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Saviano, gli studenti e la violenza in piazza

Giovedì 16 dicembre Roberto Saviano ha pubblicato su Repubblica una «Lettera ai ragazzi del movimento». Il giorno dopo, sempre su Repubblica, ha risposto ad alcune mail di studenti, che ne rappresentano centinaia di altre, suppongo. Nel frattempo, qualcuno – in rete e sulla carta – non ha perso l’occasione di criticarlo.

Attaccare un personaggio famoso è un vecchio trucco per attirare su di sé l’attenzione dei media. Con Saviano molti ci provano da sempre, con esiti più o meno brillanti. Di solito il giochetto resta una schermaglia fra sostenitori e detrattori dello scrittore: poco male, il mondo va avanti indenne. In questo caso, però, la critica a Saviano non è innocua, perché soffia sul fuoco della violenza in piazza. Per questo ne parlo.

Mi scuso se questo post sarà più lungo del solito, ma la questone è seria: con la violenza non si scherza.

Nella lettera Saviano è stato nettissimo:

«I passamontagna, i sampietrini, le vetrine che vanno in frantumi, sono le solite, vecchie reazioni insopportabili che nulla hanno a che fare con la molteplicità dei movimenti che sfilavano a Roma e in tutta Italia martedì. […] Se tutto si riduce alla solita guerra in strada, questo governo ha vinto ancora una volta. Ridurre tutto a scontro vuol dire permettere che la complessità di quelle manifestazioni e così le idee, le scelte, i progetti che ci sono dietro vengano raccontate ancora una volta con manganelli, fiamme, pietre e lacrimogeni. Bisognerà organizzarsi, e non permettere mai più che poche centinaia di idioti egemonizzino un corteo di migliaia e migliaia di persone. Pregiudicandolo, rovinandolo.

Quegli incappucciati sono i primi nemici da isolare. Il “blocco nero” o come diavolo vengono chiamati questi ultrà del caos è il pompiere del movimento. Calzano il passamontagna, si sentono tanto il Subcomandante Marcos, terrorizzano gli altri studenti, che in piazza Venezia urlavano di smetterla, di fermarsi, e trasformano in uno scontro tra manganelli quello che invece è uno scontro tra idee, forze sociali, progetti le cui scintille non devono incendiare macchine ma coscienze, molto più pericolose di una torre di fumo che un estintore spegne in qualche secondo.

Questo governo in difficoltà cercherà con ogni mezzo di delegittimare chi scende in strada, cercherà di terrorizzare gli adolescenti e le loro famiglie col messaggio chiaro: mandateli in piazza e vi torneranno pesti di sangue e violenti. Ma agli imbecilli col casco e le mazze tutto questo non importa. Finito il videogame a casa, continuano a giocarci per strada.»

«Caro Saviano, la tua lettera è ipocrita», ha scritto Stefano Cappellini sul Riformista. Ipocrita perché dipingerebbe il movimento come fosse tutto buono, ma solo inquinato da pochi facinorosi. Inoltre, continua Cappellini,

«Saviano si appoggia sulla comoda etichetta mediatica dei black bloc. […] Saviano, e molti prima di lui, chiaramente non sa di cosa scrive quando parla di black bloc. I quali sono un’area ben definita, con una “ideologia” e un network internazionale. E a Roma non c’erano. Dopo Genova 2001, black bloc è diventato sinonimo di teppista politico e, ogni qual volta si verificano incidenti gravi da parte di manifestanti mascherati, sui media si chiama in causa a sproposito il «blocco nero», con la stessa faciloneria con cui alla fine degli anni Novanta si parlava in casi analoghi di “squatter” e nei decenni precedenti di “autonomi”. Sono definizioni a prescindere, è un’informazione un tanto al chilo.»

Perciò Cappellini conclude:

«Ma se non si vuole essere ipocriti, se non si vuole fare la figura di quei commentatori da Raisport che davanti ai tafferugli allo stadio se la cavano con un “scene che non vorremmo mai vedere”, bisogna aggiungere un’altra e più importante considerazione. Non si può evocare e denunciare quotidianamente la crisi, il disagio, l’impoverimento – tutte realtà autentiche dell’Italia del 2010, tutti temi su cui Saviano si è soffermato – e poi avere paura di guardare a quali conseguenze può portare questa situazione.

