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Migranti: solidarietà e accoglienza insegnando la lingua italiana

Migranti

A proposito delle raccolta che sta facendo Valigia Blu di storie positive sull’accoglienza che moltissimi italiani mettono in atto ogni giorno nei confronti di migranti che vengono da tutto il mondo, segnalo la storia che appare oggi su Nuovo e utile. Ilaria si laureò con me in Semiotica ormai diversi anni fa. Da anni lavora a Milano con Annamaria Testa, che le ha chiesto di raccontare l’esperienza che sta facendo da tre anni. Ecco le sue parole:
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La petizione #dilloinitaliano: cosa farà, in concreto, l’Accademia della Crusca

Dillo in italiano. Petizione

Dopo il successo della petizione #dilloinitaliano lanciata da Annamaria Testa a metà febbraio (a oggi conta quasi 70.000 firme, ne avavamo parlato QUI), il Presidente dell’Accademia della Crusca ha risposto, promettendo diverse iniziative a favore di un uso più consapevole di parole italiane – quando opportune e preferibili – invece dei continui prestiti e calchi dall’inglese che i media, i politici e chi ne segue vizi e vezzi ci infliggono tutti i giorni. In particolare il presidente Claudio Marazzini annuncia che Continua a leggere

La petizione #dilloinitaliano: quello che è successo

Dillo in italiano. Petizione

A poco più di un settimana dal lancio sulle pagine di Internazionale e di Nuovoeutile la petizione #dilloinitaliano lanciata da Annamaria Testa ha raccolto più di 55.000 adesioni. Hanno firmato persone di tutti i tipi: studenti, anziani, traduttori, poliglotti, molti insegnanti d’inglese e d’italiano, italiani all’estero e stranieri residenti in Italia, ma anche persone che non si attribuiscono nessun titolo per firmare. E poi: Continua a leggere

Consigli a un/a giovane per trovare lavoro

Arnald Lobby del lavoro

Alcuni suggerimenti utili per un/a giovane che cerca lavoro con una laurea nel settore umanistico (ma non solo), vengono da un articolo su Nuovo e utile di qualche tempo fa, che riprendo perché è sempre valido e oggi più di ieri, tutti i giorni in tutti i contesti (via mail, a ricevimento studenti, sulle scale in università, per strada), mi capita di dover rispondere a domande su questo tema. Suggerisce Annamaria Testa:

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Quattro chiacchiere su SpotPolitik con Eco e Testa

Domani alla libreria Feltrinelli di piazza Piemonte 2 a Milano, alle ore 18:30, ho l’onore e il piacere di chiacchierare di SpotPolitik con Umberto Eco e Annamaria Testa. Clic per ingrandire:

SpotPolitik presentazione a Milano

Colgo l’occasione per raccogliere qui tutte le recensioni, segnalazioni e interviste che il libro ha ottenuto finora, su carta e on line, ringraziando ancora una volta chi mi ha dedicato tempo e attenzione.

Sulla carta (in ordine cronologico decrescente):

Il Mondo, 25 maggio 2012, Antonio Calabrò “Questa pazza, pazza politica”

La Gazzetta del Mezzogiorno, 16 aprile 2012, Gino Dato “Dimmi come parli e ti dirò che politico sei”

Repubblica, 25 marzo 2012, Luca Sancini “Errori e orrori dei politici in tv”

Europa, 17 marzo 2012, Roberto Fagiolo “Perché la casta non sa comunicare”

Repubblica, 13 marzo 2012, Anais Ginori “Uomini che copiano le donne”

Repubblica, 3 marzo 2012, Giovanni Valentini “Quando le donne non fanno notizia”

Corriere della sera, 2 marzo 2012, Maria Antoniettà Calabrò “McLuhan aveva torto: nei discorsi dei politici serve più sostanza”

On line (in ordine cronologico decrescente):

Blog Adci (Art Directors Club Italiano), 6 giugno 2012, Massimo Guastini “Giovanna Cosenza ‘one of us'”

Server Donne, 28 maggio 2012, “SpotPolitik. Marzia Vaccari intervista Giovanna Cosenza” (video)

Nybramedia, 19 maggio 2012, Armando Adolgiso “Intervista su SpotPolitik”

Il corpo delle donne, 5 maggio 2012, Lorella Zanardo “Votate domani? Leggete SpotPolitik!”

