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Antirenzismo e antiberlusconismo: somiglianze e differenze

Qualche giorno fa Luca Sofri ha twittato:

Prendo spunto da questo tweet per riflettere su somiglianze (una sola, ma cruciale) e differenze non tanto fra Renzi e Berlusconi – il paragone funziona solo se sei Crozza e vuoi far ridere, punto – quanto fra antirenzismo e antiberlusconismo. Va detto però che è ancora presto per fare un confronto serio, per cui prendilo come l’inizio di un gioco. Continua a leggere

Elezioni 2013: Perché il centrosinistra ha perso voti a favore di M5S

Le ragioni sono tante e se ne parlerà per giorni. Propongo una prima lista di perché:

1. Bersani e i suoi hanno continuato (sordi a ogni suggerimento contrario) a demonizzare la comunicazione, ostinandosi a pensare che sia roba “da imbonitori” (leggi: Berlusconi) o “da uomini di spettacolo” (leggi: Grillo). Continua a leggere

Il rosso e il grigio del centrosinistra italiano

Da un certo momento in poi (fra l’11 e il 13 gennaio) al grigio delle affissioni del Pd si è aggiunto il rosso dei poster di Sel. Al sorriso ambivalente di Bersani si sono aggiunti quelli pieni, aperti, gioiosi di questi due giovani:

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Chi ha paura di Nichi Vendola?

Sicuramente il Pd, che sale o scende a seconda di quanto Sel scende o sale: quando nei sondaggi scende il Pd, sale Sel, quando scende Sel, sale il Pd. Ne parlavano pure ieri sera a «Porta a Porta» Vespa, D’Alema, Alfano e il direttore del Tempo Sechi, commentando e confrontando gli ultimi sondaggi di Renato Mannheimer, Alessandra Ghisleri e Roberto Weber.

Ebbene, per tutti e tre gli istituti di ricerca gli elettori del Pd vedrebbero molto bene un’alleanza del Pd con Sel e Idv, come nella fotografia di Vasto. Con una speciale predilezione per Sel.

Bersani, Di Pietro e Vendola a Vasto

Ma D’Alema naturalmente vuole convergere con l’Udc. E mentre Vespa, Alfano e Sechi lo guardavano straniti, mentre altri sondaggi gli mostravano che gli elettori dell’Udc, invece, vogliono in maggioranza o stare soli o al massimo convergere con il centrodestra, lui ripeteva che non si occupa di sondaggi, ma di politica.

Come se i sondaggi, per quanto fallibili e discutibili, non servissero a far capire ai politici cosa pensano gli elettori e le elettrici. Ah già, è proprio questo il problema: D’Alema non se ne occupa perché i sondaggi gli ricordano che ci sono persone, là fuori.

E vabbe’. Allora colgo l’occasione per postare l’articolo su Vendola che ho scritto per Alfalibri di ottobre, il supplemento libri di Alfabeta2. È una recensione del bel libro di Elisabetta Ambrosi: Chi ha paura di Nichi Vendola? Le parole di un leader che appassiona e divide l’Italia, Marsilio, 2011.

Chi ha paura di Nichi Vendola?

Nichi Vendola è uno dei leader più spiazzanti degli ultimi anni. Mitizzato o demonizzato, pare non lasciare spazio a posizioni sfumate: o lo si adora o lo si detesta. Da quando poi, nel luglio 2010, si è proposto come leader del centrosinistra nazionale ribadendo più volte questa intenzione, gli animi si sono ancor più infiammati: alcuni lo vedono come il salvatore, colui che farà uscire la sinistra dalle sabbie mobili, altri come un narcisista, uno che racconta favole e non andrà da nessuna parte.

Poiché com’è noto le polemiche aiutano a vendere, l’editoria italiana ha cavalcato il fenomeno, sfornando nell’ultimo anno una decina di titoli in cui appare il nome Vendola: come autore, coautore, soggetto intervistato, o come oggetto di studio monografico.

