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Le contraddizioni di Renzi: un genere audiovisivo che Grillo importa dagli USA

Ecco perché Renzi non è credibile

In questi giorni Grillo ha diffuso un video che mette in evidenza le incoerenze e le contraddizioni di Matteo Renzi, ovvero i motivi per cui, secondo Grillo e i suoi, Renzi non sarebbe credibile. La tecnica è semplice: il montaggio mette in rapida sequenza una frase in cui il leader dice una cosa e un’altra in cui dice il contrario; una promessa e la sua smentita nei fatti; un annuncio e la sua mancata realizzazione. Ecco il video: Continua a leggere

Irene: uragano mediatico o giusto allarme?

Ci sono stati oltre venti morti e danni in oltre dieci stati, ma negli Stati Uniti i repubblicani stanno già montando polemiche contro Obama sul presunto allarmismo con cui è stato trattato il passaggio dell’uragano Irene.

E qualcuno gli fa eco anche in Italia, nell’idea di allineare le destre nostrane a quelle statunitensi. Il Giornale per esempio parla oggi di «Tempesta flop» e titola «L’uragano Irene salva New York. E anche Obama»; il Tempo titola «L’uragano mediatico. Tanta paura per nulla. Irene Lascia New York».

Ma anche altre testate, pur prendendo le distanze dalle «polemiche», usano questa parola nei titoli di prima pagina. La Stampa: «Irene a New York: dopo la paura ironia e polemiche»; la Repubblica: «Irene risparmia New York. Black out e allagamenti, ma l’uragano finisce subito. Milioni di persone senza luce sulla East Coast. Ed è subito polemica sulle misure: troppo allarmismo?».

Fa eccezione il Corriere: «Fine della grande paura. New York torna in strada. Uragano Irene, danni per miliardi», anche se ieri il suo direttore Ferruccio De Bortoli, si chiedeva su Twitter: «#Irene, un uragano più mediatico (e politico) che reale. Meglio così, ma una riflessione, anche nostra, si impone.»

Non credo affatto che stavolta si debba parlare di allarmismo, né mediatico né politico: gli effetti disastrosi di eventi naturali come uragani, trombe d’aria, terremoti sono solo in parte prevedibili. Dunque meglio eccedere in precauzioni che rischiare disastri ancor più gravi.

D’altra parte, se non ci fosse stato il tam tam che c’è stato, sedici morti e miliardi di danni si sarebbero tradotti in titoli come «Strage negli USA. Chi pagherà?». E avrebbero messo pesantemente in discussione il ruolo del sindaco di New York Bloomberg e del presidente Obama.

Invece ieri Obama ha potuto parlare in conferenza stampa di «uno sforzo esemplare di buon governo», ringraziando, vicino a lui, il responsabile della sicurezza nazionale Janet Napolitano e il capo della protezione civile Craig Fugate.

Perché buon governo è stato. E se Obama riesce a chiudere il discorso – magistralmente – paragonando la solidarietà e l’organizzazione con cui gli americani hanno saputo far fronte a un disastro naturale come Irene con le capacità che servono contro la crisi economica, sta di certo sfruttando comunicativamente l’uragano anche per sé, ma ben gli sta: è stato davvero bravo. Prima nel fare e poi nel dire.

E ora goditi i 7’58” della conferenza stampa, che meritano:

 

Vince Pisapia

Non è un sondaggio, che ora sarebbe vietato (ma li fanno lo stesso, vedi Termometro Politico). E non è nemmeno un’opinione basata su una conoscenza approfondita di Milano, perché non sono milanese e ci vado poco.

È solo la mia opinione personale, basata sulla comunicazione che in questi giorni gli uomini e le donne di centrodestra stanno facendo a livello nazionale.

Esageratamente e inutilmente aggressivi, visibilmente impauriti pur facendo di tutto per agitare la paura degli elettori con i fantasmi dei terroristi, dell’islam, dei migranti nordafricani: ecco come sono apparsi gli uomini e le donne di centrodestra negli ultimi giorni. Caricature di sé stessi.

Con la faccia tirata e stanca, gli occhi sgranati nel vuoto: ecco com’è apparso ieri Berlusconi nel breve colloquio in cui ha assalito persino Obama con la sua ossessione per la magistratura. Certo, per lui era importante farsi fotografare con Obama. Ma non in quel modo, non con quella faccia: sembrava un po’ via di testa, uno che ripete sempre le stesse cose, uno che gli parli e non ti vede.

