi che mai), con i commenti disabilitati, dando prova della solita miopia politica italiana nell’uso della rete.

Idee per una tesi (triennale o magistrale, a seconda del tipo e livello di approfondimento): analizzare dal punto di vista retorico-semiotico il discorso di Napolitano nel quadro dei messaggi presidenziali di fine anno dal 1949 a oggi (tesi magistrale), o dalla cosiddetta seconda repubblica a oggi (tesi triennale).

Trovi sul sito del Quirinale i testi di tutti i messaggi di fine anno degli ex presidenti italiani, fino all’attuale.