In questa proliferazione, il lavoro più interessante è senz’altro Chi ha paura di Nichi Vendola? Le parole di un leader che appassiona e divide l’Italia (Marsilio, marzo 2011, 190 pp.) della giornalista Elisabetta Ambrosi. Interessante perché cerca di approfondire il caso Vendola al di là degli estremismi e lo interpreta alla luce dei più recenti studi di comunicazione politica e politologia. Non ci troviamo insomma di fronte all’ennesima agiografia, ma a uno studio da cui traspare una preparazione che affonda, a leggere la biografia di Ambrosi, in un dottorato in Filosofia politica. È dunque su questa solida base che l’autrice legge alcune nozioni chiave della proposta politica di Vendola, come bellezza, corpo, diversità, emozioni, lavoro, laicità, popolo e diverse altre.

Il libro, dicevo, è non è affatto agiografico, ma tradisce comunque la simpatia dell’autrice per Vendola. Una simpatia che però non le impedisce di focalizzare con lucidità un nodo fondamentale che – concordo con lei – Vendola deve ancora sciogliere, quello del «suo vero partito di riferimento: un partito di minoranza che sostituisca la vecchia Rifondazione, oppure una nuova coalizione democratica, come tanti dei suoi simpatizzanti sperano?» (p. 45). È proprio per rispondere a questa domanda che nell’ultimo anno anch’io, come semiologa e studiosa di comunicazione, ho riflettuto sul linguaggio di Vendola, su quelle sue indubbie doti comunicative che l’hanno portato alla ribalta nazionale. Ed è sempre pensando a questa domanda che vorrei aggiungere a quanto i lettori troveranno nel libro di Ambrosi tre ulteriori spunti sul modo in cui Vendola comunica: i primi due, per un leader che voglia guidare il centrosinistra nazionale, sono vantaggi; l’ultimo invece è uno svantaggio.

1. La forza principale del linguaggio di Vendola è aver introdotto in politica il corpo e i temi della fondamentali della vita. Vendola parla di ambiente, scuola, università, lavoro, sempre tenendo conto del modo in cui le persone li vivono tutti i giorni e mai dimenticando che, nel viverli, tutti provano emozioni: dolore, amore, tristezza, gioia, speranza. Inoltre parla di emozioni mostrando sempre anche le sue: si agita, si commuove, suda, ride, si appassiona. È per questo che appare autentico: non parla solo di emozioni, ma le esprime senza vergognarsene. E poiché le emozioni – come hanno mostrato gli studi dello psicologo statunitense Drew Westen che anche Ambrosi cita – sono in ultima analisi il motore delle scelte di voto, la comunicazione politica non può prescinderne.

2. Vendola ha un’abilità linguistica superiore alla media e una singolare capacità di produrre metafore, ossimori, chiasmi che diventano facilmente, anche con l’aiuto dei comunicatori di cui si circonda, slogan semplici e vividi. Valga per tutti l’esempio delle Fabbriche di Nichi, una metafora appunto, che furono chiamate anche «eruzioni di buona politica» in occasione dei loro stati generali nel 2010: una seconda metafora che si riferiva all’eruzione del vulcano islandese qualche mese prima. In particolare il linguaggio di Vendola produce a ciclo continuo quelle che la retorica chiama «figure per aggiunzione»: ripetizioni, liste, climax, e così via. Dunque moltiplica simboli, oltre che parole, e li accumula in modo anche contraddittorio: mette assieme Cristo e «Bella ciao», Aldo Moro e il subcomandante Marcos, la Bibbia e Marx, il gay pride e il femminismo, la taranta pugliese e i social network. Avvolto in questa nube, Vendola seduce i suoi e confonde gli avversari, compiace chi coglie tutti i vari riferimenti, ma riesce a ipnotizzare pure chi non li capisce e pensa «com’è bravo lui, come vorrei essere lui».

