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Com’era Umberto Eco a lezione, nelle aule universitarie, con gli studenti?

L'Espresso 26 febbraio

Sul numero dell’Espresso oggi in edicola, la copertina e molte pagine sono dedicate a Umberto Eco. Questo è il mio contributo:

Com’era Eco a lezione, nelle aule universitarie, con gli studenti? È stato il mio docente di riferimento in tutto – laurea, dottorato, post-dottorato – ed è per me difficile, oggi, condensare un’esperienza che è stata lunga, ricca, abbondante, addirittura strabordante (proprio com’era lui, in aula e fuori). Ci provo con tre parole: Continua a leggere

D’accordo con Michela Murgia: non chiamatela maternità surrogata

Gravidanza

Solo ieri ho letto su L’Espresso – non avevo seguito i post su Facebook – quanto Michela Murgia ha scritto sulla cosiddetta “maternità surrogata”: è la riflessione più intelligente, articolata, ponderata che io fin qui abbia letto su questo argomento. Concordo con ogni sua parola, incertezze incluse. Trovo inoltre profondamente umano e rispettoso, da parte sua, ribadire «questo è un tema su cui non ho certezze». D’ora in poi, con lei, parlerò solo di gravidanza surrogata, mai più di “maternità surrogata”. Assieme a lei, infatti, trovo profondamente sbagliato «l’uso dell’espressione “maternità surrogata”, collegata all’insistenza su una sorta di naturalità cogente insita nel legame di gestazione, definito con una certa enfasi “percorso di vita” e “avventura umana straordinaria”». Nelle parole di Murgia (i grassetti sono miei): Continua a leggere

Ma queste «lobby gay» cosa sono?

Il Giornale, Vince la lobby gay

Quando i media parlano di omosessualità, fanno spesso riferimento alle cosiddette «lobby gay». E non lo fa solo la stampa di centrodestra, come illustra la prima pagina del Giornale che ho riportato. Il problema è che l’espressione getta sempre e comunque, a destra come a sinistra, una luce inquietante sul tema dell’omosessualità. Ancor più inquietante dopo le discussioni dei mesi scorsi sui cosiddetti «preti pedofili»: Continua a leggere

Aspettando i risultati del voto, il punto sulla campagna elettorale

Elezioni 2013

Il giornalista Fabio Chiusi ha chiesto a me, Carlo Freccero e Annamaria Testa (in ordine alfabetico) di fare il punto per L’Espresso sulla campagna elettorale, esprimendo un giudizio in breve e un voto (da 0 a 10) su ciò che hanno detto e fatto i sei candidati per convincerci a votarli. Ecco i risultati. Continua a leggere

Confusa e felice

Oggi sull’Espresso la “Bustina di Minerva” di Umberto Eco parte da SpotPolitikGrazie, mio insostituibile e ineguagliabile maestro. Clic per ingrandire:

Eco Bustina di Minerva 8 giugno 2012

Il corpo delle donne 2: quello che i media non dicono

Dopo oltre una settimana di polemiche su «Il corpo delle donne 2» – il calco del documentario di Lorella Zanardo prodotto da Mediaset – è utile prenderci una pausa per ragionare su un tabù su cui i giornalisti di tutte le televisioni, tutti i giornali – e sottolineo tutti – non possono esercitare nessun tipo di giudizio critico, di cui non possono mai parlar male se non in modo generico e superficiale, ma soprattutto mai riferito alla testata per cui lavorano: la pubblicità.

Tutti i media – stampa, tv, radio e sempre più anche internet – vivono di pubblicità. Se c’è qualcosa di cui non possono parlare male, dunque, è ciò che permette la loro sopravvivenza. Se accusi una testata concorrente di usare pubblicità «cattiva» e di non essersi mai ribellata a questo, i giornalisti della testata concorrente non potranno mai ammettere che la loro pubblicità è «cattiva», ma potranno solo rispondere che anche tu lo fai, anche la tua pubblicità è «cattiva».