Si badi, non si tratta giustificare la violenza. Ma di fare uno sforzo maggiore di comprensione dei fenomeni, di non chiudersi nelle versioni edulcorate e apologetiche della protesta, di non pensare che la sofferenza produca solo elenchi e ospiti da talk, questo sì, dovrebbe essere obbligatorio per chi vuole raccontare credibilmente il paese. Cullarsi sull’illusione che la violenza venga da fuori, da agenti provocatori e infiltrati, è comodo. Più arduo è farci i conti quando diventa la prassi di ventenni che non sono né black bloc né vecchi arnesi della contestazione. Il conflitto sociale, caro Saviano, non è un pranzo di gala. E nemmeno un format televisivo di prima serata.»

Analoga la posizione di Alessandro Dal Lago in «Scendere dal pulpito» sul Manifesto:

«Come si è visto dalle straordinarie immagini dei palazzi del potere assediati dai manifestanti, la rocciosa realtà del conflitto ha preso il sopravvento sulla realtà illusoria e distraente delle rappresentazioni mediali e delle “battaglie” parlamentari in cui la sola posta in gioco è quale destra governerà il paese.

Il conflitto, appunto. Deve essere il capo della polizia Manganelli, pensate un po’, a ricordare che la violenza è la manifestazione visibile di un disagio sociale terribile che accomuna studenti, precari e giovani esclusi da qualsiasi speranza. Tutto il polverone sugli infiltrati, i mitici black bloc, gli autonomi redivivi, gli anarchici in trasferta rivela l’incapacità di comprendere che la manifestazione di Roma non è che l’espressione di una turbolenza profonda che non bisognerebbe emulsionare con gli stereotipi più triti. […]

In questo senso la lettera che Saviano ha indirizzato su la Repubblica ai «ragazzi» del movimento è l’esempio perfetto dell’immagine irreale – a metà tra il sogno e l’esorcismo – che nella sfera separata dei media ci si vuol fare dei movimenti contemporanei.»

In sintesi, si accusa Saviano di avere una visione edulcorata e buonista di ciò che accade nelle piazze italiane; di non sapere di cosa sta parlando; di parlare da un pulpito paternalistico, senza aver potuto partecipare direttamente alle manifestazioni (per ovvie ragioni, che pure Cappellini dice di rispettare); di non vedere che il conflitto c’è davvero, perché i manifestanti sono arrabbiati e disperati davvero, e per questo molto più inclini ad alimentare la violenza, invece di isolarla.

Ora, a parte alcuni dettagli – che pure mostrano la pretestuosità delle critiche, perché dire ad esempio, come ha fatto Saviano, «il blocco nero o come diavolo vengono chiamati questi ultrà del caos» non equivale certo a parlare di black bloc tecnicamente intesi, ma anzi implica prendere le distanze dall’etichetta mediatica – prescindendo da certi dettagli, dicevo, in realtà Saviano ha capito meglio dei suoi critici quanto la rabbia e l’inclinazione al conflitto violento siano diffuse fra coloro che vanno in piazza in questi giorni.

Proprio perché le ha capite bene, ha scritto la lettera in modo netto, semplice, mettendoci il meglio delle capacità divulgative che ha. Senza se e senza ma. Anche a prezzo di alcune semplificazioni, certo.

Perché se ci si rivolge a molti – e soprattutto se questi molti sono arrabbiati – non si possono fare sottili distinguo, ma si deve per forza semplificare, tagliare il mondo a fette grossolane.

Non si può affermare, come fa Cappellini, di non volere «giustificare la violenza», per poi limitarsi a registrarla – in nome della «maggiore comprensione dei fenomeni» – senza spendere una parola in più contro di essa.

Non si può accusare Saviano di «avere un’immagine irreale – a metà tra il sogno e l’esorcismo» dei fatti di questi giorni, come fa Dal Lago, e nel contempo parlare di «straordinarie immagini dei palazzi del potere assediati dai manifestanti», perché ciò implica una valorizzazione positiva del conflitto violento.

Insomma criticare Saviano, in questo caso, fa passare l’idea che la violenza in piazza sia inevitabile, se non desiderabile. E che dunque i giovani (e meno giovani) che provano rabbia quando sfilano in corteo possano abbandonarsi anche a qualche azione violenta, se capita, visto che così va il mondo.