3. Il suo difetto principale sta nell’esagerare col lessico colto e nell’usare una sintassi logica e grammaticale involuta, a tratti simile a quella del burocratese e politichese di vecchia maniera: troppi incisi e frasi subordinate, troppi riferimenti dotti e divagazioni. Ma in vista dell’obiettivo nazionale Vendola deve prepararsi a parlare a tutti, non solo ai giovani più idealisti, ai vecchi più nostalgici e agli intellettuali più delusi dal Pd. Deve insomma scegliere una volta per tutte di uscire dalla nicchia che votava Rifondazione per rivolgersi alla platea più ampia che può votare una coalizione di centrosinistra. Il che vuol dire parlare anche alle persone economicamente e culturalmente più deboli, che dalla foresta di simboli possono uscire confuse, non affascinate; anche agli elettori attratti dalla Lega, che vogliono parole concrete e pochi fronzoli; anche ai moderati, che troppi appelli al subcomandante Marcos possono spaventare; anche infine agli indecisi, anzi soprattutto a questi, perché sono loro che oggi decidono le elezioni, ma allo stato attuale sono più inclini a rifugiarsi nell’astensione o nei toni antipolitici di Grillo e Di Pietro che nell’affabulazione di Vendola, che gli appare come l’ennesima malia di una politica infida.

La sfida, allora, se Vendola vuole avere qualche chance di guidare il centrosinistra nazionale, è ripulire la sua lingua dai residui di burocratese che la incrostano e dagli eccessi immaginifici che la gonfiano, per semplificarla e renderla più trasversale, senza però farle perdere potere evocativo e carica emozionale. Perché è pur vero che le questioni complesse non vanno banalizzate, ma la quadratura del cerchio che spetta oggi a una sinistra che si voglia davvero vincente è combinare la concretezza con la capacità di volare alto, nelle parole e nei contenuti, ed è spiegare la complessità in termini semplici. Insomma la vera sfida per la sinistra italiana è parlare davvero a tutti, una buona volta, non ai soliti pochi di sempre.

La differenza fra il Pd e Sel non si vede dalle federazioni romane. Ma dalla gestione della crisi un po’ sì

Accade (ieri) che la federazione romana di Sel se ne esca con un manifesto dedicato a Steve Jobs. Questo (clic per ingrandire):

Sel e Steve Jobs

Accade che gli elettori di Sel non gradiscano per niente, e in rete attacchino il manifesto a colpi di «con la crisi che c’è, questi pensano a Steve Jobs», «a Barletta  sono morte cinque donne che lavoravano in nero, e questi fanno il necrologio a Steve Jobs», «altro che Apple, ci vuole l’open source», «ecco come buttano via i soldi». E così via.

Le proteste si trasformano su Quink in esilaranti Selcrologi, ipotetici manifesti mortuari di Sel con Gesù Cristo, Bin Laden, Mike Bongiorno e altri. Fino alla morte della stessa federazione romana:

Selcrologio a SEL

Accade allora che Nichi Vendola intervenga subito sulla sua pagina Facebook, per sgridare quelli di Roma:

«Il genio di Steve Jobs ha cambiato in modo radicale, con le sue invenzioni, il rapporto tra tecnologia e vita quotidiana. Tuttavia fare del simbolo della sua azienda multinazionale – per noi che ci battiamo per il software libero – un’icona della sinistra, mi pare frutto di un abbaglio. Penso che il manifesto della federazione romana di SEL, al netto del cordoglio per la scomparsa di un protagonista del nostro tempo, sia davvero un incidente di percorso. Incidente tanto più increscioso in quanto proprio in questi giorni nella mia regione stiamo per approvare una legge che, favorendo lo sviluppo e l’utilizzo del software libero segna in modo netto la nostra scelta.»

Ora, la reazione di Vendola è a sua volta criticabile perché fatta col solito atteggiamento di chi sta sopra e accusa quelli sotto «di aver preso un abbaglio», dimenticando che un leader è responsabile anche degli errori dei sottoposti, dunque deve chiedere scusa anche per il suo, di errore, che come minimo consiste in mancato coordinamento e controllo. Inoltre Vendola si concentra solo sulla questione software libero e non dice una parola sul resto.

