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Poliziotti che si tolgono il casco: un gesto perfetto

Poliziotti che si tolgono il casco

Le immagini dei poliziotti che l’altro giorno a Torino si sono tolti il casco, fra gli applausi dei manifestanti, fanno ancora discutere: l’hanno fatto per dimostrare che condividevano le ragioni della protesta? l’hanno fatto per solidarietà umana? o perché è per loro normale farlo, ogni volta che vengono meno le condizioni di pericolo che li costringono a proteggere la testa da percosse e lanci di oggetti? Già la sera di lunedì una nota della questura precisava Continua a leggere

Dopo #torinoburning, una riflessione sul falso stupro

Dopo la vicenda raccapricciante del campo nomadi bruciato a Torino (QUI lo storify di Valigia Blu), è utile fare qualche riflessione sulla notizia che appare secondaria: quella di una ragazzina di sedici anni che si inventa, complice il fratello, di essere stata stuprata da due rom, perché lo ritiene meno grave che confessare ai genitori di aver avuto, consenziente, il primo rapporto sessuale.

Campo nomadi bruciato

Riprendo in proposito uno spunto di Michela Murgia:

Giustissima la critica al razzismo. Giustissimo chiedersi che cosa sta succedendo a Torino.

Ma spero che qualcuno si faccia domande anche su che tipo di società è quella che induce una giovane donna a credere che la condizione di stuprata sia per lei socialmente più vivibile di quella di chi fa sesso perché lo ha deciso.

Ora, posto che una comprensione decente e rispettosa di «ciò che induce» una ragazzina a inventarsi uno stupro non può prescindere dalla sua storia psicologica individuale e dal complesso intreccio di relazioni psico-affettive del sistema familiare in cui vive, le determinanti sociali di questo comportamento sono indubbie, visto che espisodi del genere sono ormai numerosi.

Lo riferiscono psicologi e psicoterapeuti. E lo riferiscono le cronache. A memoria ricordo un paio di episodi: uno del settembre 2006 ad Anzola Emilia, in provincia di Bologna (la ragazzina aveva solo dodici anni), l’altro del giugno 2009, a Vedelago, in provincia di Treviso, che coinvolse una quindicenne. Ma ce ne sono sicuramente altri che mi sfuggono.

Insomma il fenomeno ha un rilievo anche sociale, tanto che in rete abbondano siti e forum più o meno esplicitamente misogini, che collezionano cronache di finti stupri, per inveire una volta di più contro il genere femminile. E anche riguardo a Torino, i commenti sono passati subito dall’invettiva contro i rom a quella contro la ragazzina, definita «cretina», «troietta», «demente» e via dicendo.

Mi soffermo su tre punti:

  1. Non è prendendosela con la ragazzina che si esprime la propria solidarietà con i rom, perché l’aggressività contro lo straniero e quella contro le donne sono figlie della stessa cultura: non c’è da stupirsi che si passi con facilità dall’una all’altra, e lo si può fare anche senza chiamare la ragazzina «troietta», ma facendo domande in apparenza innocenti come quella che un lettore di Italians sul Corriere rivolge a Beppe Severgnini: «Chi è peggio secondo te? La ragazza o i “manifestanti”?».
  2. Queste adolescenti inventano stupri per i motivi più disparati, che sono legati – ripeto – alla loro psicologia individuale, alle dinamiche del sistema di relazioni affettive in cui vivono, al senso che l’invenzione di uno stupro può avere in quel momento per loro, in relazione alla madre, al padre o alla figura con cui stanno negoziando affettivamente qualcosa. Dunque generalizzare e sputare sentenze che valgano per tutte è pura idiozia.
  3. Detto questo, la determinante sociale sta in questo: la sceneggiatura «stupro», che vede la donna nel ruolo di vittima da compatire, curare e risarcire, da un lato, e i pregiudizi contro «i rom» e «gli zingari» (ma anche contro «i nordafricani», «gli extracomunitari» ecc.), dall’altro, sono due grumi concettuali ed emotivi che la società italiana mette a disposizione di queste ragazzine come di tutti noi. Ognuno poi li rielabora in modo più o meno consapevole, prendendone le distanze o meno, a seconda dei propri strumenti culturali, del contesto sociale in cui vive e della propria individualità.