Spinning Politics, 22 aprile 2012, Walter Di Martino “Oltre la SpotPolitik”

Tafter Cultura e Sviluppo, 17 aprile 1012, “Recensione a SpotPolitik”

Lipperatura, 30 marzo 2012, Loredana Lipperini “Ciao, casalinga leccese”

Il mestiere di scrivere, 26 marzo 2012, Luisa Carrada “SpotPolitik: se la conosci la eviti”

Nybramedia, 16 marzo 2012, Armando Adolgiso “Recensione a SpotPolitik”

Valigia Blu, 14 marzo 2012, Matteo Pascoletti “SpotPolitik. Perché la ‘casta’ non sa comunicare”

Nuovo e utile, 8 marzo 2012, Annamaria Testa “La destra, la sinistra, il web e una bella storia cominciata su NeU”

Nazione Indiana, 7 marzo 2012, Orsola Puecher “SpotPolitik di Giovanna Cosenza”

Il Comizietto, 5 marzo 2012 “Recensione a SpotPolitik di Giovanna Cosenza”

Inglese all’università: sogno o nightmare?

La settimana scorsa Annamaria Testa ha commentato su Nuovo e utile l’annuncio del rettore del Politecnico di Milano Giovanni Azzone, per cui dal 2014 i corsi di laurea magistrale e di dottorato del Politecnico si terranno in inglese, e quello del ministro Profumo, per cui sarebbe auspicabile che gli atenei italiani più prestigiosi, almeno in alcuni settori, facessero altrettanto.

Rilancio qui l’articolo di Annamaria, che solleva molti interrogativi fondamentali. Premetto tuttavia che:

  1. Non condivido tutte le critiche che sono state mosse alla svolta del Politecnico, perché mi paiono motivate – non quella di Annamaria – dalla consueta resistenza conservatrice di un’Italia che stenta ad accettare il confronto internazionale: il mio sogno è insegnare e vivere in un ambiente multidisciplinare, multilingue e multietnico, ma mi scontro tutti i giorni con una realtà lontanissima da questo. Non vorrei mai che la pioggia di critiche che stanno arrivando al Politecnico frenasse un tentativo, pur imperfetto, in questa direzione.
  2. Proprio in questo periodo sto tenendo, al master Marketing, Communication and New Media di Alma Graduate School, per la mia prima volta un corso tutto in inglese di 40 ore (Strategic Positioning and Online/offline Reputation) a una classe mista di italiani e giovani da tutto il mondo: conosco bene, dunque, le difficoltà di questa situazione, sia mie sia degli studenti, che tuttavia, data la materia già molto internazionalizzata, riguardano non tanto i contenuti quanto la costruzione delle relazioni, certo facilitate quando si può usare la propria lingua madre per scherzare, fare ironia, gestire le emozioni proprie e altrui. Ebbene, ci stiamo sforzando tutti (io per prima) di superarle e vedremo come andrà. L’anno prossimo certo andrà meglio.

Detto questo, la parola ad Annamaria:

«Il rettore del Politecnico di Milano vuole rendere obbligatorio l’insegnamento in inglese per tutti i corsi di tutte le lauree specialistiche. Il progetto suscita diverse perplessità. Ecco quanto ne scrive il linguista Raffaele Simone. Qui il parere dello scrittore Sebastiano Vassalli. Qui, invece, l’opinione di Carlo Palermo, preside della Scuola di Architettura e Società del medesimo Politecnico. L’Accademia della Crusca sta raccogliendo diversi contributi sull’argomento e ha chiesto anche il mio. Pubblico in anteprima su NeU il testo che ho appena inviato.
——

Make your English clear

Ho letto, e poi riletto diverse volte quanto scrive Giovanni Azzone nel suo intervento sul Corriere della Sera dell’11 marzo. Se ho ben capito, l’introduzione dell’inglese al Politecnico di Milano come lingua esclusiva e obbligatoria per l’intera formazione specialistica servirebbe: (a) a far sì che gli studenti italiani imparino a interagire in un ambiente globale, preparandosi a svolgere un ruolo attivo nella società; (b) a formarlo, l’ambiente globale, attirando docenti e studenti stranieri; (c) a far sì che, nei confronti degli stranieri, il nostro paese possa manifestare tutta la sua capacità di attrazione culturale e di lifestyle; (d) a trattenere qui gli studenti italiani più aperti al mondo, i quali altrimenti andrebbero a formarsi altrove.

Immagino che l’obiettivo maggiore di ogni corso di laurea sia offrire la miglior formazione possibile, nel modo più efficace possibile. Perché il perseguire obiettivi ulteriori (l’inglese, l’ambiente globale, e così via) non vada a detrimento del primo, credo che si debba verificare l’esistenza di alcune condizioni di base. Per esempio.
– Tutti i docenti italiani parlano perfettamente inglese.
– Tutti i docenti stranieri non di madrelingua inglese si sentono più a loro agio con l’inglese che, magari, con il francese o lo spagnolo.
– Tutti gli studenti italiani capiscono perfettamente l’inglese.
– Non c’è nessuna differenza di qualità, per quanto riguarda i docenti italiani, tra le lezioni tenute in italiano e quelle tenute in inglese.
– Non c’è un significativo aumento di difficoltà per nessuno studente.
– Tutti i testi necessari per ogni corso sono disponibili in inglese.
– In ogni aula c’è un buon numero di studenti stranieri anglofoni, o non anglofoni ma la cui seconda lingua è l’inglese (e non, magari, lo spagnolo o il francese. O perfino l’italiano).