Ma la violenza in piazza va condannata con tutta la decisione e la chiarezza che si può, non solo perché va condannata sempre – il che ad alcuni potrebbe sembrare semplicistico, ad altri buonistico – ma perché, proprio come dice Saviano, «se tutto si riduce alla solita guerra in strada, questo governo ha vinto ancora una volta».

 

Roberto copia Roberto

Nell’ottobre 2008 Roberto Saviano fu minacciato dalla camorra e per questo ricevette moltissime manifestazioni di solidarietà: da una raccolta di firme indetta da alcuni premi Nobel su Repubblica, a una maratona di lettura di Gomorra organizzata prima da Fahrenheit di Radio 3, poi dai cittadini di Casal di Principe.

Mi colpì l’iniziativa degli allievi delle sezioni di grafica pubblicitaria dell’Istituto professionale Mattei di Caserta, i quali, coordinati dal professor Emanuele Abbate, ricostruirono il volto di Roberto componendo assieme le foto di un migliaio di cittadini casertani che decisero di “metterci la faccia”.

Questo manifesto rimase affisso per giorni a Caserta (clic per ingrandire):

In proposito allora scrissi «Mille volti per Saviano», in cui apprezzavo l’iniziativa di Caserta per almeno un paio di motivi. Innanzi tutto perché veniva dagli studenti di una scuola, ma soprattutto perché il manifesto era affisso nel territorio incriminato e le facce erano di persone che vivono in quei luoghi: ci vuole un certo coraggio, per chi vive da quelle parti, a farsi fotografare col rischio di essere riconosciuti.

Oggi, giocando sull’omonimia, Roberto Formigoni copia quell’iniziativa con un manifesto per le elezioni regionali, cui associa lo slogan «Roberto, uno di noi».

Ora, l’idea che i cittadini “mettano la faccia” a sostegno di un candidato ricorre nella comunicazione politica da anni, tanto da essere diventata ormai un’ossessione. Già non ne potevo più a fine 2008, quando scrissi Facce di supporto. Figuriamoci ora.

Ma il problema del caso Formigoni (che ringrazio Laura di avermi segnalato) non è solo la mancanza di originalità. Il problema è la spregiudicatezza con cui, alludendo a Saviano, si confondono situazioni, ragioni e passioni diversissime.

Manifesto Roberto Formigoni

L’orrore di Rosarno

Se ne parla solo ora, per i fatti della settimana scorsa, ma da anni ogni inverno migliaia di migranti si riversano nella piana di Gioia Tauro, in Calabria, per lavorare come braccianti alla raccolta degli agrumi.

Il 90% di loro vive in condizioni disumane.

Alla ex cartiera, una fabbrica dismessa nel comune di San Ferdinando, vivono circa 700 persone in una baraccopoli fatta con il cartone. Sono sfruttati e sottopagati, costretti a condizioni di semischiavitù e degrado, da ‘ndrangheta e caporalato.

Il documentario «La città di cartone» di Gianluigi Lopes (trovato su Redattore Sociale grazie ad Angelo) raccontava già nel 2008 l’agghiacciante realtà di questa terra.

Cosa ne penso? Questo (da RaiNews 24, 8 gennaio 2010):

Facce di supporto

Da un paio d’anni va di moda la faccia. Quella della gente comune, intendo.

I precedenti sono molti (e qualcuno mi aiuterà a fare un elenco), ma è più o meno dalla fine del 2006 che nella comunicazione l’uso delle facce sta impazzando: nella pubblicità commerciale e sociale, in politica, nei social network (vedi Facebook, il “libro delle facce”, appunto).

A Madrid, nel giugno 2007, una banca rivestiva i palazzi così (clicca per ingrandire):

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Voleva dire che la banca è coinvolgente, avvolgente, fatta di tanti come te. (E quale banca ormai dice di non esserlo?)

Nello stesso periodo, i distributori di benzina Erg hanno cominciato a ornarsi delle facce dei loro gestori, accompagnate dalla headline «Noi di Erg ci mettiamo la faccia». Così:

erg-la-faccia-di-aldo1

Vuol dire che se entri in un distributore Erg, trovi una persona in carne e ossa, la stessa della gigantografia. E se la persona ci ha messo il faccione sorridente, sarà perché è contenta di vederti e non ha niente da nascondere, e allora di lei, come di Erg, ti puoi fidare.