Con gli stessi due ingredienti in testa, la ragazzina ha inventato uno stupro; la Stampa ha inventato il titolo «Mette in fuga i due rom che violentano la sorella»; i «manifestanti» di Torino hanno dato fuoco al campo nomadi.

Dopo di che, la ragazzina ha confessato e chiesto scusa alla città e «ai bambini del campo»; la Stampa pure ha «confessato» e chiesto scusa («ai nostri lettori e soprattutto a noi stessi», con tipica autoreferenzialità mediatica): «Il razzismo di cui più dobbiamo vergognarci è quello inconsapevole… Probabilmente non avremmo mai scritto: mette in fuga due «torinesi», due «astigiani», due «romani», due «finlandesi» (vedi Linkiesta, Il finto stupro di Torino, la Stampa e il facile mea culpa sui rom).

Ma i «manifestanti» di Torino non hanno chiesto scusa a nessuno, né tanto meno ai rom. E non è prendendosela con «la cretina» che si manifesta la propria superiorità a queste cose, come un po’ ovunque sto leggendo e sentendo.

L’emozione (mostrata e nascosta) di due sindaci neoeletti: Fassino vs. Merola

Ieri sera ho partecipato alla lunga maratona elettorale di Bologna, come ospite del direttore Francesco Spada nello studio di È tv. Il discorso di Merola, poco prima delle 3 di notte, è stato piuttosto convenzionale, se non per la menzione all’«avarizia» dei grillini, che hanno ottenuto quasi il 10% dei voti e festeggiato in piazza, tenendosi ben lontani dal Pd:

«Abbiamo vinto al primo turno – ha detto Merola – malgrado non sia mancata quella che avevo definito l’avarizia del Movimento 5 Stelle, che anche stasera ha festeggiato da solo, ma io insisterò per strappargli un po’ di generosità. […] A costo di sembrare ingenuo, insisterò per un confronto leale sui programmi e una convergenza sui problemi sia con il centrodestra sia con il Movimento 5 Stelle».

Mi ha colpita, del discorso di Merola, la neutralità emotiva: pochi sorrisi e, come al solito, eloquio lento e monotono. Merola è noto per la facilità con cui si emoziona, per cui immagino abbia fatto di tutto per controllarsi, in un contesto in cui la stanchezza poteva giocargli un brutto tiro. Eppure, in questo caso gli avrei consigliato di lasciarsi andare.

Qualche lacrima, nel discorso della vittoria, cattura simpatie, scalda i cuori e scioglie la tensione di tutti. Perché controllarsi?

Piero Fassino a Torino, per esempio, non si è preoccupato di nascondere la commozione e ha pure incluso un ringraziamento alla moglie Anna.

Risultato: Fassino faceva tenerezza, Merola è apparso freddino.

Il discorso di Fassino:

Il discorso di Merola:

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Ancora su Fini e Bersani

Il collega e amico Fabrizio Bercelli mi ha proposto altri stimoli per continuare a ragionare assieme sulla comunicazione di Gianfranco Fini, mettendola a confronto con quella di Pier Luigi Bersani. Ieri infatti Bersani ha chiuso la festa del Pd a Torino. Ed è a partire da questo discorso che Bercelli scrive:

«Non so se deciderai di confrontare, come verrebbe naturale, il discorso di Bersani ieri a Torino con quello di Fini di domenica scorsa.