In assenza di queste condizioni di base il sogno di un’università cosmopolita rischia di trasformarsi in un nightmare di lezioni semplificate, liste a punti in powerpoint lette con pessimo accento, perifrasi tanto spericolate quanto vaghe, studenti che non capiscono o fraintendono, gruppi di italiani che si parlano tra loro in inglese maccheronico, docenti italiani il cui inglese imperfetto viene scambiato per imperfetta competenza della materia,  anglofoni che si mettono le mani nei capelli perché gli sembra di non capire la loro stessa lingua, appunti che non trovano corrispondenza nei libri di testo, risultati d’esame malamente influenzati dalle disuguali competenze linguistiche vuoi dei docenti, vuoi degli studenti, idee sfuocate e buchi cognitivi: primo fra tutti la perdita dei termini italiani tecnico-scientifici che possono essere necessari poi per farsi capire qui, da noi, nel mondo del lavoro, sia agli italiani, sia agli stranieri che volessero fermarsi in Italia.

Non sarebbe più semplice, e più sicuro, potenziare gli insegnamenti in inglese senza rendere obbligatoria l’adozione dell’inglese per tutti, per tutto, a qualsiasi costo e a prescindere, consentendo anche insegnamenti in italiano o in altre lingue di ampia diffusione?
Procedere gradualmente non aiuterebbe a testare la fattibilità del progetto su ciascun singolo insegnamento, a sperimentare nuove formule, magari a verificare – sarebbe interessante farlo – quali dinamiche cognitive vengono attivate, e come, nell’apprendimento di materie complesse in un’altra lingua, e poi a individuare strumenti che possano aiutare chi, con l’altra lingua, ha qualche difficoltà?

Sul tema dell’inglese obbligatorio vorrei anche porre alcuni quesiti di carattere più generale:
– perché in un’università sì globale e cosmopolita, ma italiana, né l’italiano né nessuna lingua oltre all’inglese può avere diritto di cittadinanza?
– perché si considera prioritaria una formazione in inglese rispetto alla miglior formazione possibile, in qualsiasi lingua sia (e meglio se in più di una)?
– perché si ritiene che uno studente straniero sia per forza più attratto da una laurea specialistica in Italia tutta e solo in inglese? E non, per esempio, dalla scelta più ampia tra il frequentare corsi in inglese e corsi in altre lingue, italiano compreso?
– che c’entrano l’attrattività dell’Italia e dello stile di vita italiano con la scelta di una singola università di parlare d’obbligo solo inglese? Studenti stranieri che hanno studiato in Italia, e anche imparato un po’ di italiano, non potrebbero essere ottimi ambasciatori dell’Italia nei paesi d’origine, e nel mondo?
– perché un bravo laureato italiano che vuole restare in Italia dovrebbe trovarsi orfano dei termini e delle categorie necessarie a ragionare anche nella sua lingua madre delle materie di cui più dovrebbe essere competente?
– perché uno studente davvero aperto al mondo e desideroso di andare a confrontarsi con la cultura, i ritmi, la vita e le opportunità di un paese straniero dovrebbe cambiare idea solo in seguito all’offerta di un insegnamento inglese in Italia?
– e perché mai, se si vuole sul serio integrare l’apprendimento dell’inglese nell’offerta educativa nazionale, si comincia dal fondo, dagli insegnamenti più complessi, da un’età in cui imparare bene una lingua straniera tanto da usarla correntemente è comunque meno naturale, invece che dalla scuola primaria?

Infine: ogni lingua ha in sé processi mentali, storia, cultura, memoria, visioni peculiari.
Molti studiosi, e tra questi Teresa Amabile della Harvard Business School, ci dicono che la creatività, intesa come capacità di progettare qualcosa di nuovo che sia socialmente utile, cresce con la varietà delle esperienze e dei punti di vista.
Gruppi creativi risultano tanto più fertili quanto più la loro composizione è varia per sesso, età, genere, etnia, provenienza e cultura dei partecipanti e quanto più vengono esposti simultaneamente a stimoli culturali diversi.
Non può darsi che il riconosciuto valore degli italiani, quando vanno all’estero, derivi sia da una preparazione in genere eccellente, sia da uno stile di pensiero italiano che andrebbe se mai, insieme alla lingua, preservato e valorizzato?