Infine poteva chiedere scusa con più trasporto invece di fare a tutti una lezioncina.

Vabbe’. Però ricordo l’errore di un’altra federazione romana, quella del Pd nel giugno scorso. Quando il manifesto era:

Cambia il vento Pd donna e uomo

Schiere di elettori ed elettrici del Pd si erano arrabbiati moltissimo per questo manifesto, in rete e fuori: lettere di protesta a Rosy Bindi, comunicati di «Se non ora quando» e chi più ne aveva più ne metteva.

Ma il Pd romano non si è mai sognato né di chiedere scusa né tanto meno di ritirarlo. Anzi: si sono arrampicati sugli specchi con giustificazioni pretestuose e assurde, insistendo che no e no, avevano ragione loro. Né mai Bersani si è sognato di sgridare nessuno. Trovi una sintesi del caso qui: «Il vento del Pd, le gambe delle donne e la mancanza di idee».

Insomma, la pasticcioneria e l’insipienza accomuna le due federazioni romane. Lo scarso coordinamento accomuna i due partiti. Ma nella gestione della crisi Vendola si è dimostrato un po’ migliore di Bersani. Tutto è relativo, eh.

 

A cosa serve lo sciopero di oggi?

Non è una provocazione. E nemmeno una domanda retorica. È un dubbio che mi assale da anni, sugli scioperi, e a maggior ragione su questo di oggi, indetto dalla Cgil e dalla Fiom, ma contestato dalla Cisl e Uil, sostenuto dall’Idv, da Sel, dalla Federazione della sinistra e dal Pd di Bersani (mentre altri nel Pd non sono d’accordo), ma contrastato da Fli e dall’Udc.

Camusso con cappellino rosso

Osserva giustamente Polisblog:

«Per ragioni che andrebbero analizzate a fondo, lo sciopero sembra svuotato del suo significato più profondo, e sembra essere sempre meno un’effettiva possibilità di ottenere qualcosa quando le concertazioni falliscono.

Anche perché i precari, i contratti a progetto, il popolo delle partite IVA, i lavoratori atipici, tutti coloro che, per prassi e per fatti compiuti, di fatto, non sono più tutelati dallo Statuto dei lavoratori – e che, prima del diritto a non essere licenziati senza giusta causa, dovrebbero conquistare il diritto al lavoro stabile – hanno un’oggettiva difficoltà a scioperare.»

In tema di diritti vanno poi considerati – come sempre si fa in questi casi – anche quelli di coloro che subiscono disagi più o meno gravi per lo sciopero. È in nome di diritti negati, per esempio, che oggi Ferruccio de Bortoli contesta la Cgil, che gli ha impedito di uscire col giornale cartaceo: Effetto sgradevole dello sciopero generale.

Ma il sacrificio di alcuni diritti sarebbe accettabile e pure sacrosanto, se lo sciopero servisse a qualcosa. Intendo: se avesse obiettivi precisi e portasse a risultati concreti.

In realtà, diciamocelo francamente: sono in dubbio proprio i risultati. I sindacati – uniti, e non a spizzichi e bocconi – non potevano trovare modi più efficaci di contrattare la manovra?

Sto assumendo una posizione conservatrice? Sto affondando nel ventre molle del centrismo più moderato? Al contrario, sto cercando di guardare oltre, sto cercando una posizione più innovativa e radicale.

Lo sciopero di oggi è un atto di protesta ritualizzato e irregimentato, che segue ancora codici del primo Novecento. Una forma di comunicazione per dire al governo: «Guardaci, ci siamo» e «Non ci piace quel che fai, vattene a casa». Con l’aggiunta di qualche parolaccia.

È a questo che serve. Anche in un’ottica internazionale: in tutte le capitali europee la gente protesta, e noi? Che figura ci farebbero un sindacato e un’opposizione che non portassero la gente in piazza? Perciò tutti in piazza. Ne parleranno i media oggi e domani. Inizierà il balletto dei numeri: 2 milioni diranno gli organizzatori, 200 mila la questura.