È questo il gioco infantile del «Cattivo!», «No, cattivo tu!» a cui abbiamo assistito la settimana scorsa. È per questo che le giornaliste e i giornalisti di Repubblica «non si sono mai ribellati» all’uso del corpo femminile sui giornali del loro gruppo editoriale, come finge di auspicare, in chiusura, «Il corpo delle donne 2», ben sapendo che mai potrebbero farlo: perché è un uso sempre ed esclusivamente pubblicitario quello denunciato da «Il corpo delle donne 2», che siano annunci stampa, redazionali, articoli costruiti per qualche accordo commerciale o copertine per vendere più copie.

Ma neanche i giornalisti di Mediaset, da cui è partito l’attacco, potrebbero mai ribellarsi a qualcosa che permette loro di prendere lo stipendio: possono criticare la pubblicità altrui, ma non la propria, per quanto identica a quella altrui.

Antonio Ricci, che ha realizzato «Il corpo delle donne 2», lo sa benissimo: per questo la sua operazione è stata furba, perché sapeva di scatenare un loop mediatico in cui nessuna risposta sarebbe stata diretta né esplicita e tutte sarebbero state perciò condannate all’inefficacia.

C’è un libro che spiega bene questi meccanismi e che ti consiglio di leggere attentamente: Adriano Zanacchi, Il libro nero della pubblicità. Potere e prepotenze della pubblicità sul mercato, sui media, sulla cultura, Iacobelli, Roma, 2010. Ecco cosa dice su questo punto:

«A qualcuno sembra che i giudizi critici sulla pubblicità siano diminuiti nel corso degli ultimi anni. Al mondo pubblicitario fa piacere affermarlo comunque. Ma bisogna dire che l’eco delle osservazioni critiche sulla pubblicità trova poco spazio nei media e, comunque, si dissolve rapidamente a causa di una tendenza dei media stessi a non trattar male la benzina del loro motore, senza i cui introiti giornali, periodici, emittenti radiofoniche e televisive avrebbero vita difficile o addirittura scomparirebbero. Oppure, come accade per i media commerciali, non produrrebbero profitti.

Se dunque è vero che la pubblicità viene accettata come forma di comunicazione in sé legittima, in quanto ritenuta utile allo sviluppo economico, è anche vero che basta poco perché una sua qualsiasi forma di provocazione risvegli risentimenti, avversioni e anche pregiudizi che covano stabilmente sotto la cenere, ben al di là della portata negativa, per qualsiasi ragione, di un singolo annuncio.

I contrasti o il disagio che la pubblicità può creare in determinate circostanze, più o meno occasionali, è documentato dalle sospensioni degli spot che talvolta sono avvenute nella programmazione televisiva. Le più recenti sono state decise negli Stati Uniti d’America in occasione dell’attentato terroristico dell’11 settembre 2001 e poi del suo primo anniversario: molti inserzionisti pubblicitari e alcune emittenti hanno scelto il silenzio, adottando un “atteggiamento di decenza e rispetto”, come ha detto il presidente di Publicis Conseil Jean-Yves Naouri.

Del tutto indifferente, invece, la televisione di casa nostra che, pur inondando i teleschermi di immagini agghiaccianti e di rievocazioni dolenti, non ha rinunciato agli introiti pubblicitari, interrompendo tranquillamente quelle immagini con sequele di spot inneggianti spensieratamente a deodoranti, automobili, detersivi, yogurt e merendine. Persino il film-documentario “In memoria”, trasmesso da Canale 5, ha mescolato terribili visioni delle torri colpite e distrutte e del pianto dei superstiti con le facezie della pubblicità» (Adriano Zanacchi, Il libro nero della pubblicità. Potere e prepotenze della pubblicità sul mercato, sui media, sulla cultura, Iacobelli, Roma, 2010, p. 204).

 

 

 

La donna in croce

L’associazione Telefono Donna, una onlus nata nel 1992 per dare ascolto e consulenza a donne e famiglie in difficoltà, ha commissionato alla Arnold WorldWide una campagna affissioni per il 25 novembre, Giornata mondiale contro la violenza sulle donne. Il manifesto raffigura una ragazza seminuda, sdraiata su un letto sfatto, in una posa che ricorda la crocefissione di Cristo; mentre la headline domanda «Chi paga per i peccati dell’uomo?», sotto si spiega: «Solo il 4% delle donne denuncia il proprio carnefice, le altre pagano anche per lui».

Telefono Donna, che lavora con il patrocinio del Comune di Milano, chiede allo stesso 500 spazi pubblici per le affissioni. La polemica infuria.