Non so dire se la sconfitta a Milano basterà a mandarlo a casa. Ma sconfitta sarà: è questo che la comunicazione sua e di tutto il centrodestra ci stanno dicendo – no anzi, urlando – da una settimana.

Perciò mi sbilancio: vince Pisapia.

Sempre che la comunicazione conti come credo. E che nel frattempo le compravendite nel retrobottega non facciano miracoli.

Qualche riflessione su Egitto, Tunisia… e noi

Della rivolta in Egitto si potrebbero dire molte cose. Comincio da quelle che finora mi hanno più colpita.

Innanzi tutto l’ambivalenza del rapporto fra Stati Uniti e Egitto: inevitabile dal punto di vista diplomatico, inquietante per i comuni mortali. Le relazioni formali di Obama con Mubarak sono sempre state eccellenti – l’Egitto è un alleato strategico in medio oriente – ma numerosi dispacci su WikiLeaks hanno mostrato che, dal suo insediamento, Obama ha sempre appoggiato i dissidenti egiziani. E nelle sue dichiarazioni, due giorni fa, è riuscito a essere coerente sia con il comportamento sotterraneo che con quello ufficiale.

(Leggi per esempio, sul New York Times, «Cables Show Delicate U.S. Dealing with Egypt’s Leaders», by Marc Landler; o consulta i dispacci di WikiLeaks, facendo una ricerca con “Egypt” nell’apposita (e splendida!) sezione del Guardian: US Embassy Cables: the documents+Egypt.)

In secondo luogo sono andata a guardarmi alcuni dati.

Il reddito medio dell’Egitto è 4665 euro lordi all’anno (vedi la puntata de L’infedele del 17 gennaio 2011), ma secondo Internetworldstats ben il 21,2% della popolazione accede a internet: molti, rispetto alla povertà media, il che spiegherebbe il ruolo importante che internet ha avuto nel diffondere e incanalare lo scontento popolare.

Se poi facciamo un confronto con gli altri paesi del Maghreb in cui sono scoppiate le rivolte, scopriamo che in Tunisia il reddito medio è 7100 euro all’anno e il 34% della popolazione usa internet: più ricchezza più internet più proteste, verrebbe da pensare. E invece no, perché in Algeria il reddito medio è 5568 euro, ma l’accesso a internet riguarda solo il 13% della popolazione.

Internet è importante, dunque, ma non basta. E la relazione fra uso della rete e rivolte popolari non è mai lineare, né semplice (leggi cosa ne ha scritto Vittorio Zambardino QUI e QUI).

Altre considerazioni emergono dal confronto con l’Italia. Alcuni sono infatti tentati di paragonare i moti nordafricani con le piazze italiane di fine 2010: dagli studenti alla Fiom. Ma vediamo.

In Italia l’accesso a internet, per quanto più basso della media europea (che è del 58,4%), è comunque molto più alto che in nord Africa, perché riguarda il 51,7% della popolazione. Ciò indubbiamente favorisce l’organizzazione delle piazze.

Ma il reddito medio che gli italiani dichiarano al fisco (dati 2008) è intorno ai 18.000 euro lordi all’anno. Ora, poiché sappiamo che l’Italia è un paese di evasori, possiamo supporre che in realtà sia superiore. Ma poiché le statistiche fanno sempre torto ai più deboli (se io mangio un pollo e tu niente, risulta che abbiamo mangiato mezzo pollo a testa), andiamo a guardare anche i redditi più bassi degli operai Fiat: ebbene, vanno da 11.000 a 14.000 euro annui lordi.

Insomma, l’italiano medio sta molto meglio di un egiziano, tunisino, algerino medio. E persino gli italiani che stanno peggio, in realtà stanno meglio dei nordafricani (per quanto ancora?).

Infine, per capire una differenza cruciale fra le piazze algerine, tunisine, egiziane e le nostre, pensiamo a questo. L’età media delle popolazioni del nord Africa è 27 anni. L’età media degli italiani è circa 50 anni e i giovani fra 15 e 24 anni, quelli che dovrebbero trainare proteste e rivolte, sono solo il 10% della popolazione. Il che vuol dire 6 sparuti milioni. Di cui il 28,9% sono disoccupati. Molti, dal nostro punto di vista. Pochissimi dal punto di vista di un maghrebino, dove in certe aree la disoccupazione giovanile supera il 70%.