Dopo le pubblicità, sono piovute le iniziative sociali e politiche. A tempesta. Fra le tante mi piace solo quella – come ho già detto qui – dei ragazzi del Mattei di Caserta, che hanno composto la faccia di Roberto Saviano con i volti di cittadini qualunque:

manifesto-saviano-provincia-di-caserta

Perché mi piace? Perché per persone che sono nate, vivono e resistono in quei luoghi, mettere la propria faccia a sostegno di Saviano comporta rischi, significati e valori che non hanno equivalenti in altre parti d’Italia (e forse del mondo).

Significati che non trovo nell’iniziativa «Saviano continua», appena nata a Milano, a cui tutti mandano la propria foto dicendo di chiamarsi Maria Saviano, Luigi Saviano e così via, con la speranza che sia ingigantita e affissa sui muri della città. Fra le tante facce, c’è pure quella di qualche vip (per il momento ho riconosciuto Lella Costa) (sempre clic per ingrandire):

saviano-continua

Come non bastasse, ieri Falcon82 (ambasciator non porta pena) mi segnala Not Speaking in My Name, in cui i vari Mario Rossi che lo desiderano possono mandare una foto, che li ritrae con la scritta «I’m Italian and Mr. Berlusconi is Not Speaking in My Name!», per dissociarsi dalla battuta di Berlusconi su Obama abbronzato.

Perché le ultime non mi convincono? Innanzi tutto, che noia. Inoltre, non c’è niente di coraggioso nel mettere la propria faccia su quei siti web o sui muri di Milano. Infine, mi pare una faccenda di piccolo esibizionismo. Il vecchio gioco di farsi fotografare con i vip, tradotto in impegno politico o sociale (guarda come sono impegnato!) per farsi vedere dalla mamma e dagli amici.

Idea per una tesi di fine triennio: un’analisi semiotica dei vari significati, valori e obiettivi di queste campagne e analoghe.

Mille volti per Saviano

Sono tantissime le manifestazioni di solidarietà che Roberto Saviano ha ricevuto nei giorni scorsi: dalla raccolta di firme indetta dai premi Nobel su Repubblica, a una maratona di lettura di Gomorra organizzata dalla trasmissione Fahrenheit di Radio 3. Puoi leggere QUI i ringraziamenti che Saviano ha scritto oggi.

Fra le tante iniziative, questa mi ha colpita di più.

Gli allievi delle sezioni di grafica pubblicitaria dell’Istituto professionale Mattei di Caserta, coordinati dal professor Emanuele Abbate, hanno ricostruito il volto di Roberto componendo assieme le foto di un migliaio di cittadini casertani che hanno voluto manifestare solidarietà allo scrittore “mettendoci la faccia”.

Il manifesto è affisso da qualche giorno a Caserta ed è patrocinato dall’Amministrazione Provinciale.

Perché questa iniziativa mi piace più di altre?

Perché viene dagli studenti di una scuola.

Perché fotocomporre il volto di Roberto usando quelli di cittadini comuni vuol dire rispondere a quanti – come il ministro Maroni – hanno ricordato nei giorni scorsi che Saviano non è l’unico simbolo contro la camorra: certo non è l’unico, vuol dire, ma tutti gli altri sono con lui.

Perché il manifesto è affisso nel territorio incriminato e le facce sono del luogo: ci vuole più coraggio, per chi vive da quella parti, a farsi fotografare col rischio di essere riconosciuti, che a mettere una firma qualunque sul sito di Repubblica.

Risultato: la sfida alla criminalità organizzata è molto più forte.

Per vedere il manifesto, fai clic qua sotto.

«Io sono fortunata»

Una mia ex studentessa, laureata con me in Scienze della Comunicazione nel 2004, oggi vive e lavora a Milano.

Stamattina ho trovato questa sua mail su Roberto Saviano, a seguito del post di ieri. È una di quelle cose che, quando capitano, bastano da sole a riempirmi la giornata. Ho deciso di pubblicarla, perché mi piace pensare che qualcun altro, oltre a me, possa riempirsi la giornata con le parole di questa ragazza.