Ecco l’immagine (clicca per ingrandire):

telefono-donna-croce

L’ACCUSA

L’assessore al Decoro Urbano, Maurizio Cadeo (An) dice no al manifesto negli spazi del Comune. «Perché rispondere alla violenza con violenza?», domanda Cadeo. Della stessa opinione il capogruppo di An, Carlo Fidanza: «Il manifesto strumentalizza il simbolo della cristianità. In una città dove giustamente si sanziona chi viola il decoro pubblico, è giusto opporsi a questo tipo di campagne» (Il Corriere della Sera, Milano, 14 novembre 2008).

Il sindaco Letizia Moratti non si sbilancia, ma appoggia l’assessore: «È difficile dare giudizi, perché rischiano di essere personali. Lascio che sia Cadeo a decidere» (La Repubblica, Milano, 15 novembre 2008).

Alessandra Kusterman, ginecologa e responsabile del soccorso violenze sessuali della Mangiagalli: «Non avrei scelto un’immagine che ha a che fare con la sensibilità religiosa delle persone» (ibidem).

LA DIFESA

Si difende Stefania Bartoccetti, presidente di Telefono Donna e amica del sindaco Moratti: «Io sono cattolica praticante. La crocifissione vuole solo essere l’immagine della sofferenza estrema» (Il Corriere della Sera, Milano, 14 novembre 2008).

La senatrice del Pd Marilena Adamo: «Non trovo offensivo accostare alla sofferenza la figura di Cristo. A meno, naturalmente, che qualcuno non pensi che il problema sia proprio la sofferenza femminile. E poi, al di là del moralismo, dov’è tutta l’efficienza della giunta che si accorge sempre in ritardo delle cose collezionando brutte figure?» (La Repubblica, Milano, 15 novembre 2008).

Molto più drastico Oliviero Toscani: «Non ho visto le foto, ma non importa: censurare è subumano. Punto. non esiste peggior violenza della censura» (ibidem).

Vittorio Sgarbi si fa vivo da Salemi, dov’è sindaco: «Sono pronto a ospitare la campagna. La giunta milanese dovrebbe dimettersi, invece di continuare a menarla con queste stupidaggini» (La Repubblica, Milano, 13 novembre 2008).

RICAPITOLANDO

Non mi convincono né l’accusa né la difesa.

L’accusa di blasfemia era prevedibile. Penso a una vecchia copertina de L’Espresso, che nel gennaio 1979, per parlare della legge sull’aborto, raffigurava una donna incinta in croce. La copertina fu censurata e il numero ritirato. Ecco un’immagine (a scarsa definizione, ma è l’unica che ho sotto mano):

copertina-espresso-19-gennaio-1979

Penso alle polemiche suscitate in tutto il mondo da Madonna, che nel Confessions Tour del 2006, cantò Live to Tell su una croce per attirare l’attenzione sugli orfani per Aids in Africa.

madonna-in-croce

Si sa che la chiesa cattolica e altre chiese cristiane non tollerano che una figura femminile stia sulla croce: dimenticano – hanno sempre dimenticato – che durante le rivolte giudaiche del I secolo d.C. anche le donne furono crocifisse. Dimenticano che esiste una tradizione iconografica di sante crocifisse, come Santa Librada (spagnola, II secolo d. C.), Santa Vilgefortis (portoghese, XV secolo) e Santa Giulia (da Nonza, in Corsica, V sec. d.C.).

Ora, la Arnold WorldWide e il suo committente non potevano non sapere queste cose. L’hanno fatto apposta, naturalmente. Il principio è sempre questo: parlino bene o male, purché parlino. Non a caso, a difendere la campagna, s’alzano Toscani e Sgarbi, entrambi maestri nell’applicare il principio.

Per questo non mi piace il manifesto. E neppure i suoi paladini.

Non penso affatto che l’immagine sia blasfema. Non è la croce, infatti, a essere strumentalizzata, ma il corpo femminile. Ancora una volta – per l’ennesima volta – si raffigura una ragazza bella, scomposta e nuda. Spogliata, ostentata, usata per attirare sguardi e far parlare. Che la causa sia buona o cattiva, il corpo femminile è sempre strumentalizzato.

È così che si combatte la violenza sulle donne?