Al Jazeera: «In pictures: Egypt in Turmoil»

President Obama on the Situation in Egypt

Il blitz di Obama sui media

Newsweek ha inaugurato una nuova serie video, con cui mette in evidenza, ogni settimana, l’ossessione mediatica che l’ha contraddistinta.

Quella della settimana scorsa: Obama visibile, udibile e leggibile ovunque.

Vale la pena ricordare il principale rischio del presenzialismo mediatico, già messo in evidenza da Ilvo Diamanti su Repubblica, qualche giorno fa, a proposito di Berlusconi: il fastidio, la ripulsa del pubblico.

Per il video devi seguire il link, perché la rivista non permette l’embedding.

The Weekly Obsession: A Presidential Media Blitz

La piazza contro Obama

Sulla riforma sanitaria Obama sta rischiando grosso.

Secondo i dati ufficiali dell’US Census Bureau relativi al 2008, l’attuale sistema sanitario americano, per due terzi privato e tra i più cari al mondo, non copre 46,3 milioni di americani (erano 45,7 milioni nel 2007). La riforma è perciò necessaria, e su questo concordano persino alcuni repubblicani, ma Obama stenta a farla passare perché l’attuale sistema coinvolge troppi interessi corporativi, assicurativi, finanziari.

Contro il cosiddetto Obamacare, sabato scorso «la gente» – dicono gli oppositori di Obama – è scesa in piazza a Washington.

La gente?

A proposito di quanto dicevamo la settimana scorsa sulla piazza mediatizzata, vale la pena ricordare che, secondo l’osservatorio Campaign Media Analysis Group, gruppi di pressione e lobby ostili alla riforma hanno speso, in soli 6 mesi, oltre 57 milioni di dollari in spot televisivi, la maggior parte dei quali fra luglio e agosto.

C’è da stupirsi se la gente è scesa in piazza?

Si tratta di verificare quanti erano: il New York Times parla di qualche decina di migliaia, i media conservatori dicono un milione o due. La polizia non ha fornito dati ufficiali. Solito balletto di cifre. Solite angolature tendenziose, per cui in una foto vedi la folla, in un’altra sembrano pochi.

Si tratta di capire, ora, se le organizzazioni che sostengono Obama agiranno con altrettanta virulenza finanziaria e mediatica. Ma perché non lo hanno già fatto? Dov’è finita la loro capacità di mobilitarsi? I loro soldi?

Il problema – di questa come altre piazze – più che i numeri (manipolabili) sono i simboli.

Mi ha colpita, in questo caso, la loro aggressività: Obama come Hitler (nazista) e come Joker (malvagio e pazzo). Obama Parasite-in-Chief (comandante dei parassiti). Il tutto urlato da persone che, rifacendosi ai padri fondatori, vestivano abiti coloniali.

Mi hanno colpita le contraddizioni: Obama come Hitler, ma anche Che Guevara. A pochi metri di distanza (clic per ingrandire).

Obama Hitler

Obama Joker

Obama Parasite-in-Chief

Obama Che Guevara

Manifestanti in abiti coloniali

Il team di Obama fa lezione al PD

Leggi cosa ci racconta oggi Loredana Lipperini:

«Ieri pomeriggio ho conosciuto Ben Self e Dan Thain. In altre parole: Blue State Digital. In altre parole ancora: coloro che hanno predisposto e realizzato la strategia on line per la campagna elettorale di Barak Obama.

L’occasione era un incontro fra alcune persone che si occupano di/vivono su/scrivono per il web in Italia e chi, nel Partito Democratico, si occupa di/ragiona su/lavora per il web medesimo. È, per la cronaca, il secondo incontro a cui ho preso parte in quel del Nazareno, insieme a un piccolo gruppo di blogger, imprenditori, giornalisti, operatori della rete.

Ed è stata un’occasione molto, molto interessante.

Self e Thain hanno parlato di cose note e no. Hanno precisato…».

Continua a leggere QUI.

Sapranno, quelli del PD, imparare la lezione dal team di Obama?

Io sono pessimista, purtroppo. C’è troppa strada da fare. Ci vogliono persone nuove, competenti, intelligenti. Ma da troppi anni i bravi e intelligenti sono stati sacrificati dal PD, mai accolti, incoraggiati, promossi.

Con quel gruppo dirigente, come fanno a cambiare strada? Possono al massimo fingere di farlo, radunando esperti, organizzando conferenze e cose analoghe. E strombazzando un po’ in giro di averlo fatto. (Poco però, perché fuori Roma neppure si sa).

Per poi continuare di testa (testa?) loro.