Ti anticipo la mia impressione:

  1. La sostanza mi sembra la stessa, anche se richiami storici ed etichette ideologiche sono contrapposti.
  2. Idem il buon equilibrio fra passione e ragione.
  3. Bersani va di più nei dettagli tecnici, dando l’impressione di una maggiore competenza economica (dichiarata con efficacia “sappiamo dove prendere i soldi e dove metterli”). Però affastella troppi dettagli su troppe cose, col risultato di rendere meno chiara la linea complessiva della sua proposta. Tutto sommato non malissimo, ma retoricamente meno efficace.
  4. La tua distinzione “noi come voi” vs. “io per voi” regge in parte. Mi sembra più un “noi con voi” vs. “io per voi”. Importante la differenza fra il “noi” di Bersani e lo “io” di Fini. Meglio “io”, tutto sommato.»

Premettendo che non ho ancora analizzato il discorso di Bersani, mi limito a qualche rapido commento sui punti sollevati dal collega:

  1. Sono d’accordo con Bercelli, se per «sostanza» intendiamo la consonanza di contenuti di cui s’è detto in «Perché Fini sembra di sinistra (anzi meglio)».
  2. Ho trovato più convincente la passione dimostrata da Fini a Mirabello (specie alla fine) rispetto a quella di Bersani, che in fondo non ha fatto altro che metterci la carica emotiva che spetta a qualunque comizio di fronte ai propri elettori e simpatizzanti.
  3. D’accordo con Bercelli: il tecnicismo e il linguaggio involuto sono, appunto, alcuni problemi della comunicazione di Bersani.
  4. Mhm, non so. Mi riservo di pensarci. Ci torneremo.

Trovi tutto il discorso di Bersani, a puntate, sulla home di YouDem (al momento l’embedding non funziona).

I miei dubbi su Debora Serracchiani 2

Avevo già espresso qualche dubbio QUI.

Ma continuo a osservarla speranzosa, perché rispetto i voti che ha ottenuto e gli entusiasmi che suscita.

Eppure il suo discorso all’incontro organizzato dai giovani del PD, il 27 giugno al Lingotto (QUI una sintesi su La Stampa), mi ha delusa un’altra volta. Molto.

Intanto l’esordio: «Alzi la mano chi non ha telefonato o scritto a Debora Serracchiani in questi giorni». Ma come? Si è già montata la testa? O ha bisogno di conferme e cerca l’ovazione con i trucchetti? (E infatti non arriva.)

Ma la delusione peggiore è il vuoto che segue.

Chiede «un modello culturale che sia alternativo a quello della destra», ma si limita a sciorinare tautologie, traducendo l’agognata «alternativa» ora in «rinnovamento», ora in «diversità», senza mai spiegare in cosa tutto ciò consista. (E sempre prendendo la destra come polo negativo di riferimento: il solito – ancora! – elefante di Lakoff.)

Dice «non abbiamo bisogno di un capo, di una figura salvifica, del messia», ma poi chiede che «qualcuno di quelli che c’è… non dico si faccia da parte, ma accetti, si assuma la responsabilità di un patto generazionale e dica: “Vi aiuto a venire qui”».

Non un messia, dunque, ma un padre per le nuove (?) generazioni del PD, che in questo momento Debora simboleggia. Perché i cosiddetti giovani – assicura – «hanno solo bisogno che qualcuno gli dia una mano a crescere», per costruire quello che lei chiama un «partito adulto».

Poveri piccoli. Povero bimbo PD.

Ripete che ci vogliono contenuti, risposte, soluzioni («Vi faccio un appello perché credo che ci stiamo fermando alle persone, ci stiamo fermando alle idee, non stiamo andando ai contenuti, non stiamo andando alle risposte»), ma lei per prima non ne dà. In dieci minuti di discorso.

Sarà perché ha calcolato male i tempi? A un certo punto infatti le dicono di stringere, e lei chiude con un indecoroso: «Volevo dirvi qualcosa che tutti vi aspettate che vi dica, ma evidentemente non ve lo dico oggi.»

Sarà per la prossima volta?