Più grosse saranno le cifre, più potente il simbolo.

E speriamo non ci siano violenze. Tranquilli, non ci saranno: non siamo a Londra e neppure nel Maghreb. Perché non siamo ancora abbastanza poveri, come ho detto più volte. Non oggi. Domani chissà.

Cari leader di sinistra, smettetela di invocare la bellezza

Un tempo, parlare di bellezza in politica era tipico della destra. Una destra, fra l’altro, della peggiore specie: pensa al culto della bellezza che avevano il nazismo (l’ariano era bello, gli ebrei e gli zingari brutti) e il fascismo («A cercar la bella morte», andavano i balilla).

Poi nel 1996 Veltroni pubblicò «La bella politica». E cominciò a parlare delle «belle cose» che accadevano a sinistra, mentre la bruttezza stava tutta a destra. In bocca a Veltroni, la bellezza divenne un passepartout banalizzante, assieme alla «semplicità» e alla «solarità». Ricordo che nel 2008 Veltroni riusciva a definire «semplici, solari e belle» le manifestazioni di piazza prima ancora che avvenissero (vedi Una manifestazione semplice e solare).

Una volta congelato il veltronismo (temporaneamente?), la bellezza è finita in bocca a Nichi Vendola, che concluse il suo discorso al primo congresso di SEL, nell’ottobre 2010, addirittura con un «elogio della bellezza».

E non poteva mancare Matteo Renzi, che queste tendenze le acchiappa subito:

La fame di bellezza come cifra della scommessa politica su un diverso modo di partecipare, su un diverso modo di vivere l’impegno pubblico a Firenze e altrove, su un diverso modo di stare assieme come comunità: un popolo, non un ammasso indistinto di gente (dal blog di Matteo Renzi «A viso aperto», vedi il post Fame di bellezza).

Infine ci si è messo anche il candidato sindaco del Pd a Bologna, Virginio Merola, che ha intitolato una parte del suo programma, quella sulla mobilità e il trasporto pubblico: «Il “progetto bellezza” per la Bologna del futuro».

Ma perché penso che la sinistra debba smetterla, con la bellezza?

Innanzi tutto perché la destra non ha mai smesso di farvi appello: da Berlusconi, che dice sempre di volersi circondare di «belle ragazze», «bei giovani» e definì Obama «giovane, bello e abbronzato» a Sandro Bondi, che ci ha persino scritto un libro: «La rivoluzione interiore per una politica della bellezza».

Dunque invocare la bellezza implica richiamare il frame degli avversari, giocare sul loro terreno. Il che in comunicazione è sempre perdente.

Ma il problema principale è che la bellezza è relativa: ciò che è bello per me, non lo è per un altro; ciò che è bello in un certo momento storico, non lo è dieci o vent’anni dopo, un secolo dopo. E in quanto relativa, la bellezza è anche autoritaria, antidemocratica: poiché non si può fare, ogni volta, una votazione per decidere quale azione politica/legge/programmazione cittadina è bella e quale no, sarà per forza il leader (e il partito) al potere a deciderlo. Ma alle cose e persone che il leader non considera belle cosa accade? Demolizione? Esclusione sociale?

Infine, il senso comune ha ormai interiorizzato un’idea di bellezza per cui i belli sono coloro che hanno soldi e potere, sono i vincenti. E allora come fa un leader di sinistra a parlare di bellezza senza apparire elitario, snob, lontano dai problemi dei meno abbienti, di quelli che non hanno il vestito giusto, il taglio di capelli giusto, il trucco giusto, non hanno una bella casa, una bella macchina, non possiedono begli oggetti – nel senso di bello che intende il leader, non importa che sia quello consumistico berlusconiano o quello pseudo-intellettuale della sinistra – solo perché non possono permettersi queste cose?

Perciò vi prego, cari leader di sinistra: non parlate più di bellezza.