«Io sono fortunata, perché Roberto Saviano l’ho incontrato un paio di volte con la scorta.

La prima è stata nella mia azienda, deserta perché nessuno era ad attenderlo, perché nessuno sapeva che sarebbe arrivato: aveva comunicato un’altra data per non creare l’occasione per essere beccato. Nessun Capo, nessun Nome era ad attenderlo all’ascensore, anzi: c’era una riunione di quelle che si fanno ogni tre mesi, quelle strategiche, per cui nessuno al di sopra di un precario era disponibile e si era accorto di lui.

Guardava fuori, da solo, attorniato dalla scorta che gli dava le spalle per osservare che non sopraggiungesse nessuno. Guardava fuori dal finestrone vicino alla macchina del caffè, macchina spesso affollata; ci sono degli orari, io li conosco, in cui può essere solo tua. Uno è le 12 meno un quarto. Io prendo spesso il caffè alle 12 meno un quarto.

Ero in azienda da due mesi, non m’aspettavo di vederlo lì, io che Gomorra l’avevo comprato nel 2006, appena uscito. Lui si è girato, l’ho visto tra una spalla e l’altra, tra due omoni in scuro; lui si è girato, scostato dai suoi pensieri per un mio colpo di tosse.
Mi fermai e guardai loro. Dissi di dover prendere un caffè, giustificandomi, e Roberto spuntò fra quelle spalle con la faccia allegra e la sua sciarpa da rivoluzionario, dicendo: “Certo e come no!”.

Lo riconobbi subito, ma l’unica cosa stupida che mi venne in mente fu “Mannaggia, non ce l’ho il tuo libro qua!” E lui disse solo: “Me lo offri un caffè? I soldi non li prende”, e io ingenuamente gli volevo offrire un caffè al bar e lui con naturalezza mi disse: “Non posso, ma qua fa lo stesso”.

Rimasi lì con lui, assieme a una collega, per mezz’ora, finchè i Capi non riemersero dalle loro strategie.

Mi colpì la spontaneità delle sue domande: il lavoro, Milano per me che sono del Sud, il laghetto artificiale e le oche, il caffè, l’Università e Bologna.

Poi se lo portarono via i Capi, e lui mi fece solo un cenno con la mano e abbozzò un sorriso che non era ancora così triste come quello di oggi. Era ancora incosciente. Era forse più speranzoso.

La seconda volta è stata a Mantova, qualche settimana fa, in mezzo a un teatro gremito che lo acclamava e che gli ha dedicato un applauso come a un eroe triste della tragedia greca.

Io sono fortunata, perché sono riuscita a leggergli in faccia un sorriso napoletano, un accento verace e una forza necessaria e naturale che è difficile avere, perché per noi pare persa nella quotidianità.

Che fare? Non so. Però è bello distribuire quell’articolo.

Ciao Giovanna.»

La rabbia di Roberto: e noi?

Avevo pronto un altro post, ma lo rinvio.

Stamattina ho aperto Repubblica e c’era questo articolo di Roberto Saviano. È troppo lungo per essere letto a monitor. E non voglio che tu lo legga di fretta. Distrattamente, mentre sei al lavoro o stai studiando.

Perciò stampalo e leggilo con calma. Con molta. Calma. E poi piegalo e mettilo in tasca, o in borsa. Così lo puoi rileggere più tardi, magari in bus, o prima di dormire. E poi lo rileggi domani, con più attenzione di oggi. Meglio ancora se ci fai delle sottolineature. Se ne impari a memoria qualche pezzo. E dopodomani pure.

Mi piacerebbe che d’ora in poi tu lo portassi sempre con te, ecco.

Io lo farò.

Gomorra è troppo grosso per portarselo in giro, ma qualche foglio A4 stampato e piegato si può. Un piccolo sforzo glielo dobbiamo: lui vive barricato dietro una scorta, isolato anche nel giorno del suo compleanno. Noi giriamo a piede libero. Per il momento.

Dopo ogni lettura, vorrei ti domandassi: e io, cosa faccio?

Qui c’è l’articolo di Roberto, forza.

In aggiunta, una bella pittata che Attilio Del Giudice gli dedicò mesi fa.