Certo: oggi saper pensare e lavorare in inglese è indispensabile. Ma anche saper pensare e lavorare in italiano, per un nativo, lo è. Una competenza non può e non deve escludere l’altra. È una questione di radici, di maggior ricchezza di risorse cognitive e, perché no?, di orgoglio e di identità.

L’immagine di sopra si intitola Sheep, Ship, Chip ed è tratta da Adsoftheworld

Consigli a un/a giovane (e meno giovane) che cerca lavoro

Alcuni suggerimenti utili per un/a giovane che cerca lavoro (con una laurea nel settore umanistico ma non solo) vengono dal sito Nuovo e utile di Annamaria Testa, che ieri ha aperto sul tema:

  1. A partire dalla vostra formazione e dalle vostre capacità, cercate di capire a quale profilo professionale potreste aspirare. E di capire qual è il nome di quel profilo. Siate specifici.
  2. Informatevi sull’azienda alla quale vi state rivolgendo, e fate capire che ne sapete qualcosa. Ricordate che la prima, o una delle prime domande di qualsiasi colloquio è “che cosa sa lei della nostra azienda?”
  3. Quando dico “documentatevi” intendo “dedicate diversi giorni” (non qualche decina di minuti). Siate sistematici. Approfondite.
  4. Prima cominciate, meglio è. Un lavoro non si trova subito. Possono essere necessari mesi (cinque in media. Ma date un’occhiata a tutti gli altri dati a questa pagina). Iniziate a guardarvi in giro e a documentarvi prima ancora di finire la tesi. E se siete così fortunati da trovare un’opportunità interessante, acchiappatela al volo.
  5. A proposito di rete: considerate che ormai è un luogo frequentato dalle imprese per la ricerca di info sul personale.
  6. Siate accurati. Un curriculum pieno di refusi viene cestinato. Un curriculum disordinato o sgrammaticato viene cestinato. Una mail d’accompagnamento superficiale, generica o poco cortese fa una pessima impressione. E aggiungetele sempre, due righe (mirate) di accompagnamento.
  7. Non aspettatevi che tutti vi rispondano: purtroppo non succede. Ma cercate comunque di trasmettere, in quanto scrivete o dite, il vostro entusiasmo, la vostra disponibilità, la vostra speranza e la vostra dignità di giovani donne e uomini che stanno affrontando una sfida importante, e vogliono farlo al meglio.

Altre dritte, sempre di Annamaria Testa, si trovano QUI e QUI.

Arnald Lobby del lavoro

Lo stesso tema è stato ripreso anche da Luisa Carrada, che ha riportato lo stralcio di una lunga intervista («Ripensare l’economia, riscoprire i valori») a un altro big della pubblicità, Giancarlo Livraghi. Ne riprendo un paragrafo importante, perché allarga il tema della ricerca del lavoro anche ai meno giovani, spesso dimenticati dalla retorica giovanilista che ricorre nel discorso politico e giornalistico dominante:

C’è un po’ di retorica nel pensare “solo” ai giovani, quando la situazione sta pesando su tutti. È diffusa, per esempio, la barbara stupidità per cui una persona di cinquant’anni, che in qualche pasticcio della “crisi” ha perso il lavoro, si sente dire che “è troppo vecchia” per poterne avere un altro. Così si perdono energie importanti – e si rischia anche di togliere il sostegno della famiglia ai giovani che non hanno ancora trovato un lavoro.

Per giovani e meno giovani, nonostante la crisi Livraghi è incoraggiante:

Non è mai del tutto vero che il lavoro “non si trova”. Non è facile, ma non è impossibile. La fatica, l’attesa, le delusioni possono essere snervanti – ma, presto o tardi, le occasioni ci sono. Occorre allargare la prospettiva, per scoprire anche percorsi diversi da quelli che si avevano in mente. Avere continuamente attenzione, ostinazione e pazienza – per capire dove si nascondono le possibilità. C’è il rischio che passino inosservate mentre si sta guardando da un’altra parte.

Leggi QUI il resto dell’intervista. A questo Luisa Carrada aggiunge – per giovani e meno giovani – un’attenzione al tema della passione. Consiglia infatti

di allargare la prospettiva e non fissarsi sul lavoro dei sogni. A volte alla prova dei fatti si rivela non essere affatto tale, mentre il lavoro dei sogni ti sorprende perché non lo avevi affatto sognato. A me, almeno, è successo così. Ci ho messo un bel po’, però :-) E in ogni caso mi ha aiutato il n° 5 di Steal like an artist: Side projects and hobbies are important. Mai mollare le passioni, soprattutto nei momenti peggiori.

Last but not least, ricordo una riflessione, sempre di Luisa, sul fatto che non basti mandare cv per trovare lavoro, né basti mandare mail: la telefonata e l’incontro faccia a faccia restano fon-da-men-tà-li anche in tempi di web avanzato.